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20 gennaio 2021

 

L’attualismo di G. Gentile

 

Siamo al Capitolo VI, L’autosintesi, Paragrafo 5. L’autonoema. Se la sintesi del logo astratto si fonda e risolve nell’autosintesi del concreto, ogni ritmo di pensiero, che, come si vide nella logica dell’astratto, lega nel giudizio il soggetto e il predicato (il nome e il verbo), trae origine e valore dal ritmo autosintetico del logo concreto. Nel cui dialettismo il noema, o atto dell’intelligenza che, unendo soggetto e predicato, intende il soggetto, si converte in autonoema. Questo noema, che è l’atto intellettivo, è ατός, cioè, si produce da sé.  L’autosintesi non è infatti soltanto produzione di un’autogenita realtà. Quella realtà che in essa si genera è sapere, conoscere, intendere: e realtà è in quanto sapere, conoscere, intendere. Quindi, la realtà è un sapere, è un conoscere; se non è questo, non è niente. L’Io è questa realtà affatto sui generis, e singolare: la quale, a differenza di ogni altra realtà che si opponga all’idealità del conoscere, è appunto questa stessa idealità alla sorgente. Né perciò realtà troppo povera, tenue e sottile come può indurre a pensare l’abito del contrapporre la realtà all’idea. Come se la realtà fosse una cosa concreta, massiccia, e l’idea invece una cosa evanescente. Per Gentile è esattamente il contrario. Che anzi ogni realtà, massiccia che sia, ha in questa la sua base, e si ritaglia, per dir così, da quella medesima stoffa. La più salda realtà, l’Ens realissimum, per dirla cogli Scolastici, è questa realtà dell’Io, che non è altro che idea. Non idea come ideato, ma come ideare: conoscere, puro conoscere. … Io sono Io in quanto ho coscienza di me, distinto da me, e quindi non me:… Dicendo io sono io mi distinguo.  …in quanto mi so sapendo qualche cosa. Questo è molto importante: mi so sapendo qualche cosa. Ogni volta che so qualche cosa, so di me. È la stessa cosa che diceva, anche se in altri termini: qualunque cosa io pensi, sto sempre penando il mio pensiero. Sapere qualche cosa, d’altra parte, è giudicare. Ma questo giudicare è quel giudizio in cui io so me stesso, e perciò sono io: quell’Io che non sarei se non sapessi. È questo che fa degli umani degli umani: sanno di essere se stessi. Dunque, il giudizio può essere noema soltanto essendo alla base autonoema. Potremmo dire con Hegel: autocoscienza. Intender le cose è intender se stesso, perché il noema bene fondato è autonoema;… Il noema è l’atto intellettivo, l’atto di intendere. …ma intender se stesso è pure intender le cose, perché un autonoema che non sia noema è vuoto ed assurdo. La distinzione infatti è intima alla medesimezza dell’Io; né questo può realizzarsi come pura autocoscienza che non si differenzi in se stessa, e si ponga innanzi a sé come altro da sé. L’Io, è stato detto, è interna specchialità: ma l’immagine che torna dallo specchio non è quella che va allo specchio da chi vi si rimira. Questa alterità, che è la radice dello sdoppiamento dell’Io in Io e non-Io, e cioè dell’organizzarsi di un mondo di cose di fronte all’attività autocosciente, è pur la radice da cui germoglia perciò in un medesimo slancio di vita l’atto noetico e l’atto autonoetico come un atto solo. E la personalità quindi si forma nel simultaneo concentrarsi e riaffermarsi sempre più consapevole del soggetto che vi pulsa dentro e nell’estendersi e stringersi in sempre più vasta e salda struttura la cognizione del mondo. Qui ci ha detto in poche parole come funziona il linguaggio, l’autoctisi del linguaggio. E cioè: nel momento in cui c’è l’Io c’è necessariamente anche il non-Io. Questa immagine che, dice Gentile, va allo specchio non è la stessa che ritorna, sono due cose diverse. Questo non-Io, che è quello che fa sì che l’Io sia Io, lo rende anche differente. Ed è qui che sorge il linguaggio, cioè l’autoctisi, l’autoprodursi del linguaggio: ponendomi io nell’atto pongo anche il non-Io, cioè, produco qualche cosa che, potremmo dire, “prima” non c’era, ma non può non esserci ovviamente, perché se non c’è il non-Io non c’è nemmeno l’Io.

