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20-5-2015

 

Heidegger prosegue: La ricerca scientifica e filosofica mira da qualche tempo (siamo nel ‘59) in modo sempre più deciso a costruire ciò che viene chiamato “metalinguaggio” (qui ce l’ha con i filosofi analitici) giustamente pertanto la filosofia scientifica che si prefigge di costruire tale super linguaggio, intende se stessa come metalinguistica. Metalinguistica suona come metafisica, non soltanto suona “come” ma è, la metalinguistica è infatti la metafisica della totale trasformazione tecnica di ogni lingua in semplice strumento interplanetario di informazione, metalinguaggio e sputnik, metalinguistica e tecnica missilistica sono la stessa cosa. // (Poi cita una poesia, una poesia di Stefan George, il titolo è Das Wort (la parola). Meraviglia di lontano o sogno io portai al lembo estremo della mia terra e attesi fino a che la grigia Norna (Norna è la dea del fato, del destino) il nome trovò nella sua fonte, meraviglia o sogno potei allora afferrare consistente e forte ed ora fiorisce e splende per tutta la marca. (la marca è un territorio di confine) Un giorno giunsi colà dopo un viaggio felice con un gioiello ricco e fine, ella cercò a lungo e al fine mi annunciò “qui nulla di eguale dorme sul fondo”, al che esso sfuggì alla mia mano e mai più la mia terra ebbe il tesoro, così io appresi triste la rinuncia: “nessuna cosa è dove la parola manca”. Un numero infinito di persone considera non di meno anche questa cosa dello sputnik un prodigio, questa “cosa” che gira vertiginosamente in uno spazio del mondo ove non è mondo, e per molti essa era ed è tutt’ora un sogno, prodigio e sogno della tecnica moderna, la quale dovrebbe essere la meno disposta a riconoscere valido il pensiero che sia la parola a procurare alle cose la loro esistenza, non le parole ma le azioni contano nei calcoli dell’ossessivo calcolare planetario, lasciamo la fretta del pensare, non è proprio anche questa “cosa” quel che essa è, e così come essa è, in nome del suo nome? Certamente. /…/ Se l’affrettare nel senso del massimo potenziamento tecnico della velocità, di quella velocità nel cui spazio temporale soltanto le macchine e i congegni moderni possono essere quello che sono, (questi marchingegni sono quelli che sono perché esiste la velocità cioè esiste il concetto di velocità) se l’affrettare dunque, non avesse parlato all’uomo e non l’avesse posto sotto il suo comando, (sta parlando della tecnica ovviamente) questo comando non avesse spinto e disposto l’uomo alla fretta, se la parola di un tale disporre non avesse parlato non ci sarebbe nessuno sputnik, nessuna cosa è là dove la parola manca. La parola del linguaggio e il suo rapporto con la cosa, con qualunque cosa che è sotto il riguardo dell’essere e il modo di essere della cosa stessa resta un enigma. (l’enigma sarebbe il rapporto fra la parola e la cosa, ecco già questo dice delle cose perché nessuna cosa è dove la parola manca, beh la dice già lunga sul fatto che se non c’è la parola, se manca la parola non c’è nessuna cosa, non c’è nulla. Questo Heidegger l’aveva inteso molto bene ovviamente, non è un caso che riprenda questa poesia di Stefan George)  Dice poi: l’ultimo verso infatti appunto “nessuna cosa è dove la parola manca” in tedesco “Kein ding ist wo das Wort gebricht” l’ultimo verso potrebbe allora avere anche un significato diverso da quello di un asserzione e costatazione volta nella forma del discorso indiretto che dice “nessuna cosa è dove la parola manca”, quel che segue i due punti, dopo la parola “rinuncia” (perché ci sono due punti dopo “così io presi triste la rinuncia: nessuna cosa è dove la parola manca”) non indica ciò cui si rinuncia, ma indica l’ambito entro cui la rinuncia deve immettersi, indica il comando a consentire e accordarsi al rapporto fra parola e cosa ora esperito, (“ora” esperito nel momento in cui si dice allora si esperisce la cosa, allora c’è la cosa, e la cosa è quello che è) ciò di cui il poeta ha preso la rinuncia è la sua precedente opinione nei riguardi del rapporto fra cosa e