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20-3-2013

 

Dobbiamo continuare a lavorare sulla questione del potere. Questa sera intendo dirvi alcune cose a partire da una questione che con il potere non c’entra direttamente, ma indirettamente sì. È una questione che riguarda il principio di non contraddizione e sollevata da Severino un po’ di anni fa. Si tratta della nozione di “tutto”. Il “tutto” è un problema che gli umani si sono posti da quando hanno incominciato a pensare, e cioè qual è la causa del “tutto”? I presocratici come Anassimandro, Anassimene e altri posero la causa nei quattro elementi o nell’acqua. Ma non è tanto il fatto che si ponga come principio l’acqua o altro, ma il fatto che ci si interroghi sul “tutto”. Cos’è il “tutto” filosoficamente? Il “tutto” è l’onnicomprensivo, ciò che non esclude nulla fuori di sé, cioè quel qualche cosa che essendo onnicomprensivo non lascia fuori alcunché, alcuna cosa. A questo riguardo Severino considera che proprio a partire dall’idea di “tutto”, che è una delle idee più antiche che esistano nel pensiero degli umani, interviene una contraddizione che lo ha questionato parecchio, una contraddizione che lui chiama “originaria”. Che distingue dalla contraddizione comunemente intesa; la contraddizione comunemente intesa è quella che afferma che un qualche cosa non è quel qualche cosa, esempio: Eleonora non è Eleonora, questo tavolo non è questo tavolo, in termini più radicali “l’essente non è l’essente” cioè “ciò che è non è ciò che è”, quindi se l’essente non è quello che è, è nulla. Quindi la contraddizione dice che l’essente è nulla, questa è la contraddizione più radicale, che però è risolvibile, è risolvibile perché si può togliere, basta negare il contenuto della contraddizione e cioè negare che l’essente non sia l’essente, e quindi si afferma che l’essente è l’essente. Si toglie la contraddizione quando si nega il contenuto della contraddizione, cioè ciò che la contraddizione dice, se io dico che l’essente non è l’essente, se io nego questo affermo che l’essente è l’essente. Ma c’è un’altra contraddizione, un’altra più drammatica perché originaria, che non può togliersi, che riguarda l’idea di “tutto”. Il “tutto” abbiamo detto che è l’onnicomprensivo, mentre la parte sarebbe invece quel qualche cosa che viene invaso da un sopraggiungente, da qualche cosa che interviene mentre il “tutto” non è invaso da nulla perché contiene ogni cosa. Dice Severino che il “tutto” promette di essere onnicomprensivo, ma poi di fatto ciò che appare non è mai tutto. Il problema, anche di Husserl, è  che ciò che appare non è mai tutto, perché appaiono gli essenti, appare l’orologio, appare il pacchetto di sigarette, appare Eleonora, appare Cesare, Beatrice, appaiono queste cose, ma non sono il tutto, manca sempre qualche cosa a ciò che appare, quindi il tutto dice di sé di essere l’onnicomprensivo ma nel concreto non mantiene ciò che promette. Di volta in volta appare, di questo tutto, sempre una parte, quindi il tutto si mostra dicendo di essere tutto però appare come non tutto, e questa è una contraddizione perché deve apparire come tutto e non come una parte. Appaiono sempre e soltanto degli essenti Cesare, l’accendino di Beatrice, ora il problema è l’eliminazione della contraddizione, che per una contraddirne normale abbiamo visto come funziona, e cioè basta negare il contenuto della contraddizione e allora si torna alla forma non contraddittoria, invece in questo caso, che chiama contraddizione C, non può togliersi o, più propriamente può togliersi all’infinito, perché? Perché ciò che appare del tutto, gli essenti, e che quindi non è il tutto propriamente, deve essere completato da qualcosa che sopraggiunge, e quindi aggiungendo cose ci si avvicina al tutto, ma questo avvicinarsi al tutto è all’infinito perché mano a mano si aggiungono sempre cose, quindi la eliminazione, il toglimento della contraddizione per quanto riguarda il concetto di “tutto” avviene solo all’infinto. Sarà il tutto e cioè l’onnicomprensivo che non può essere invaso da nessun sopraggiungente, quando non ce ne saranno più. In altri termini il toglimento della contraddizione avviene all’infinito, che essendo infinito tuttavia non è praticabile perché l’infinito per definizione non ha fine, non avendo fine, quando tutti gli essenti saranno tutti gli essenti? La questione che a me interessava a partire da Severino, non è tanto la questione che pone Severino, ma il fatto che per funzionare questa teoria che mette in piedi Severino intorno al “tutto”, il “tutto” deve essere quello che è, cioè la definizione che lui dà di tutto deve corrispondere a un che, a un quid che è quello. Soltanto a questa condizione il suo discorso regge, come dire che lui può costruire questo gioco linguistico se considera “tutto” in quella accezione. Severino è un filosofo quindi c’è l’eventualità che, come i filosofi, pensi invece che questa cosa “sia” quello che è, tant’è che il problema è rendere coerente, cioè non contraddittorio il “tutto”, perché se fosse un’istruzione il problema non ci sarebbe, perché non sarebbe né contraddittorio né non contraddittorio, è niente, è un’istruzione, un comando, ed è questo che a me interessava porre, e cioè che di volta in volta si pone un qualche cosa pensando che sia quello e cioè che la definizione, il modo in cui io intendo, corrisponda a questo quid, questo che. Posto in questo modo lo esploro, lo elaboro, lo articolo, lo sviscero ma sempre considerandolo come se non fosse un atto linguistico. Questa riflessione intorno al “tutto” ci porta a considerare come funziona una elaborazione teorica, quindi anche un qualunque discorso che procede teorizzando, elaborando, argomentando sempre a partire dall’idea che ciò che si è considerato sia esattamente quello, e nel modo in cui lo si è considerato. La questione del “tutto” è una delle questioni più antiche del pensiero degli umani, il tutto è necessariamente il vero, e quindi se questo tutto risulta auto contraddittorio ecco che ciò che dovrebbe essere assolutamente vero perché è ciò che è necessariamente, costituisce un problema, un problema filosofico non indifferente e che non ha soluzione, posta in questi termini, come non hanno soluzione tutte le altre aporie costruite immaginando che siano qualche cosa che, essendo fuori dal linguaggio, debba essere quello che è per virtù propria. Ma se il “tutto” viene considerato come una decisione allora ne seguono tutta una serie di considerazioni, per esempio la volta scorsa dicevamo di quella locuzione “non può dirsi tutto”; questa locuzione può essere sostenuta o può essere abbattuta, dipende dal modo in cui io considero questo concetto, questo sostantivo “tutto”, se lo intendo in un modo non posso mai dirlo, se lo intendo in un altro lo dico, ma è una mia decisione perché “il tutto” non esiste al di fuori di ciò che io decido che sia, cioè non è fuori dal linguaggio, questa è la questione centrale, e quindi se il tutto è posto come lo pone Severino diventa auto contraddittorio, se lo pongo in un altro modo no, non è più auto contraddittorio. Intervento: non si può affermare tutto su un significato…