Intervento: Sembra la fase dello specchio di Lacan.

Lì è un po' diverso, perché per Lacan il bambino si vede nello specchio ma c’è la mamma. Nella fase dello specchio vede la mamma allo specchio, vede che c’è anche lui, e allora dice “questo sono io”. Come faccia a fare una cosa del genere non è chiaro. Per Lacan è il modo con cui ciascuno riconosce se stesso, e la fase dello specchio per lui è fondamentale perché è il momento in cui una persona si accorge di essere una persona, solo attraverso l’altro (la mamma).

Intervento: Questo altro esiste prima che si riconosca?

Questa è una domanda interessante, perché per Gentile no. L’altro esiste nel momento in cui io mi riconosco, e allora, essendo io, posso concepire anche l’altro, perché sono già passato attraverso il non-Io, per cui posso conoscere che qualcuno è altro da me, sennò non c’è alterità. È come per un leone, che vede passare una gazzella: quella non è un altro animale, non c’è una differenziazione, se la mangia e bell’e fatto. Come dice giustamente, se io non posso riconoscermi come io attraverso il non-io, allora non c’è niente, perché non ci sarebbe linguaggio, non ci sarebbe pensiero.

Intervento: Il non-Io sarebbe la mamma, quindi.

Sì, ma lo diventa dopo che l’Io si è posto come non-Io; solo allora diventa l’altro; ma occorre questa prima alterità tra Io e non-Io. Paragrafo 7. Forme dell’autonoema. L’autonoema infatti è, come il giudizio, essenzialmente assertorio; e l’assertorietà del giudizio, chi ben rifletta, è logicamente inintelligibile, cioè arbitraria e dommaticamente posta, se non si risolve nell’assertorietà dell’autonoema. Sta dicendo soltanto che se ci fosse soltanto il noema, cioè l’atto di intendimento, sarebbe l’immediato, senza mediazione, cioè, senza spostamento – la mediazione è uno spostamento, un rinvio – e, quindi, non sarebbe intelligibile, sarebbe nuovamente l’essere di Parmenide: l’immediato, alla lettera, non mediato. Si comincia dall’affermazione che non si contenta di porsi immediatamente… Non si contenta ovviamente perché se si ponesse immediatamente, non essendo mediato, non rinviando, non sarebbe niente. …ma si contrappone alla negazione per riaffermarsi contro di essa in forza del principio del terzo escluso, e chiudersi ermeticamente dentro sé con risoluta energia autoconservativa e ripulsiva del suo contrario. Come nel sillogismo. Così è, così dev’essere, perché non può essere che così non sia. Tale la verità noematica astratta. E il pensiero se ne contenta solo che prescinda da sé, dalla sua libertà soggettiva, e si immerga nell’oggetto che par tutto. È quello che diceva la volta scorsa: la verità del sillogismo diventa il vero, mentre il sillogismo non ha questa funzione di dire la verità. Il sillogismo mostra soltanto l’esattezza o, come dicono i logici, la validità ma non la correttezza dell’implicazione. Formalmente è valida, certo, ma non ha nessun aggancio con nient’altro all’infuori di sé. È la prerogativa di ogni sillogismo di essere vero in sé. Ma l’insufficienza di una tal verità è manifesta appena risorga la coscienza della soggettività e il dommatismo di questa posizione di pensiero rompa contro l’esigenza della certezza. Allora sorge la domanda: perché così? E la domanda, finché l’oggetto rimanga lì, tutto solo, muto, misterioso, non può ottenere risposta. Le cose non rispondono; io rispondo. La risposta non può darla al soggetto altri che il soggetto stesso, non discorrendo egli stesso per la periferia (come direbbe Bruno), ma insistendo nel centro che è lui stesso. Nella cui vita infatti è la risposta. Perché così? La domanda non può avere se non un significato, una volta escluso quel discorso periferico, in cui s’avvolge l’apodissi aristotelica: via senza uscita, perché circolare e ritornante perciò sempre al punto di partenza. È il sillogismo formale, chiuso in sé. Il perché che si domanda vuol dire: perché io che potrei non affermare questo giudizio, debbo tra affermarlo e negarlo appigliarmi di necessità alla prima alternativa? Cioè: devo affermarlo per forza. Cosa mi costringe ad affermare