parola, rinuncia concerne il rapporto poetico con la parola a lui fino a quel momento consueto, la rinuncia è la disposizione a un rapporto diverso, nel verso “Kein ding sei wo das Wort gebricht” “sai” non sarebbe allora sul piano grammaticale un congiuntivo (“sai” vuol dire “sia”, l’indicativo è “ist”) al posto dell’indicativo “ist” bensì una forma dell’imperativo, un ordine cui il poeta obbedisce per rispettarlo anche in futuro, nel verso “nessuna cosa “sia” laddove la parola manca”, il “sia” significherebbe allora “non considerare d’ora in poi una cosa come esistente dove la parola manca” (è un imperativo categorico” e non so per quale via mi ha evocato le parole di Parmenide “sulla via del non essere non ti ci incamminerai, ma seguirai la via dell’Essere.” Con quel “sia” inteso come comando, il poeta si dispone ad accettare quella rinuncia per cui egli abbandona la convinzione che qualcosa esista, già esista, anche quando la parola manca. (Non c’è già la cosa) Che significa rinuncia? La parola “Verzicht” Rientra nell’aria del verbo “verzeihen”; una locuzione antica dice “Sich eines Dinges verzeihen”, e significa “abbandonare qualcosa” “rinunciarvi”. Zeihen corrisponde al latino dicere, al greco de…cnumi (mostrare) all’antico alto tedesco “sagan” (il sagen del tedesco moderno), da cui “saga”. La rinuncia è un Entsagen, letteralmente un “disdire”. Nella sua rinuncia il poeta dice “no” al suo precedente rapporto con la parola, questo soltanto? No. Nell’atto in cui rifiuta qualcosa, già gli è stato destinata una chiamata alla quale egli non si sottrae più. (nella su rinuncia, dice, rinuncia soltanto all’idea che qualcosa ci sia anche senza la parola? già questa è una bella rinuncia. Rinuncia di fronte a ciò che incontro, a pensare che questa cosa che incontro sia già lì prima che io la dica, prima della parola, non che io la dica propriamente, però aggiunge no, non è proprio così, ciò a cui non si sottrae è ciò che gli è stato destinato “una chiamata alla quale egli non si sottrae più”. Chi lo chiama a quella maniera, se non la parola?) In termini più chiari il poeta ha capito che solo la parola fa sì che la parola appaia e sia pertanto presente come quella cosa che è, la rinuncia che il poeta apprende è della natura di quella compiuta rinuncia alla quale soltanto è dato attingere ciò che da lungo nascosto è propriamente già destinato. Il poeta esperisce la sua vocazione di poeta come una chiamata alla parola, ma cosa raggiunge il poeta? Non una semplice nozione, seguendo questa chiamata, egli giunge nel rapporto della parola con la cosa, questo rapporto non è però una relazione fra la cosa da una parte e la parola dall’altra (qui c’è la parola e lì c’è l’ente e la relazione è in mezzo) la parola stessa è il rapporto che via via incorpora e trattiene in sé la cosa, in modo che essa è una cosa. Sulle prime e per lungo tratto pare che alla fonte del linguaggio (poi dirà che è la parola la fonte dell’Essere) il poeta abbia bisogno di portare soltanto le meraviglie che lo incantano (qui sta sempre commentando la poesia di George) e i sogni che lo estasiano, pare che le parole che a quella fonte egli va, con non incrinata fiducia, a cercare siano solo quelle che convengono a quanto di meraviglia e sogno ha preso corpo nella sua fantasia, prima di allora il poeta, confermato in questo dalla felice riuscita delle sue precedenti composizioni poetiche, era dell’opinione (qui sta parlando di George) dell’opinione che le cose poetiche meraviglia e sogni avessero già, da e per sé, garanzia di esistenza (come ciascuno pensa) e che tutto consistesse poi nel saper trovare per esse anche la parola atta ad esprimerle e rappresentarle. (non è questo il pensiero comune?) Sulle prime e a lungo è parso che le parole fossero come pigli che afferrano ciò che già esiste, ed è per sé esistente considerato, e ad esso danno consistenza ed espressione portandolo così a bellezza. (qui ripete ancora una parte della poesia): Qui meraviglia e sogni, là nomi che afferrano gli uni e gli altri fusi in uno e la poesia era nata, tutto fuso insieme, bastava