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20 febbraio 2019

 

La struttura originaria di E. Severino

 

Volevo partire da una considerazione banale. Banale come quasi tutte le considerazioni, solo che poi, se le si prosegue, si trovano altre cose. La considerazione è questa: gli umani non sanno di essere parlanti. Non lo sanno in una certa accezione, perché se doveste chiedere a qualcuno se sa che sta parlando, questo risponderebbe di sì, ovviamente. Tuttavia, viene da pensare che non sia affatto così perché, se lo sapessero, qualcuno avrebbe incominciato a trarne delle implicazioni, avrebbe incominciato a dedurre delle cose a partire dal fatto che gli umani parlano. Nessuno lo ha mai fatto, nessuno, mai. Tantissimi hanno parlato del linguaggio, sin dai sofisti; tuttavia, nessuno ha mai tratto alcuna implicazione da questa considerazione banalissima, e cioè che gli umani parlano. Gli umani parlano e, quindi, che succede a seguito di ciò? Nessuno si è mai fatto questa domanda. Ho trovato curioso tutto questo. Questi autori che stiamo considerando sono autori validissimi; parlano di linguaggio, come Severino in questo caso, non fanno altro che parlare di linguaggio. Non solo non hanno mai messo propriamente a tema il linguaggio ma non hanno mai posta la questione di cui vi dicevo prima, e cioè che cosa implichi il fatto che gli umani parlano. Sembra la cosa più banale del mondo, e in un certo senso lo è, ma, e quindi? Che cosa ne viene dal fatto che parlino, dal fatto cioè che qualunque cosa approccino, in qualunque modo, per qualunque motivo, questo approccio è inesorabilmente vincolato al linguaggio: un bruco non ha approccio alle cose, gli umani sì, per il solo fatto che parlano, e questo cambia tutto. Ma torno a dirvi un’altra volta: nessuno si è mai posta questa domanda. È una domanda che occorre porsi e, in effetti, tutto ciò che abbiamo fatto, da quando lavoriamo su queste questioni e, quindi, da tanto tempo, non è altro che porre questa questione: gli umani parlano, e quindi? E incominciare a articolare, elaborare e considerare tutte le implicazioni, tutto ciò che ne viene da questo fatto semplicissimo. Anche questo testo che stiamo leggendo, La struttura originaria, che è un testo straordinario e quando si incomincia ad apprezzarlo si incomincia a trarne le tantissime cose che Severino ha da offrire, non solo come questioni su cui riflettere, ma come strumenti del pensare, strumenti raffinatissimi, come avrete avuto modo di notare. È un libro straordinario perché pone l’accento sulla questione che a noi interessa: occorre che parlando ciò che dico sia quello che è, cioè non sia non quello che dico. Severino insiste moltissimo su questo, giungendo a fare un passo ulteriore, e cioè ciò che dico occorre, sì, che sia quello che dico, occorre cioè che sia incontrovertibile, non autocontraddittorio, che non sia cioè ciò che non è, ma, perché non sia ciò che non è, che cosa occorre? Perché se ciò che dico non è quello che dico ma è ciò che non dico, allora si crea un problema proprio nel linguaggio, nel suo funzionamento, perché se quello che dico è quello che dico allora posso fare un passo in una qualunque direzione; altrimenti, se quella cosa è quella cosa ma anche ciò che quella cosa non è, sono bloccato, perché non c’è più nessuna direzione da seguire, quella cosa è quella cosa ma anche tutte le altre. Il che è vero in parte, nel senso che implica tutte le altre cose ma le esclude, le deve escludere per potere essere quello che è, cioè per potere essere quella struttura originaria, per usare le sue parole, incontrovertibile, quella struttura che afferma che l’intero è l’intero, che l’essere è l’essere e non è un’altra cosa. Più propriamente, potremmo dire che è quel significato che non è un altro significato, il che è forse più perspicuo. Al punto in cui siamo, qual è il problema in cui incappa Severino? Il suo discorso fin ad ora è stato abbastanza esplicito, cioè lui vuole reperire la struttura originaria, e cioè potere stabilire con certezza che una certa cosa è quella che è. Intento nobilissimo