qualcosa? Non potrei appigliarmi alla seconda? Non potrei respingere l’alternativa e rifiutare lo stesso problema? Perché il problema? Chi me l’impone? E se io penso (se non pensassi, d’altra parte, la questione cadrebbe interamente), poiché pensare è atto di libertà, c’è qualche cosa o qualcuno che possa mai nulla imporre al mio pensiero? Quale nesso necessario lega me a questo problema e a questa soluzione? Quale il rapporto, insomma, tra me e la sintesi del logo astratto? Pensare un problema e pensare una soluzione è un pensiero astratto, ovviamente. A questa domanda la risposta è già data appena sia espressa in termini come questi e si consenta che un nesso, e necessario, c’è tra il soggetto e la sintesi oggettiva in cui esso si specchia. Come dire: qual è la risposta a questa domanda? Sono io, il mio pensiero. Lo scettico non consentirà; e per lui quindi non ci sarà verità. Ma, esclusa la disperata soluzione negativa dello scettico – assurda finché lo scettico non rinunzì a pensare il suo stesso scetticismo – Questo è fine; cioè, lo scettico può continuare a pensare e a dire le cose che dice finché non comincia a pensare a se stesso. …non rimane che il passaggio dall’oggetto astratto al soggetto nel cui rapporto è la sua concretezza. Cioè, accorgermi che sono che sto pensando questa cosa, che sto ponendo questo problema, che sto pensando questa soluzione. E allora il perché si manifesterà come una conseguenza dell’attività autotetica dell’Io, che nel suo altro non trova se non quello che egli stesso pone come sua propria essenza e vita. Dicevamo già tempo fa: che cosa trovo nelle cose? Me, trovo sempre me, alla fine trovo sempre me che le penso, che le dico, che le considero. Non dunque la cosa in sé, e questo già Kant l’aveva capito, però Kant l’aveva lasciata lì. Poi Hegel porrà delle obiezioni potenti a Kant, ma più ancora Gentile: alla fine non trovo la cosa in sé, trovo me che penso la cosa in sé. …così, perché così dev’essere affinché io sia io, affinché io possa, essendo io, pensare e risolvere in questo problema quel problema che risolvo sempre che ne risolvo uno: riuscire a pensare, a vivere la vita che è mia e della quale io non posso a niun patto fare a meno. È così che deve essere affinché io possa pensare quel problema; se non fosse così, non starei parlando. È così che deve essere segue alla considerazione che sono parlante e che non posso uscire dal linguaggio, direbbe Gentile, dal pensiero. Perché deve essere così? Perché sto parlando, ecco perché. Se non parlassi, come dicevo già prima, non si porrebbe né questa né nessun’altra questione. Questo è fondamentale in Gentile, ma direi nel pensiero, e cioè tenere sempre conto che ciò di cui sto parlando sono sempre io; ciò che cerco sono sempre io. Questa è la questione più importante dell’attualismo in Gentile: sono io in quanto non-io, è proprio perché c’è il non-io che possono esserci anche le altre cose, compresa la mamma che guarda il bambino allo specchio. Paragrafo 8. Unità di noema e autonoema. Tutta la deduzione precedente mira non tanto ad esporre le forme autonoetiche del pensiero, quanto piuttosto a chiarire nell’intrinseco l’unità del noema e dell’autonoema, e a dimostrare in atto l’identità risolutiva della logica dell’astratto e del concreto. Perché la logica dell’astratto e del concreto non è che si risolvono o si integrano da qualche parte – che è poi la critica che Gentile fa a Hegel, in parte non a torto – ma si integrano nell’atto: è l’atto che fa sì che ci siano entrambi simultaneamente, non ci sono se non nell’atto. Poiché è evidente che non c’è, a volta a volta, un giudizio e un autonoema: ma sempre, in eterno, il giudizio come autonoema. A Kant era impossibile attingere questo concetto dell’unità del noema e dell’autonoema, dell’esperienza e dell’Io, e in generale della materia e della forma, e sollevarsi quindi all’assoluto formalismo, a cui mirò poi sempre l’idealismo che da lui prese l’abbrivo. Era impossibile, perché lo stesso Io trascendentale egli si raffigurò staticamente, come un che d’immediato, quasi elemento coesistente con la materia nell’organismo dell’esperienza. Immediato, fondamentalmente, il dato; immediato l’Io. Questo per Kant.  