essa a quello che è il compito del poeta dar vita a ciò che permane, perché duri e sia? Ad un certo punto giunge però Stefan, per Stefan George il momento nel quale il poetare che fino allora gli era stato consueto, quel poetare sicuro di sé viene bruscamente meno riportandogli alla mente la parola di Hölderlin, ma ciò che permane fondano i poeti, infatti un giorno il poeta arriva il viaggio per di più è stato buono e anche per questo egli è pieno di speranza, dalla dea del destino carica d’anni e chiede il nome per il gioiello ricco e fine che porta sulla mano (questo gioiello ricco e fine è la parola) solo che lei chiede il nome della parola (e questo crea qualche problema) questo non è meraviglia di lontano e neppure sogno, la dea cerca a lungo ma invano, alla fine gli annuncia “nulla d’eguale dorme qui sul fondo” (non c’è la parola per dire la parola, “nulla d’eguale” cioè nulla che sia come il gioiello ricco e fine che gli sta sulla mano) la parola capace di far essere quel gioiello che sta semplicemente lì sulla mano quello che esso è, una tale parola dovrebbe scaturire da quella sicura custodia che riposa nella quiete di un sonno profondo, soltanto una parola veniente di lì potrebbe portare e fermare il gioiello nella ricchezza e gentilezza del suo semplice essere. (Ripete le parole del poeta) “Nulla di eguale dorme qui sul fondo” a tal dire esso sfuggì alla mia mano (questo gioiello) e mai più la mia terra ebbe il tesoro. Il fine ricco gioiello che era lì sulla mano non giunge all’essere di una cosa, non diventa tesoro cioè ricchezza custodita nella poesia di quella terra, il poeta non precisa la natura del gioiello che non poté divenire tesoro della sua terra ma che gli donò tuttavia l’esperienza del linguaggio, l’occasione di apprendere quella rinuncia nella quale l’abdicazione corrisponde, da parte del rapporto fra parola e cosa, l’assenso a un disvelamento, l’oggetto ricco e fine è cosa diversa dalla meraviglia di lontano oppure sogno, se poi la parola canta il cammino poetico proposto proprio di Stefan George è lecito pensare che nel gioiello sia adombrata la delicata ricchezza della semplicità che nell’ultimo periodo della sua attività si presenta al poeta come ciò che deve essere detto “la parola della parola”. Qui Heidegger affronta una questione, poi diremo mano a mano, e se la porta appresso perché ovviamente non ha soluzione cioè quella parola che è all’origine della parola, e la Norna, la dea del destino, del fato glielo dice qui “sul fondo non giace nulla di simile”, non c’è, non c’è il fine, il limite del linguaggio, il punto da cui comincia. Certo che non c’è, Heidegger poi lo allude, lo allude nel dire autentico del poeta e il dire autentico del poeta è quello che ovviamente nel pensiero di Heidegger è quello che lascia dire l’Essere, lo lascia apparire, lo disvela, λήθεια. Però ciò che qui il poeta cerca di fatto è la parola della parola, cioè l’essenza propriamente della parola, ma qui si scontra contro un qualche cosa che non c’è perché è la parola che dà l’essenza alle cose, dà l’Essere alle cose, e quindi ci vorrebbe un altro Essere che dia Essere all’Essere della parola, la cosa non avrebbe più senso. Heidegger lo pone come una sorta di enigma, però di fatto non possiamo parlare di enigma quanto piuttosto del tentativo di dare anche alla parola o meglio di trasformare la parola in ente, lui dirà tra un po’ che la parola non è un ente al pari di qualunque altro, è un'altra cosa, è ciò che da l’accesso all’ente, infatti lo dice utilizzando la poesia “nulla è là dove la parola manca”, se nulla è là dove la parola manca è ovvio che anche la parola potrebbe essere intesa come ente, ma a questo punto la cosa non funziona più. L’apparire di qualche cosa che è il λόγος, lo vedremo più avanti, λόγος non inteso come il discorso, il racconto, la ragione, nulla di tutto ciò, il λόγος è una delle forme dell’Essere per Heidegger, è questo logos che consente l’apertura cioè il linguaggio consente l’aprirsi della parola che nomina qualche cosa, nel momento in cui nomina qualche cosa questa cosa è. C’è.

