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20-1-2016

 

Il testo è sempre Della grammatologia di Derrida e stiamo parlando della traccia, della scrittura, parla della fenditura che sarebbe la barra, poi pag. 78: La fenditura indica l’impossibilità per un segno, per l’unità di un significante e di un significato, di prodursi nella pienezza di un presente e di una presenza assoluta (se c’è il taglio allora il significante e il significato non sono inchiodati tra loro per cui a questo punto non c’è più presenza assoluta, perché il significante non significa immediatamente qualcosa cioè non c’è la percezione immediata della cosa ma è mediata, appunto, da qualche altra cosa, cioè c’è un supplemento) Per questo non c’è parola piena, la si voglia restaurare per mezzo o contro la psicanalisi prima di pensare di ridurre o restaurare il senso della parola “piena” che dice di essere la verità bisogna porre la questione del senso e della sua origine nella differenza, tale è il luogo di una problematica della traccia (sta dicendo che la parola piena non c’è, la parola piena che sarebbe, come dicevo prima, l’incollamento del significante e del significato. Ora tutta la questione in questo testo gira intorno a questo: c’è la traccia, cioè l’archi scrittura, c’è la differance, c’è la barra, quindi la parola non è piena perché questa barra è un supplemento, un supplemento che supplisce qualche cosa che di fatto non c’è. Il segno è sempre segno non di qualcosa ma di un altro segno quindi preso in un rinvio infinito, quindi non c’è la cosa, non c’è la percezione, non c’è la parola piena, non c’è la presenza semplice della cosa) Avviciniamo il concetto di traccia a quello che è al centro degli ultimi scritti di Emmanuel Levinas e della sua critica dell’ontologia. Rapporto all’ “illeità” come l’alterità di un passato che non è mai stato e non può mai essere vissuto nella forma originaria o modificata della presenza /…/ Se la traccia archi fenomeno della “memoria” che bisogna pensare prima dell’opposizione tra natura e cultura, animalità e umanità eccetera appartiene al movimento stesso della significazione (stiamo sempre parlando dell’architraccia) questa a priori scritta che la si inscriva o no in una forma o in un’altra, in un elemento sensibile spaziale che si chiama “esterno” (questa archi traccia è già scritta da sempre, questo elemento sensibile o spaziale lo chiamiamo “esterno” generalmente, l’elemento sensibile per esempio il suono, una parola scritta è un elemento che è fuori di me, differente invece dal soliloquio nel quale la parola è interiore) il fuori esteriorità spaziale o oggettiva di cui crediamo di sapere che cosa è, come se fosse la cosa più familiare del mondo, come la familiarità stessa non apparirebbe senza il “gramma”, senza la differenza, senza la temporalizzazione, senza la non presenza dell’altro iscritta nel senso del presente, senza il rapporto alla morte come struttura concreta del presente vivente (il “fuori” ci appare familiare, un fuori di cui crediamo di sapere che cos’è, non apparirebbe senza il “gramma” cioè senza l’elemento scritturale, senza l’elemento della scrittura che poi è archi scrittura, senza la differenza come temporalizzazione, senza la non presenza dell’altro iscritta nel senso del presente. Non presenza dell’altro perché la presenza vivente dell’altro che è fuori di me io non la posso avere se non differita, per questo dice “senza la presenza dell’altro”, “senza il rapporto alla morte come struttura del presente vivente” presente vivente alla quale è iscritta la sua morte. Morte nel senso di differimento, di alterità di ciò che non è ciò che è, morte: cioè non può darsi come presenza immediata, come presenza semplice) pag. 82: che il significato sia originariamente ed essenzialmente “traccia” che esso sia già da sempre in posizione di significante ecco la proposizione apparentemente innocente cui la metafisica del logos della presenza e della coscienza deve riflettere la scrittura come sua morte e sua risorsa (il significato dunque è sempre in posizione di significante, cioè il significato non può mai esimersi dalla presenza del significante, l’idea della