Come se l’Io fosse lì nel pensiero che si analizza perché si è costruito, analisi perché sintesi;… Un Io che è stato pensato. La differenza sostanziale è che l’Io di cui sta parlando Gentile è l’Io pensante e non l’Io pensato, anche se, come sappiamo perfettamente, non c’è l’uno senza l’altro. … e non fosse l’attività sintetica generatrice della sintesi. La forma immediata ha di contro la materia, perché di forma ha solo il nome; ed è essa stessa, realmente, materia di pensiero. La forma come mediazione di sé o autosintesi è generatrice di se stessa come materia;… Anche la forma è ovviamente un’autoproduzione. La forma di ciò che dico, per esempio, è una forma che non preesiste il mio dire, ma si costruisce dicendo. …e però smaterializzatrice eterna d’ogni sua materia, in cui può ritrovare, e ritrova, se medesima. Questa forma, producendosi, diventa materia, perché la forma senza materia non c’è; ma nel momento in cui si pone si smaterializza immediatamente perché questa forma rinvia già a un’altra, e quindi questa materialità della forma già si dissolve nel momento stesso in cui la pone. Poiché ognun vede quasi cogli occhi del capo come il contenuto spirituale si materializzi prendendo forma fisica di carta scritta, tela dipinta, marmo scolpito e come dalla carta stessa, dalla tela e dal marmo lo spirito muova, spiritualizzando il mezzo materiale, e ritrovandovi il suo mondo lieve e trasparente, cioè se stesso. Sempre il suo non-Io specchio dell’Io che egli è. Anche ciò che è stampato sulla carta, essendo ovviamente una produzione dell’atto, è lì perché io lo sto leggendo. È questa la questione fondamentale in Gentile: questo testo che sto leggendo sono io che lo sto leggendo. Paragrafo 9. L’autosillogismo. Nella pura forma autonoetica del pensiero non si può dire tuttavia che ogni residuo di dommatismo, e quindi di arbitrarietà logica, sia scomparso finché non sia stata messa in piena luce la base della autoconservazione in cui si manifesta l’energia logica dello stesso autonoema come affermazione che repelle disgiuntivamente la propria negazione,… L’autonema afferma ma anche nega, ovviamente, come l’autocoscienza …e repelle la particolarità che negherebbe la sua essenziale universalità, come repelle la problematicità che ne annullerebbe la non meno essenziale necessità. Perché questa autoconservazione-ripulsione? Questa duplice forza suppone un principio che la genera e l’autorizza: suppone la maggiore d’un sillogismo, che è l’unità delle esclusioni reciproche dell’affermazione e della negazione, come vedemmo nella teoria del sillogismo una proposizione disgiuntiva fondare sì per la qualità e sì per la quantità e la modalità ogni verità del logo astratto nella sua mediazione interna. L’A è B perché A non è non-B; ed A o è A o è non-B. Proposizione che il logo astratto assume immediatamente in quanto s’appropria, con quella immediatezza che è propria d’ogni rapporto noematico, la sintesi A = B. Ma anche lì, il sillogismo, nella sua circolarità, è chiuso in se stesso: dalla premessa maggiore alla conclusione, verità tutta d’un pezzo, che al pensiero s’impone con l’aut-aut del prendere o lasciare. È quella, e non si sa perché non possa essere altra. E anche in questa più remota scaturigine della logicità la base della sintesi noematica sta nell’autosintesi, la quale non è soltanto attività autonoetica, bensì anche autosillogistica. Anche il sillogismo è qualcosa che si produce: io sono il sillogismo mentre sto silloggizzando. Ed invero, per renderci ragione della premessa, base del sillogismo, A o è B o non è B, bisogna dire perché non si possa pensare altrimenti. Perché non possiamo pensare se non attraverso questi sillogismi formali? Quale demone ci costringe a fare questo? E chi pensa quella sintesi sdoppiantesi disgiuntivamente in due sintesi opposte contradittorie, è il pensiero come logo concreto: è l’Io, che dice: “Io sono non-Io”: un giudizio, in cui il soggetto del verbo è lo stesso