perché se non lo fosse non sarebbe utilizzabile, direbbe Heidegger, cioè non sarebbe utilizzabile dal linguaggio per proseguire, quindi, è necessario che sia quello che è. La sua idea è che, per potere essere quello che è, deve porre la sua contraria e toglierla. Ora, però, il problema che gli si pone è questo: ciascun significato implica tutti gli altri significati, come il significante di De Saussure: se non esistessero tutti gli altri significanti, e cioè se fosse fuori della parola, non sarebbe niente; se è nella parola, allora implica tutti gli altri significati. Quindi, ecco che arriva il problema, perché per potere stabilire un qualche cosa devo porre quello che questo qualche cosa non è e toglierlo, e fin qui tutto bene. Ma con l’intero, con il tutto, come facciamo? Come posso stabilire una certa cosa se questa cosa è debitrice, per la sua stessa esistenza, del tutto? Come faccio per potere togliere questo tutto e, quindi, per confermare quella cosa? Prima devo porlo, ma come faccio a porlo? E, allora, siamo arrivati al punto in cui incomincia a porlo formalmente: pongo il tutto, però, è formale, non è il tutto concreto. E se io pongo il tutto formale, e non il tutto concreto, è come se non lo ponessi perché, di fatto, non sto ponendo nulla. Per potere porre il tutto io devo porre, per usare sempre le sue parole, l’assoluto semantico di questo tutto e, quindi, tutti i significati possibili e immaginabili, presenti, passati e futuri. Operazione complicata, ovviamente. Ma se non lo posso fare, se non posso porre questo tutto, non lo posso togliere, rimane lì, e se rimane lì questa cosa che dico contiene anche ciò che quella cosa non è e, quindi, non la posso utilizzare; non è più, quindi, la struttura originaria e crolla tutto. E, allora, sono costretto a trovare il modo per potere porre questo tutto; anche se sembra impossibile, devo porlo per forza, per poterlo poi togliere, certo, ma devo porlo. Anche quando De Saussure dice che il significante è in una relazione differenziale con tutti gli altri significanti, questi “tutti altri significanti”, questo tutto, è posto in un certo modo, non è che De Saussure ha compilato una lista di tutti gli altri significanti possibili e immaginabili, ovviamente. L’ha posto in modo formale e, pertanto, non l’ha tolto, secondo Severino. Quindi, questo tutto rimane lì, oltrepassa il significato ma non è quel significato; quindi, è la sua negazione e, come sappiamo, questa sua negazione deve essere, certo, posta per poterla togliere, ma se non la posso porre concretamente, come la tolgo? La tolgo formalmente, ma toglierla formalmente è come togliere un’intenzione, un progetto, una supposizione. Uno potrebbe dire a De Saussure “sì, va bene, il significante è debitore di tutti gli altri significanti, ma siamo sicuri? Verifichiamo”. Come facciamo? È lunga la lista di tutti quei significanti che quel significante non è. Questo è il problema che si sta ponendo qui Severino, ed è a questo punto che siamo arrivati. Adesso vediamo come risolve il problema. A pag. 421, paragrafo 6, Nota. La posizione dell’intero semantico… L’intero semantico è quel significato più tutto ciò che lo oltrepassa. La posizione è il porre qualcosa: da quel momento è posto, è lì. Potremmo dire, usando le sue parole, categoricamente e non progettualmente, non è un progetto, è proprio posto, come quando dico una cosa, non ho il progetto di dirla, l’ho detta. La posizione dell’intero semantico come tale implica L-immediatamente la posizione dell’esclusione che l’intero sia oltrepassato da un più ampio orizzonte. Quindi, per porre l’intero semantico, se questo intero semantico è, allora è incontraddittorio affermare che sia oltrepassato da qualche altra cosa, perché se è l’intero… L’intero non è oltrepassato, altrimenti non sarebbe l’intero. Se la posizione dell’intero non implicasse la posizione dell’esclusione dell’oltrepassamento dell’intero, questo non sarebbe posto come tale. Se io non escludo la possibilità o, più propriamente, la posizione dell’oltrepassamento dell’intero, se non la escludo non pongo neanche