metafisica è quella di eliminare il significante a vantaggio del significato puro, perché soltanto togliendo il significante il significato è puro. L’immagine acustica può comportare un alterazione del significato, questo significato non è mai soltanto significato è anche significante e quindi non è mai soltanto se stesso) pag. 106: (qua sta parlando del nome, del fatto che il nome secondo lui non nomina propriamente ma questo nome non può dirsi, non può dirsi perché non può manifestare la cosa di cui è nome, non la manifesta perché c’è comunque un differimento) si vede che il nome in particolare il così detto nome proprio è sempre coinvolto in una catena, in un sistema di differenze, esso diviene appellazione solo nella misura in cui può inscriversi in una figurazione, il proprio del nome (cioè ciò che gli appartiene assolutamente) non sfugge alla spaziatura sia che la sua origine lo leghi a rappresentazione di cose nello spazio, sia che resti coinvolto in un sistema di differenze foniche o di classificazioni sociali apparentemente slegate dallo spazio corrente la metafora travagli il nome proprio (il linguaggio non riesce a eliminare la metafora, cioè non riesce a non essere una sostituzione di una cosa con un'altra, qualunque cosa si dice è sempre una sostituzione, se di fatto è una rappresentazione è una sostituzione di questa cosa che non c’è, perché poi lui giunge, anzi l’ha già detto, che non c’è quindi è una rappresentazione di qualche cosa che non c’è perché si ri-presenta, questo “ri-presentarsi” fa apparire quella cosa) il senso proprio non esiste, la sua apparenza è una funzione necessaria che bisogna analizzare come tale nel sistema delle differenze e delle metafore (se non c’è qualche cosa che possa mostrare il suo senso, ciò che mostra è sempre un qualche cos’altro e questo senso è sempre preso all’interno di un segno quindi di un differimento, dice “è una funzione necessaria immaginare che il senso proprio esiste”, sembra quasi alludere a ciò che diceva Nietzsche rispetto alla verità “è un’illusione però è necessaria” è necessaria per potere proseguire a parlare per cui il senso proprio è un’ “illusione” di cui dobbiamo utilizzare la struttura per potere procedere. Per esempio se voi cercate una parola sul dizionario trovate altre parole, cioè il senso proprio di quelle parole sono altre parole, queste altre parole rinviano ad altre parole e il senso proprio non c’è, è preso in un differimento assoluto, però quando Simona cerca una parola sul dizionario trova la definizione di quella parola e la prende come senso cioè “vuol dire questo” ma è un’illusione che sia così, in realtà non lo è, però è un’illusione necessaria perché se non trova quella definizione Simona non può andare avanti con la sua lettura per esempio) la parusia assoluta del senso proprio (parusia - la manifestazione) come presenza a sé del logos nella sua voce, nell’intendersi parlare assoluto deve essere situato come una funzione che risponde a una necessità indistruttibile ma relativa all’interno di un sistema che la comprende (questa parusia, questa manifestazione del senso proprio è un’illusione necessaria e comunque sempre relativa al sistema in cui è inserita. Sono una serie di considerazioni che fa lui per mostrare che alcune cose che sono il fondamento della metafisica non sono propriamente quello che fanno credere di essere, anche se le utilizziamo come la verità per Nietzsche) Pag. 110 (qui parla della scienza, chiaramente la scienza, come abbiamo già detto, ha un fondamento metafisico, si fonda sull’idea che le cose siano semplicemente presenti cioè siano quelle che sono, perché se non partisse da questa pre-supposizione, non potrebbe lavorare sulle cose, perché la scienza ha la necessità di pensare che la cosa sia quella che è e non muti) qui occorre capire bene questa incompetenza della scienza che è anche l’incompetenza della filosofia la chiusura dell’episteme (l’“episteme per i greci è la verità certa, assoluta quindi la chiusura dell’episteme sarebbe il trovare la verità assoluta, la fine della ricerca “questo è questo e nient’altro che questo” sarebbe, per usare un termine di