Questa è la posizione di Sini e di Derrida e di tutta l’ermeneutica, cioè se io chiedo che cosa sta pensando Cesare in questo momento lui può dirmelo, ma dopo io posso chiedere a Cesare di precisare quello che ha detto e allora cercherà di precisare quello che ha detto, ma io posso continuare a chiedere di precisare e lui potrà andare avanti all’infinito, in questo senso ecco che non è possibile dire tutto quello che Cesare stava pensando. Questa è un’argomentazione anche abbastanza robusta che potrebbe apparire essere difficile da confutare, se io con “tutto” intendo questo però e cioè la totalità dei pensieri che Cesare, in questo caso, può costruire, ma il “tutto” non è questo, questa è una definizione di tutto che ho decisa io, quando infatti chiedo a Eleonora: “hai preso tutto prima di uscire?”, allora qui “tutto” è inteso altrimenti, in questo caso il tutto è praticabile perché lei ha preso tutto, tutto quello che doveva prendere. Quindi chiedersi se può dirsi o non può dirsi “tutto” non è un problema filosofico, nemmeno logico, è un problema retorico, cioè dipende dal modo in cui si intende questo sostantivo “tutto” che di per sé non significa niente. Di per se non significa nulla se io non gli impongo un significato, allora da quel momento certo, se io dico che il tutto è questo onnicomprensivo tutta l’argomentazione che segue e che fa Severino è perfettamente coerente. D’altra parte è anche coerente quella che fa Sini e cioè che il tutto, seguendo tutta l’ermeneutica heideggeriana eccetera, è coerente anche questa perché il tutto è un tutto che è sempre da dire, mentre per Severino il tutto non è un tutto che è sempre da dire ma è un tutto che dovrebbe essere già detto, dovrebbe già essere lì, solo che quando appare, appare sotto forma di alcuni essenti perché mancano tutti gli altri essenti, è qualche cosa che deve essere riempito attraverso il sopraggiungere di altri elementi all’infinito. Ma la questione importante è intendere di volta in volta che si sta facendo un gioco. Mentre nel poker una certa carta rappresenta il re di fiori e si usa come re di fiori, in un certo modo, anche in ambito filosofico un certo concetto si usa in un certo modo, e tutte le volte che interviene si userà in quel modo, ma questo modo è altrettanto arbitrario del re di fiori; dire che il tutto è l’onnicomprensivo nel quale non c’è nessuna possibilità che sopraggiunga alcunché, non è un dato di fatto ma è una regola del gioco, però questo crea in tutto il pensiero occidentale, direi planetario, dei problemi di portata devastante, perché a questo punto inesorabilmente qualunque cosa è un gioco linguistico, inserita all’interno di un gioco linguistico, ma anche affermare questo è un altro gioco linguistico. Come dicevo anche sabato, non sto dicendo come stanno le cose, sto costruendo un gioco che può avere la virtù di consentire di accorgersi, in qualunque cosa si stia facendo, pensando, elaborando eccetera, che sto facendo un gioco, sto facendo un altro gioco. Questo porta immediatamente al crollo di ogni possibilità di avere potere perché a questo punto le parole, i discorsi, le argomentazioni perdono il potere nel senso che non hanno può nessun potere al di fuori del gioco in cui sono inserite: un poker di assi all’interno del gioco del poker ha un potere, ma al di fuori di quel gioco nessuno. Quindi il discorso che stiamo facendo, che muove verso la considerazione che ciascuna cosa è all’interno di un gioco linguistico, toglie il potere agli umani, e questo è il problema, siccome l’unica necessità, e questa cosa appare sempre più evidente, l’unica necessità degli umani è quella di imporre la propria ragione, di potere dire le proprie verità, se gli si leva questo, gli si leva la vita.