l’intero, perché l’intero è posto a condizione che io escluda l’oltrepassamento dell’intero, cioè ciò che cosa che va oltre l’intero. Ma, anche qui, non è da pensare che esso sia, semplicemente, la somma dell’intero, come non inclusivo di quell’esclusione, e di questa esclusione:… Non è semplicemente che l’intero sia questa esclusione in quanto sottrazione di qualche altra cosa. No, dice, …se ciò fosse, l’esclusione dell’oltrepassamento dell’intero escluderebbe che l’intero non inclusivo – e perciò oltrepassato dall’esclusione – sia oltrepassato da un orizzonte. Certo, perché se questo intero lo pongo come qualcosa che ho tolto da qualche altra cosa, vuole dire che c’è un’altra cosa che conteneva l’intero, e quindi questo intero non è più l’intero. Oltre l’intero, nulla. Certo, se no non è l’intero. L’intero è posto solo in quanto è posto che oltre di esso non è nulla, ovvero in quanto l’orizzonte che oltrepassa l’intero è posto come tolto. Questo oltrepassamento dell’intero non può esserci perché, se ci fosse, l’intero non sarebbe l’intero, e, quindi, questo oltrepassamento deve essere tolto. Questo orizzonte appartiene pertanto esso stesso, come tolto, all’intero. Non è qualcosa che si aggiunge, che si toglie, ma appartiene all’intero in quanto tolto. È l’Aufhebung di Hegel: l’altro elemento non è che si aggiunge o si sottrae, trapassa in un’altra cosa, diventa quella cosa lì. Direbbe Severino rispetto agli astratti: gli astratti non posso non considerarli come astratti, ma questi astratti fanno parte del concreto; è soltanto un’astrazione l’idea di poterli togliere dal concreto, ma il concreto è l’intero. Corollario: se la posizione dell’intero come tale implica la posizione del nulla, segue che se il nulla non è posto non è posto nulla… È un corollario che segue logicamente quello che ha detto prima: se non pongo il nulla, allora non pongo nulla. Devo porre il nulla, cioè l’oltrepassamento dell’intero come tolto; un nulla che non è un’altra cosa che si aggiunge e che si sottrae all’intero, ma è l’intero stesso, fa parte dell’intero stesso. 2) Ogni significato vale L-immediatamente… L sarebbe la logica, logicamente-immediatamente, immediato per la logica. Cos’è immediato per la logica? L’incontrovertibilità. Per il fenomeno, invece, la F-immediatezza è l’apparire immediato di ciò che appare. “Ogni significato vale L-immediatamente come una costante del semantema infinito”; o anche: “Nessun significato può essere una variante del semantema infinito”. Se fosse una variante allora varia e pertanto potrebbe anche non essere una costante, quindi, potrebbe non appartenere al tutto; e se non appartiene a tutto, è un problema. Infatti ogni significato appartiene all’essenza del significato “Totalità del significato”. L’essenza di questa proposizione, che lui mette tra virgolette, “Totalità del significato”, è che qualunque significato appartiene alla totalità del significato, è ovvio. Nel significato “essere” – che, anche qui, non è da intendere come essere formale, ma come quell’orizzonte semantico che, appunto, continet omnia – è cioè inclusa la totalità dei significati (=degli esseri); ossia ognuno di questi appartiene, nel modo che gli è proprio, all’essenza dell’essere (o dell’intero). Ogni significato, quindi, appartiene alla totalità dei significati, a questo tutto, a questo intero. Che ogni significato sia una costante del semantema infinito, è affermato L-immediatamente, ossia ogni significato è L-immediatamente noto come appartenente all’essenza del significato “essere”. Ogni significato appartiene alla totalità del significato. Qualunque significato io mi trovi a dire appartiene alla totalità dei significati, a questo tutto, a questo intero. Vedete che qui si pone già la questione: io parlo di un significato, però, appartiene alla totalità, ma questa totalità dei significati posso porla solo formalmente, mentre il significato che pongo lo pongo concretamente. Capite, quindi, questa disequazione, dice Severino, tra una cosa e l’altra, che poi porta alla contraddizione C. …ogni essere è L-immediatamente noto come appartenente all’essenza dell’essere: appunto in quanto di ogni significato si afferma L-immediatamente che è un essere.  