Severino, l’incontrovertibile, cioè ciò che non può essere negato in nessun modo, per Severino come sapete l’incontrovertibile è il principio primo, cioè il principio di non contraddizione) soprattutto (a proposito dell’incompetenza) esse non chiedono un ritorno a una forma prescientifica o infrafilosofica del discorso, esattamente il contrario questa radice comune che non è una radice ma la sottrazione dell’origine e che non è comune perché essa non ritorna all’identico con l’insistenza così poco monotona della differenza di quel movimento innominabile della differenza stessa che abbiamo sopranominato strategicamente “traccia” “riserva” o “differenza” potrebbe chiamarsi “scrittura” solo nella chiusura storica cioè nei limiti della scienza e della filosofia (la radice comune della scienza e della filosofia non è l’origine di qualche cosa, ma è il fatto che questa origine si continua a sottrarre incessantemente, appunto quel movimento innominabile della differenza stessa) la costituzione di una scienza o di una filosofia della scrittura (qui sta considerando se è possibile costruire una scienza della scrittura) è un compito necessario, è difficile ma giunto a questi limiti e ripetendoli senza tregua un pensiero della “traccia” della “dif-ferenza” o della “riserva” deve anche puntare al di là del campo dell’episteme (cioè al di là del campo della scienza, che si prefigge la scienza, che poi la raggiunga o no questa è un’altra questione) al di fuori del riferimento economico e strategico al nome che Heidegger si giustifica di dare oggi a una trasgressione analoga ma non identica di ogni filosofema per noi “pensiero” è qui un nome perfettamente neutro, un bianco testuale, l’indice necessariamente indeterminato di un epoca a venire della dif-ferenza, in un certo modo il pensiero non vuol dire nulla, come ogni apertura questo indice appartiene per quella sua faccia che si lascia vedere al dentro di un epoca passata, questo pensiero non ha peso esso è nel gioco del sistema proprio ciò che non ha mai peso, “pensare” è ciò che sappiamo di non avere ancora incominciato a fare, ciò che misurato sulla taglia della “scrittura” prende avvio solo nell’episteme. Grammatologia: questo pensiero si tratterrebbe ancora mutato nella presenza (qui fa una considerazione intorno al pensiero. Il pensiero non vuol dire nulla, si rifà alla traccia di Heidegger, pensiero come il pensare la domanda, pensare qualcosa che è sempre un “essere in vista di”, per Derrida invece il pensiero non vuol dire nulla, che è una affermazione impegnativa perché se non vuole dire nulla, cosa che ama fare Derrida molto spesso, cioè dire una cosa per poi affermare che non è quella, quale sarebbe un pensiero che non vuole dire nulla? Se ha un’intenzione che è quella di non volere dire nulla, questa intenzione non viene da niente, ma è il prodotto di un altro pensiero, un pensiero che è giunto alla conclusione che non vuole dire nulla, quindi in effetti vuole dire qualcosa, cioè vuole dire che non vuole dire nulla. Per cui è una formulazione a effetto che lascia il tempo che trova, in effetti Derrida andrebbe letto con quel rigore e quella precisione concettuale e argomentativa che possiede Severino e allora molte delle sue affermazioni verrebbero rimesse in discussione) pag. 116 costituita sotto la forma oggettiva dell’idealità dell’ eidos o della sostanzialità dell’ousia (sostanza) (cioè io posso ripetere qualche cosa perché un’idea è quella che è, è sempre la stessa, quindi la ripeto all’infinito, ed è la sostanza, se è sostanza è sempre la stessa, sarebbe l’essere per Aristotele) questa oggettività apprende ormai la forma della rappresentazione, dell’idea come modificazione della sostanza presente a sé, cosciente e sicura di sé nell’istante del suo rapporto a sé (perché questa oggettività prende la forma della rappresentazione? Perché, dice qui Derrida, è come se fosse sicura che questa rappresentazione rimane oggettiva, cioè continua a ripresentare sempre la stessa cosa, cioè senza differenza) il potere di ripetizione che l’“eidos” (l’immagine) e l’ousia rendevano disponibili sembra acquistare una indipendenza assoluta, l’idealità e la sostanzialità