soggetto del pensiero, per modo che l’attività sua è attività pensante che, in questo caso, a differenza di tutti gli altri, è eo ipso attività realizzante, creatrice. Lui si pone la domanda: perché dobbiamo pensare a questa maniera? Dice, è il pensiero, è l’Io che dice “Io sono Io”, molto semplicemente. Però, dice, Io sono non-Io, perché dicendo “Io sono Io” pone già “Io sono non-Io”. Perché non posso altrimenti? Perché sono costretto a pensare così e soltanto il non-Io garantisce di essere Io, sennò non ci sarebbe nessuna garanzia e io svanirei nel nulla, cioè il linguaggio non funzionerebbe. Ecco il motivo per cui devo pensare così: perché il linguaggio è fatto così, cioè pensa in questo modo, costruisce in questo modo. Per dire che Io sono io occorre che Io sia uguale al non-Io, che ci sia un non-Io che si oppone ma che al tempo stesso, negando l’Io, lo conferma, lo afferma e lo stabilisce. Nel mondo del pensiero, come il logo astratto lo costruisce, l’uomo non vive. L’essere di cui vi si parla (A è B), è un essere logico, in cui si realizzano i termini mediante il rapporto essenziale onde sono nella realtà del pensiero congiunti. Quando invece l’Io dice: Io sono non-Io, o semplicemente Io sono, il suo essere è realizzazione di sé. Quando dico che A=B non sto realizzando me, sto ponendo un astratto; quando dico che io sono io o io sono, allora è il pensiero stesso che si crea, si dice e dicendosi si crea. Egli non è presupposto del pensiero in cui si specchia sdoppiandosi e ripiegandosi sopra di sé: ma nel pensiero è il processo appunto della sua realtà: poiché l’Io è Io, quello che è, in tutta la sua realtà, in quanto è coscienza di sé:… Questa è la differenza fondamentale tra l’affermare A=B e il dire “io sono io”. Questo perché, dicendo “io sono io”, è l’atto stesso del mio dire, del mio pensare, che è questa proposizione. Certo, anche dicendo che A=B sono sempre io, ma sono io che dico quell’altra cosa; mentre, se dico “io sono io” sono io che dico la stessa cosa. L’autonoema è disgiuntivo in quanto afferma l’identità del diverso escludendo l’identità dell’identico: che è l’affermazione opposta del giudizio disgiuntivo, dove il principio d’identità esclude invece la differenza. L’Io dirà: “Io o sono Io o sono non-Io”, trovandosi nella curiosa alternativa di affermarsi negandosi (come non-Io) o di negarsi affermandosi (come Io). Se l’Io è Io si afferma: ma non è più Io per questa sua vuota identità, che è la negazione dell’essenza processuale dell’Io, la quale importa un differenziamento. Viceversa, se è non-Io, esso si nega; ma appunto negandosi riesce ad attuare la sua essenza. Proprio perché sto dicendo “non sono io” che posso dire “sono io”. Qui dunque l’affermazione pura e semplice, o affermazione dell’identico, è negazione: e la vera affermazione efficace e positiva si opera attraverso la negazione. L’affermazione pertanto, che la disgiunzione garantisce nell’autonoema per qualità, quantità e modalità, è affermazione che è negazione; non è tesi, ma autotesi, e quindi divenire, dialettismo. E l’autotesi del pensiero è conseguenza anche qui di una necessità; ma di una necessità che non è più solamente logica; ma logica in quanto metafisica. Perché l’autotesi del divenire spirituale deriva da una impossibilità che non è una semplice impossibilità logica. C’è qualcosa di più qui. L’Io tra essere Io e essere non-Io, deve optare per la seconda alternativa, non già pel principio di contraddizione e del terzo escluso (che sarebbe un abbassare il logo concreto a logo astratto; e smarrito questo solo filo d’Arianna che rimane al pensiero, smarrirsi nel labirinto di una infinita astrattezza); il quale principio ad ogni modo verrebbe flagrantemente violato nella formula dell’Io che è non-Io; ma perché nell’atto stesso che l’Io si propone la domanda dell’alternativa da scegliere, egli ha già risposto, e la sua alternativa è presa. La domanda era tra l’essere non-Io e l’essere Io. Dice che di fatto ha già risposto a questa alternativa. Infatti proporsi una domanda è comunque pensare, e pensare è essere Io come