La stessa cosa può dirsi del significato: ogni significato appartiene alla totalità dei significati. Appunto per questa onnicomprensività del semantema infinito… Il semantema infinito è onnicomprensivo, comprende tutti i significati. …è necessario affermare che se un significato qualsiasi non è posto, non è posto nemmeno l’intero semantico:… Perché il semantema infinito, il tutto, l’intero, deve comprendere ogni significato. Se io non pongo anche un solo significato, allora questo non è più l’intero, non è più il semantema infinito, l’assoluto semantico. …appunto perché un significato è posto solo allorché tutte le costanti del significato sono poste, e ogni significato è costante dell’intero semantico. Ogni significato è costante dell’intero semantico. Qualunque significato io utilizzi, questo significato è una costante, cioè appartiene necessariamente all’intero semantico. Pertanto l’affermazione L-immediata della disequazione tra il significato originario e l’assoluta materia semantica importa che l’apertura originaria dell’intero non sia posizione dell’intero, ossia valga soltanto come l’intenzione di questa posizione; sì che la posizione dell’intero, che effettivamente si realizza, è soltanto una posizione astrattamente formale, e ciò che è effettivamente posto non è ciò che si intende porre. C’è una disequazione tra il significato originario, che io pongo, e l’assoluta materia semantica, perché il significato concreto ce l’ho, mentre l’assoluto semantico posso porlo solo formalmente, non posso fare la lista di tutti i significati del mondo. Questo comporta che l’apertura originaria dell’intero è il porsi dell’intero in relazione al significato che io sto dicendo. Quando dico un significato pongo l’intero dei significati; non posso porre un significato che sia al di fuori della totalità dei significati. Cosa vuole dire questo? Che se io pongo questo intero, di fatto, non lo sto ponendo concretamente; quindi, dico di porre l’intero ma, di fatto, non lo sto ponendo. Sta incominciando a delinearsi il suo problema: come faccio a porre qualcosa? Perché devo porlo e poi toglierlo, certo, ma se non lo pongo rimane lì. Se rimane lì questo significato non è neanche posto perché non è quel significato, perché se fosse quel significato allora sarebbe quel significato che implica tutti gli altri significati, che devo porre per poterli togliere. Se non li pongo, allora questo significato è nulla. Se l’assoluta materia semantica non è originariamente posta, il significato originario, come posizione dell’intero semantico come tale… Il significato originario è la posizione dell’intero, esige l’intero, altrimenti non c’è neanche lui. …pone come l’intero ciò che non lo è appunto perché è soltanto la significanza astrattamente formale dell’intero. Quindi, dico di porre l’intero, ma non lo pongo. Ecco il significante di De Saussure, che è in relazione differenziale con tutti gli altri significanti. Va bene, sta dicendo Severino, verifichiamolo. Lì mettiamo lì, a uno a uno, e devono essere tutti presenti; solo allora li posso togliere, solo allora il significante è quello che è. Finché non tolgo questo oltrepassamento, quel significante è nullo. Il significato “intero semantico” si distingue certamente da ogni altro significato che sia determinazione dell’intero; ma, in quanto è tenuto fermo come così distinto, esso vale come una significanza formale dell’intero. Tenere distinto qualche cosa significa porlo astrattamente. È il concreto ciò che impedisce di distinguere, di separare le cose. Se io lo distinguo, anche se poi, per averci a che fare, non posso che considerarlo astrattamente, però, di fatto, se io lo fisso, lo pongo come astratto, separato dal concreto, lo pongo formalmente, pongo la forma ma non concretamente la cosa. Vi ricordate l’esempio della lampada sul tavolo. È chiaro che io non posso che pensare di riferirmi alla lampada, ma se io mi riferisco alla lampada non mi riferisco a questa lampada che è sul