si mettono in rapporto tra di loro (come se l’idea che è sempre la stessa diventasse sostanza, diventasse la cosa stessa) l’elemento della res cogitans come un movimento di pura auto affezione (la pura auto affezione è quella cosa che Husserl cercava nella percezione immediata, assoluta della semplice presenza, quindi senza differenza, dire senza differenza significa anche dire senza segno, cioè quindi senza mediazione, quindi direttamente) e la coscienza è l’esperienza di pura auto affezione, la coscienza è comunemente intesa così una pura auto affezione (cioè la tua coscienza, Simona, quando pensi tra te e te non c’è apparentemente nessuna mediazione, le cose che ti dici sono presenti a te immediatamente le pensi in quell’istante e sono presenti) essa (la coscienza) si dice infallibile e se degli assiomi del lume naturale danno questa certezza, se superano la provocazione dello spirito maligno e provano l’esistenza di dio, è per il fatto che essi costituiscono l’elemento stesso del pensiero e della presenza a sé (sta dicendo che è stato possibile immaginare qualche cosa di assoluto proprio a partire dal fatto che nella mia autocoscienza le cose si presentano immediatamente a se stesse e quindi è possibile che qualche cosa sia presente a sé senza nessuna mediazione, che sarebbe questa la prerogativa di dio, di avere tutto presente simultaneamente senza nessuna mediazione cioè tutto presente esattamente così come è) Il logos può essere infinito e presente a sé cioè può prodursi come auto affezione solo attraverso la voce e cioè ordine del significante per il quale il soggetto esce da sé in sé, non prende da fuori di sé il significante che emette e da cui è nello stesso tempo affetto (cioè “il significante per il quale il soggetto esce da sé ma in sé” nel senso che si dice da sé questo significante ma questo significante non è che nasce spontaneamente in lui ma è preso da fuori, perché “non prende da fuori di sé il significante che emette” nel senso che ce l’ha lui dentro però al tempo stesso “è reso affetto da questa cosa” quindi è sempre qualcosa che produce un affezione) tale è per lo meno l’esperienza o coscienza della voce quella dell’intendersi parlare, essa si vive e si dice come esclusione della scrittura cioè del richiamo a un significante esterno sensibile e spaziale che interrompa la presenza a sé (questo nell’idea, poi vedremo che le cose sono un po’ più complicate. Poi fa un lungo discorso sul perché nella tradizione filosofica la scrittura è stata considerata come un pericolo, una minaccia, mentre la voce è la pura presenza di qualche cosa, la voce è l’innocenza perché non è viziata da altro, è l’immediatamente presente, la scrittura no, è già un differimento infatti dice) la metafisica ha costituito un sistema di difese esemplare contro la scrittura, ora che cosa lega la scrittura alla violenza? Che cosa deve essere la violenza perché qualcosa in essa eguagli all’operazione della traccia? (qui fa due citazioni, una di Rousseau Emilio o dell’educazione: Parlerò ora della scrittura? No, ho vergogna di divertirmi con queste sciocchezze in un trattato dell’educazione. (Poi in Lezioni di scrittura in Tristi tropici di C. Lévi Strauss): Essa (la scrittura) sembra favorire lo sfruttamento degli uomini prima della loro illuminazione, la scrittura e la perfidia penetravano fra loro di concerto (quindi la scrittura come qualche cosa di perfido, di malvagio, perché la scrittura raddoppia la parola, la parola autentica, la parola immediatamente presente a sé, la parola della coscienza, ma in questo raddoppiamento si perde l’innocenza, si perde la purezza, e questo è esattamente ciò che fa la scrittura, ciò che fa il segno in definitiva. Dopo avere ripreso una serie di considerazioni fatte da Levi Strauss intorno agli indiani Nambikwara per mostrare come già presso gli indiani che apparentemente erano sprovvisti di scrittura comunque c’era anche lì la scrittura, questo lui lo vuole dimostrare a tutti i costi) questo fatto interessa quanto abbiamo anticipato sull’essenza o sull’energia del “grafein” come cancellazione originaria del nome proprio (il nome proprio dal momento in cui viene detto