Intervento: la parola è ciò che differenzia l’istinto dalla pulsione …

Intervento: l’uomo, diciamo, arrivando a possedere la parola nominando gli oggetti, qualificandosi come possessore della parola, identificandosi come ciò che padroneggia la realtà, come il bambino che si distacca dall’uniforme primordiale sia come essere sociale, essere sociale organizza la società che si differenzia dal gruppo indistinto dall’orda primitiva, o comunque dai gruppi degli animali …

Intervento: dal branco degli animali, esattamente grazie, ecco possedendo la parola ecco io la intenderei così …

Heidegger ha un’opinione differente, perché dice: “quando poniamo una domanda al linguaggio, una domanda sulla sua essenza, già del linguaggio deve esserci stato fatto dono, non possiamo chiederci qualcosa sul linguaggio se già non possediamo il linguaggio, se vogliamo porre una domanda sull’essenza, sull’essenza cioè del linguaggio allora anche del significato di “essenza” ci deve essere già stato fatto dono, domanda “a” e domanda “su” presuppongono qui, come sempre, che ciò cui e su cui va la domanda abbia già fatto giungere la parola sollecitatrice, ogni posizione di domanda è possibile solo in quanto ciò che si fa problema ha già iniziato a parlare e a dire di se stesso. // (cita ancora la frase: nessuna cosa è dove la parola manca) Accenna al rapporto tra parola e cosa prospettando il modo che la parola stessa risulti il rapporto, in quanto essa trae all’essere (la parola) e mantiene nell’essere ogni cosa (qualunque essa sia), senza la parola che si identifica con la forza del rapporto, il complesso delle cose, il mondo, sprofonda nel buio insieme all’io che porta all’estremo lembo della propria terra, alla fonte dei nomi ciò che ha incontrato di meraviglia e di sogno. Perché quel che ci interessa è un’esperienza, un essere in cammino, noi oggi in questa lezione che segna il passaggio tra la prima e la terza conferenza (in genere la seconda fa questo, il passaggio fra la prima e la terza) rifletteremo sul cammino, è necessaria al riguardo un’osservazione preliminare dato che la maggior parte di loro si occupa in prevalenza di ricerca scientifica, (il pubblico che aveva)nelle scienze la via al sapere va sotto il nome di metodo, “metodo” “μετα δς” “attraverso il cammino” “lungo il cammino”, il metodo non è specie nella scienza moderna un puro strumento al servizio della scienza anzi al contrario è il metodo che ha assunto a proprio servizio la scienza. Questo fatto è stato visto in tutta la sua portata per la prima volta da Nietzsche, che così ne parla nelle annotazioni che seguono, queste fanno parte del corpus degli inediti pubblicato postumo dal titolo “Der Wille zur Macht” “La volontà di potenza”. La prima dice “ciò che caratterizza il nostro XIX secolo non è la vittoria della scienza ma la vittoria del metodo scientifico sulla scienza”. L’altra notazione incomincia con la proposizione “Le idee più importanti furono trovate per ultime, ma le idee più importanti sono i metodi” in realtà anche Nietzsche è giunto assai tardi a scoprire questo rapporto tra metodo e scienza e precisamente l’ultimo anno della sua lucidità mentale nel 1888 a Torino. Nelle scienze non solo il tema viene posto dal metodo ma viene immesso nel metodo e vi resta sottoposto, la corsa folle, che oggi trascina le scienze verso mete che esse stesse ignorano, ha la sua forza propulsiva nel potenziamento e nel progressivo assoggettamento alla tecnica del metodo e delle possibilità a questo intrinseche, nel metodo è tutta la potenza del sapere, il tema rientra nel metodo. Bene vi lascio riflettere su queste questioni, mercoledì prossimo riprendiamo questo testo.