tavolo, perché questa lampada che è sul tavolo è tutto il mondo di cui è fatta. Quindi, se mi riferisco alla lampada non mi riferisco alla lampada che è sul tavolo, cioè non pongo la lampada che è sul tavolo, pongo un’altra cosa, ciò che questa lampada sul tavolo non è e, quindi, si pone la contraddizione. Siamo a pag. 423. L’intero, come significato formale, è pertanto un significare l’altro da sé, o un riferimento ad altro, ossia al contenuto concreto dell’intero (o, più precisamente, al contenuto concreto dal quale la forma si distingue). Che è ciò che stavamo dicendo rispetto alla lampada. L’intero, come significato formale, è pertanto un significare l’altro da sé, perché formalmente non è il concreto; quindi, se io mi riferisco a quella lampada e non a quella lampada che è sul tavolo, non mi sto riferendo a quella lampada che è sul tavolo, e, quindi, mi sto riferendo a qualcosa che è altro da sé. …è questo riferimento ad altro, appunto perché la semplice significanza formale dell’intero semantico non è, come tale, l’intero semantico. Mi riferisco ad altro perché questa lampada non è questa lampada che è sul tavolo, che è quella che è in relazione al mondo che la fa essere questa lampada che è sul tavolo. Ma se quell’“altro”, che è il termine del riferimento del significato formale,… Il significato formale si riferisce a qualche cosa, a un altro, cioè, quando parlo della lampada che è sul tavolo mi riferisco alla lampada ma, riferendomi alla lampada, mi riferisco a qualche cosa che rimanda a qualche cos’altro, cioè a questa lampada che è sul tavolo. Ma se quell’“altro”, che è il termine del riferimento del significato formale, non è presente… Se la lampada che è sul tavolo è presente, ma se è l’intero semantico no, è diverso. È chiaro che l’esempio della lampada sul tavolo è più facile: questa lampada, se io la considero, non è questa lampada che è sul tavolo, perché ho astratto e, quindi, va bene, c’è questa lampada che è sul tavolo, ma c’è. Se però parliamo dell’intero semantico diventa un po' più complicato: dove sta? Ma se quell’“altro”, che è il termine del riferimento del significato formale, non è presente, e se d’altra parte qualcosa come “intero semantico” è ugualmente posto (ma vale come una significanza formale da distinguere dalla significanza formale che compete alla forma in quanto concretamente distinta dal contenuto)… Qui sta facendo una distinzione tra il formale che appartiene al concreto, perché il concreto comporta anche il formale… Ma se io separo il formale dal concreto non sono più un tutto. Il formale e il concreto posso pensarli anche come qualcosa di unito, che fanno parte del tutto. Se, invece, li separo allora no. … il riferimento ad altro cade su di sé, ossia il riferimento si realizza senza che si realizzi il termine di riferimento;.. Mi riferisco a questa lampada che è sul tavolo, ma la lampada che è sul tavolo non c’è. E, allora, questa lampada, che ho qui per le mani, a che si riferisce? Non si riferisce più alla lampada che è sul tavolo. È chiaro che qui sta parlando dell’intero, che è più complicato da maneggiare rispetto a una lampada che è sul tavolo. Quindi, questo riferimento a che cosa si riferisce? Si riferisce soltanto a sé, cade su di sé, dice lui, senza potere riferirsi a ciò a cui, di fatto, questo formale, questa forma, si riferisce. Se c’è la forma c’è la sostanza, come diceva Aristotele; se non c’è la sostanza non c’è neanche la forma. È chiaro che posso distinguere ma li distinguo idealmente, perché non posso pensare una forma senza la sostanza e viceversa. ...sì che, come si diceva, ciò che non è l’intero – appunto perché è soltanto un significare astrattamente formale dell’intero – vien posto come l’intero. Cosa vuole dire che questo significato formale cade su di sé? Non ha nulla a cui riferirsi, per cui questo significato formale ricade su di sé, cioè, si pone come se fosse lui l’intero, ma non lo è. Quindi, pongo intenzionalmente l’intero formale ma, di fatto, non lo pongo; è come volere porre la forma senza la sostanza, si vuole fare qualcosa che non si può