o scritto è come se venisse tradito, infatti fa l’esempio di Lévi Strauss che si diverte a guardare dei bimbetti che giocano, a un certo punto vede due bambine che si parlano, si dicono delle cose che sembrerebbe che nessuno dovesse ascoltare e allora lui riesce ad avvicinarsi a una bimbetta e riesce a farsi dire che cosa si dicevano queste due: una le ha fatto uno sgarbo e lei minacciava, quella che ha fatto lo sgarbo, di rivelare il suo nome. Perché per loro il pronunciare il nome è una cosa che poteva avvenire solo in certe particolarissime circostanze, se no era considerato un’offesa, una cosa brutta, da non fare, da non dire. Cosa che lui riprende per indicare come il nome veicoli qualche cosa di impuro, di non conveniente, sgradevole addirittura detto in certe circostanze, perché il nome mente, perché il nome è sempre veicolo di una menzogna in un certo senso, di un’alterazione, se si dice il nome di quella persona è come se si svelasse il suo segreto, come se si svelasse il suo non essere quella cosa che il nome dice) È perché il nome proprio non è mai stato possibile se non per il suo funzionamento in una classificazione e dunque in un sistema di differenze, in una scrittura che ritiene le tracce di differenza (per questo dice) che l’interdetto è stato reso possibile, ha potuto aver gioco ed eventualmente essere trasgredito (quindi il nome tradisce, nel senso che veicola con sé la differenza, questa è la questione centrale, poi) Pag. 128 Se si smette di intendere la scrittura nel senso stretto di notazione lineare fonetica (cioè la scrittura corrente) si deve poter dire che ogni società capace di produrre cioè di obliterare i suoi nomi propri e di valersi della differenza classificatoria pratica la scrittura in generale (cioè dice lui è sufficiente che una civiltà obliteri, cancelli i nomi per autorizzarci a dire che c’è una scrittura in generale) se si obliterano i nomi propri (potremmo dire i nomi in generale) allora ci si avvale di una differenza classificatoria (nel senso che questa classificazione attraverso i nomi, deve spostarsi su un’altra cosa quindi c’è già un lavoro della differenza, c’è già una sostituzione, c’è già dice lui una scrittura. Anche la questione della violenza nella scrittura, se ci riflettete potete intenderla perfettamente, fa una violenza a che cosa? All’immagine ideale, la scrittura fa violenza alla parola parlata, alla parola innocente, che è quella che è come semplice presenza, una manifestazione immediata della coscienza di sé. La scrittura non può, cioè la differenza, quindi il segno, non può togliersi dall’atto di parola, allora c’è comunque sempre un differire e quindi ciò che io immagino essere immediatamente presente di fatto non è immediatamente presente è sempre, diciamo sì, presente, Derrida direbbe “è presente ma è assente” è presente perché mi si offre, ma è assente perché mi si offre attraverso un differimento cioè attraverso un segno. Sta in questo la violenza della scrittura, la violenza sull’immagine ideale di un mondo dove ci sarebbe stato questo senso originario e immediato delle cose in cui le cose si manifestavano, diciamola così, immediatamente, senza mediazioni, appunto “in mediatamente”, quindi questa violenza secondo lui è ciò che comporta anche la morte, la morte in quanto ciascuna volta quando si parla, si vuole dire qualche cosa, ma questo qualche cosa essendo “differito” si porta con sé la sua propria morte cioè “muore” in quanto si altera inesorabilmente, che è la questione poi anche del divenire. Si chiede se esiste una conoscenza e un linguaggio scientifico o meno che si possa dire estraneo sia alla scrittura sia alla violenza, e la sua risposta è “no”. Il secondo capitolo si chiama “Pericoloso supplemento” cita di nuovo Rousseau) Quante voci si levano contro di me intendo di realtà, nel clamore di quella famosa saggezza che ci getta incessantemente fuori di noi ci tiene sempre il presente in nessun conto e inseguendo senza riposo un avvenire che fugge man mano che si procede a forza di trasportarci là dove non siamo, ci trasporta là dove non saremo mai l’elogio della parola viva così come preoccupa il discorso di Levi