non-Io. Ecco perché ha già risposto. La unità in questo caso di essere e pensare fa sì che il problema del pensiero possa essere risoluto, com’è risoluto infatti e non può non esser risoluto, dallo stesso essere del pensiero concreto. La domanda “sono Io o sono non-Io?” e una domanda che è già risolta nel momento in cui la pongo, perché sto pensando. Paragrafo 10. Ciclicità dell’autosintesi. In ogni momento del suo esistere come un Io determinato il pensiero concreto si trova ad essere pensiero di sé come una sintesi circoscritta in un immobile circolo; ma nell’atto stesso che egli ripercorre la circonferenza con la sua inquieta attività per possedere la sintesi nella sua logica dell’identità, e saldare quindi la curva al suo punto di partenza, ecco che il circolo insensibilmente si apre e l’Io intende a costruire un nuovo circolo in una infinita spirale, in cui instancabilmente sormonta sempre sopra se stesso, scontento sempre di sé quale si ritrova nel non-Io, premuto dall’infinità del principio da cui questo non-Io scaturisce. Qual è il principio da cui questo non-Io scaturisce? Potremmo dire che è il principio del dire, del linguaggio. Se dico Io, per poterlo dire, dico anche necessariamente non-Io. Ecco da dove scaturisce, ecco da dove sorge il linguaggio come la realtà, e da qui tutta la realtà a seguire, naturalmente. È necessario che ci sia questa disgiunzione, questa separazione, questa distanza. Paragrafo 12. La ragione. Il motivo segreto e profondo di questo bisogno che trae irresistibilmente l’uomo incontro all’altro uomo, e alle cose, e all’universo, è infatti nella natura stessa del suo pensiero. Senza volerlo qui sta parlando della volontà di potenza. Il quale, come logo concreto, è, lo abbiamo visto, uno ed universale, ancorché possa apparire, sotto la specie dell’astratto in cui pur si presenta, racchiuso in un’individualità particolare perché determinata. Il pensante pensa come pensiero infinito; e dove perciò gli sorga incontro un limite, che sia cosa o persona, egli ha bisogno di superarlo. Anzi del limite non può fare a meno, poiché nel limite è la sua determinazione; ma la sua negatività non può arrestarsi a nessun limite, e non affermare e dimostrare la propria infinità di fronte allo stesso limite nella cui posizione ha cercato la propria attualità. Perciò non solo ha bisogno del consenso degli altri pensanti, ma ha pur bisogno primieramente del loro dissenso, della loro opposizione e refrattarietà al suo pensiero. Ha bisogno del nemico.  Perciò l’uomo si rivolge da prima alle cose; e poiché ha vinto la loro sorda e muta durezza e le ha assimilate a se stesso, passa agli uomini e non rifugge dal contrasto delle contraddizioni, che è pur conflitto di volontà e guerra minacciosa di morte all’uomo che va in cerca della sua vita. Gli va incontro, perché il limite è il suo non-Io, e quindi il suo Io. Egli è lì. Che s’imbatta o no, empiricamente, in un altro uomo, che si riversi nella vita politica delle folle e delle assemblee, o che viva a sé secondo l’ammonimento vile del savio epicureo,… Cioè: pensa agli affari tuoi, a stare bene, e basta. …che monta? Egli non si appagherà mai di quella morta atarassia… Assenza di emozioni, di sensazioni, ecc. ...che il savio gli promette; perché l’Io non è Io se non essendo non-Io: nel limite, nell’opposizione è la sua vita. Io sono io se qualcosa mi si oppone; a partire dal non-Io, ovviamente. Ora qui si pone una questione interessante perché se ci fosse la possibilità di intendere il funzionamento del linguaggio, e cioè la necessità perché io possa affermarmi come io è necessario che ci sia il non-Io; sapendo questo, permane la necessità di una rappresentazione di questo non-Io, di questa realtà all’infuori del mio discorso oppure no? Questa è una bella domanda. Verrebbe da dire no, si perde la necessità, cioè si perde la necessità del nemico; si perde la necessità del nemico come condizione per potere esistere in quanto Io. Perché se so come funziona allora so che questo Io necessita di un’opposizione, il non-Io, che è tutto ciò che immagino mi circondi.