fare. Nella nota a pié di pagina dice …la contraddizione che deriva dal porre il formale come l’intero deve essere tolta… Questa contraddizione deve essere tolta, perché se io continuo a pensare il formale come l’intero, di fatto, non sto ponendo l’intero. È come il “tutti i significanti” di De Saussure: tutti, certo, ma quali? Devo porre il concreto. Infatti, dice, …il toglimento di questa contraddizione è infatti, con tale riconoscimento, esso stesso formale, e la contraddizione permane come non tolta nella misura in cui l’assoluta materia semantica non è effettivamente posta. Se non pongo l’effettiva materia semantica, come faccio a toglierla? Rimane formale, nel senso che penso di porre qualcosa che, in realtà, non sto ponendo, perché questo intero, che io penso formalmente, non è l’intero. La totalità dei significati, per cui quel significato esiste in una relazione differenziale, non c’è. Sta dicendo questo, e ciò che sta dicendo implica questo: è un’idea ma non esiste, perché non la posso porre. Ora, si potrebbe anche dire che non la posso porre sostanzialmente, però occorre tenere conto che stiamo parlando di significati, quindi, di parole, e, pertanto, posso porlo benissimo. A pag. 424. La contraddizione, che in questo duplice modo si produce, è tolta nel modo seguente. Nessun significato è posto se l’intero semantico, come significato formale, non è posto. Ci sta dicendo che nessun significato è posto se l’intero semantico, come significato formale, non è posto. Non posso porre nessun significante se non si pone desaussurianamente il formale dell’intero dei significati. Se non pongo questo formale non posso porre neanche il significato. Se l’intero non è posto come intero, non è posto nulla… Devo porre questo intero per potere porre qualche cosa; il problema è come faccio a porlo. In altri termini, ogni significato è posto solo se è posto l’intero semantico; se poi quest’ultimo non è posto concretamente nella sua materia assoluta, e quindi vale come significato formale, anche quel qualsiasi significato posto sarà posto come significato formale, e l’orizzonte semantico che in tal modo verrà a costituirsi sarà l’apertura di una contraddizione. Quindi, ha mostrata una contraddizione. Se io pongo questa soluzione formalmente, sta dicendo, se questo significato lo pongo all’interno di un intero semantico, anche lui, questo significato, sarà formale, così come ho posto l’intero. Ma se pongo il formale senza porre il concreto, la contraddizione permane, perché io devo porre il concreto, la totalità semantica, devo porla e poi toglierla, e formalmente non lo posso fare. Porre categoricamente (e non semplicemente progettare) la disequazione tra l’assoluta materia semantica e l’originario significa pertanto porre categoricamente (e non semplicemente progettare) che l’originario è l’apertura originaria della contraddizione. Se permane questa disequazione tra l’assoluta materia semantica e l’originario, cioè un qualunque significato, allora l’apertura originaria è una contraddizione. È una contraddizione perché questa disequazione tra le due cose non è risolvibile: se non risolvo quella cosa, cioè se non pongo concretamente l’intero semantico, non posso porre neanche quel significato che io ho in animo di porre, non pongo niente. Ma, insieme, tale posizione categorica è la determinazione del compito dell’originario: il toglimento della contraddizione dedotta. Il compito dell’originario è cioè quello di essere l’intero. Questo è il compito dell’originario, che è anche il compito di Severino. Dove è chiaro che il compito è dato appunto dalla necessità di liberare l’originario dalla contraddizione. Finché permane la contraddizione questo originario è nulla. Finché non pongo ciò che oltrepassa il significato che io sto dicendo, se non lo pongo per toglierlo, non posso dire ciò che quel significato non è. È come se ponessi l’essere senza porre il non non-essere, per cui questo non-essere rimane accanto all’essere, è essere ma anche non-essere e, quindi, è tutto quello che mi pare. Come dicevano i medioevali: ex falso quodlibet.