Intervento: …

Perché io possa determinarmi devo mettermi un limite, sennò non riesco mai a determinarmi, non posso mai dire Io; e questo limite è posto genericamente in altri, nelle cose, nelle persone, che costituiscono un limite, del quale ho bisogno perché queste cose, queste persone, diventano il non-Io che mi garantisce in quanto Io. La domanda che sto ponendo è se questi limiti è necessario che siano cose o persone perché io possa determinarmi come Io. Direi di no, orientativamente, se so come funziona; se non lo so, allora è assolutamente necessario, è tassativo che esista il nemico.

Intervento: Lì trovo la mia forza…

Se invece la trovo nel rinvio, nel rinviare dell’Io al non-Io, allora inizio veramente a praticare il linguaggio, non più subendolo ma mettendolo in atto, sollecitandolo, potremmo quasi dire, fomentandolo, per vedere fino a quale punto può arrivare.

Intervento: Si passa dalla necessità del nemico alla necessità dell’altro…

Sì, certo, la necessità di ciò che si oppone all’Io per potere essere Io, ma questa opposizione potrebbe assumere un carattere formale.

Intervento: ….

Che è proprio quella cosa che Gentile invita a fare in ogni pagina, perché, sempre utilizzando Gentile, quella cosa o quella persona che dovrebbe costituire il limite per cui io sono io, anche quella cosa o quella persona sono sempre io, non è altro. A questo punto si potrebbe pensare che non c’è la necessità che sia un qualcun altro a costituire il limite, ché il limite so già che c’è necessariamente nel linguaggio perché il linguaggio possa funzionare.

Intervento: Come dire che parola non dice la cosa ma “è” la cosa…

Sì. Più propriamente la parola sono io che dico quella parola, e dicendo quella parola sono quella parola, quella cosa. La ragione, a cui gli uomini si appellano nelle discussioni onde si sforzano di far prevalere la verità, che è la loro verità, e di conciliare quindi i contrasti instaurando l’ideale della giustizia (un ideale tolto anch’esso da un mondo concepito secondo la logica dell’astratto), è questo principio unico e unificatore della molteplicità in cui pur esso si riversa, che è il pensiero nella sua concretezza. La verità è lì che si trova, nella concretezza, non si trova mai nell’astratto, cioè nel sillogismo formale. Questo perché ogni sillogismo formale è chiuso in se stesso, e se cerco una garanzia nel sillogismo trovo un altro sillogismo. La sua unità, premendo sulla molteplicità delle opinioni discordi e delle contrastanti rappresentazioni, e però delle volontà divergenti e in lotta tra loro, è la autorità onde è apparsa sempre investita la ragione. Autorevole perché una, una per tutti i pensieri, una per tutti i pensanti. Il νούς ποιετικός (il pensiero produttivo) aristotelico, escogitato a spiegare il valore o l’autorità del vero, è logo astratto. E quindi le inestricabili difficoltà in cui s’avvolse questo concetto (sempre vivo, nonostante tutte le critiche, anche nel pensiero filosofico contemporaneo). La nostra ragione è al polo opposto del pensiero: logo concreto. Dal cielo, in cui esso nella sua eterea immortalità fu sempre invano cercato, esso è sceso questa volta veramente nel pensiero dell’uomo, nel suo petto. Sembra Hegel quando dice che Dio non è nel cielo ma è qui, adesso, in me. Dell’uomo (c’è ancora bisogno di dirlo?) che pensa, non dell’uomo naturale, che è una delle tante cose pensate. Paragrafo 13. La ragione e il cuore. Qui dice una cosa divertente. Spesso si contrappongono le ragioni del cuore alla ragione logica. Quel tanto di obbiettività (sempre la massima obbiettività) che spetta al logo astratto, gli vien conferita dal logo concreto. È sempre il logo concreto che fa esistere il logo astratto. E qui è la vera, assoluta obbiettività: assoluta, perché autarca, e non avente bisogno di esterna norma a cui commisurarsi. Ma senza questa norma esterna, tutto il pensiero, nella sua attualità di pensiero pensante, è omogeneo. Il pensiero del cuore è sulla stessa linea del pensiero della ragione: pensiero di quella ragione (poiché anche il cuore ha le sue ragioni) che si dice cuore da chi si orienta verso una concezione della verità a norma del logo astratto. Il pensiero, che è Io essendo non-Io, non ammette nulla accanto e fuori di sé: non è ragione, che non sia cuore; né viceversa. Non è intelletto, che non sia senso; né viceversa. Non c’è nulla di insensato: se si dice ha un senso. Un cuore bensì sarà vinto da una ragione; ma non perché il cuore sia mai destinato a soccombere nella lotta, sì perché la ragione vince sempre se stessa. Anzi è una eterna vittoria su se stessa. Su cosa vince la ragione? Solo su se stessa. E chi s’argomenta di vincere con sillogismi il cuore della madre, ignora appunto quel centro, in cui la ragione dei sillogismi deve incardinarsi: non ha mai sospettato quel nesso vitale del logo astratto col concreto, fuori del quale ci sarà la verità del filosofo, ma una verità che avrà il sapore della paglia per l’uomo a cui il filosofo si proverà ad offrirla. Cioè, saprà di niente. Questa della ragione logica sarà una questione che tratterà a breve. Ma questo lo diceva già Perelman trattando della persuasione e della convinzione. La convinzione piega apparentemente la ragione, come la matematica per esempio; la persuasione invece gioca sulla retorica, sui sentimenti, sulle emozioni, e quindi vincerà sempre. Nessuno sarà mai soddisfatto della convinzione, ma sarà soddisfatto dalla persuasione, perché è come se la persuasione mostrasse che non c’è soltanto logica dell’astratto, ma che c’è un concreto. Gentile diceva già nelle pagine precedenti che gli umani non sono soddisfatti di fronte alle domande che si fanno dalla logica dell’astratto perché, in effetti, è come se sapessero che non c’è solo l’astratto. Come se sapessero, ma non sanno. Di fatto, lui stesso dice che tutta la filosofia, fino a lui, si è basata sull’idea che esista soltanto l’astratto e che, anzi, ha fatto del concreto un astratto dell’astratto, cioè ha pensato che l’astratto fosse il tutto. Capitolo VII, Le categorie e la categoria. Paragrafo 1. II problema delle categorie nella logica antica. Nella logica del concreto la dottrina delle categorie è connessa con quella dell’autonoema, poiché in ogni logica la dottrina delle categorie dipende da quella del giudizio. In rapporto alla quale sono possibili tre diversi concetti della categoria, che rappresentano anche le tre forme storiche della logica: 1° la categoria-predicato; 2° la categoria-funzione; 3° la categoria-autonoesi. Gentile stesso traspone poi la prima (la categoria del predicato) come l’arte, cioè ciò che si dice immediatamente; la seconda (la categoria funzione) come la religione, che pone sì i due elementi, ma separati; infine, la terza (la categoria autonoesi) come l’integrazione, l’Aufhebung. Le categorie sono universali. Per esempio, quelle di Aristotele erano dieci; sembra che all’inizio ne avesse poste otto, però poi qualcuno gli fece notare che dieci era meglio, e allora ne ha aggiunte due per fare cifra tonda. Fatto sta che sono la sostanza, il tempo, il luogo, la forma, ecc. Le categorie sono tutti gli universali sotto i quali è possibile predicare una qualunque cosa. Per esempio, per quanto riguarda la categoria della quantità ci dice che, qualunque sia la quantità di una certa cosa, questa quantità è categorizzabile, cioè possiamo porla all’interno di una categoria. Perché questo? Perché Aristotele cercava nelle categorie l’essenza dell’essere, cioè, l’essere è tutto ciò che le categorie lo determinano. Paragrafo 2. Il problema delle categorie nella logica trascendentale. E alla dottrina della categoria-predicato sottentrò la dottrina della categoria-funzione, che non è più concetto nel senso aristotelico o socratico, quantunque pur si dica concetto (propriamente, concetto puro), ma è piuttosto l’attività produttiva dei concetti nel nuovo senso del pensare che è giudicare,… La prima categoria, quella del predicato, è quella dove non si giudica; semplicemente, si afferma qualcosa: A è B. Poi, c’è il secondo momento, il giudizio, e cioè perché? Perché A è questo o quest’altro, ecc.; quindi, c’è un motivo, c’è una mediazione, che nel primo caso non c’è. Ecco, quindi, la religione: si pongono i due elementi, ma separati. Infine, il terzo momento, che è la simultaneità dei due.