Strauss è fedele solo ad un certo motivo del pensiero di Rousseau cioè si tratta di una diffidenza continuamente rianimata nei riguardi della parola così detta piena nell’allocuzione (nel dire qualcosa a qualcuno) la presenza è a un tempo promessa e rifiutata, la parola che Rousseau ha levato al di sopra della scrittura è la parola quale dovrebbe essere o piuttosto quale sarebbe dovuta essere e dovremmo essere attenti a questo modo, a questo tempo che ci mette in rapporto con la presenza nella conlocuzione vivente /…/ La differenza ciò che rende possibile l’opposizione tra l’assenza e la presenza. Se la presenza che perciò si dà il simbolo sostitutivo di un’altra presenza (perché una presenza si dà in quanto sostituita da un’altra presenza, il segno non è che segno di un altro segno) allora quest’ultima (questa altra presenza) non ha mai potuto essere desiderata in persona prima di questo gioco di sostituzione e di questa esperienza simbolica dell’auto affezione (sta dicendo che non c’è desiderio se non c’è atto di parola) ciò che non è differito è anche assolutamente differito. Ciò che non è differito è anche assolutamente differito la presenza che ci viene offerta nel presente è una chimera (ciò che vediamo presente è un’illusione) l’auto affezione è una pura speculazione (sta dicendo che non c’è auto affezione) il segno, l’immagine, la rappresentazione che vengono a supplire la presenza assente sono illusioni che danno il cambio, dare il cambio in qualsiasi senso lo si intenda questa espressione si descrive bene il ricorso al supplemento (quindi ci ha detto che il segno supplisce una presenza che è assente, cosa vuole dire? Che suppliscono non qualcosa che c’è stato o che c’è, perché se no sarebbe un’operazione metafisica, quella cosa è lì ed è quella che è, ciò che è, è, e ciò che non è non è, quindi suppliscono una presenza che di fatto non c’è, quindi sono un supplemento del supplemento, altro modo per dire che il segno è sempre segno di un altro segno e non segno di una cosa. Arriviamo a pag. 272) Nella voce la presenza dell’oggetto scompare già, (nella voce quando parlo e parlo di qualche cosa il qualche cosa di cui parlo, ci sta dicendo Derrida, scompare nella mia voce perché ciò che compare è la mia voce, non più la cosa) la presenza a sé della voce e dell’intendersi parlare sottrae la cosa stessa che lo spazio visibile lasciava essere davanti a noi (quando io mi riferisco a un qualche cosa, mi riferisco a questa cosa attraverso delle parole, io mi sento parlare e questo sentirmi parlare è quello che fa scomparire la cosa letteralmente perché ciò che appare è solamente il mio dirmi delle cose) sparendo la cosa la voce le sostituisce un segno sonoro che può al posto dell’oggetto sottratto penetrare profondamente in me, installarsi fino in fondo al cuore, è il solo modo di interiorizzare il fenomeno trasformarlo in akoumeno (sarebbe il rimedio) il che suppone un’energia e una sinestesia originarie ma anche che la sottrazione della presenza nella forma dell’oggetto, dell’essere davanti agli occhi o sottomano installi una sorta di finzione se non addirittura di menzogna nell’origine stessa della parola (cioè la parola non dà mai la cosa stessa, posso parlare di qualche cosa quanto voglio ma tutte queste cose che dirò non mi diranno mai la cosa, questo è il segno come morte, la cosa si dissolve in questo dire che non raggiunge mai la cosa, non riesce mai a vivificarla, non riesce mai a giungere alla cosa presente) La parola non dà mai la cosa stessa ma un simulacro che ci tocca più profondamente della verità, ci colpisce più efficacemente non è la presenza come tale dell’oggetto che ci commuove ma i suo segno fonico. L’impressione successiva del discorso che colpisce con doppia intensità vi da tutt’altra emozione che la presenza dell’oggetto stesso ho detto altrove perché i dolori simulati toccano assai più di quelli reali /…/ Se il teatro è condannato, è perché come indica il suo nome esso è un luogo di spettacolo, è perché dà a intendere (cioè inganna questo è già in Platone, l’arte come inganno, simulazione della realtà. Il supplemento è questa differenza che viene a supplire qualche cosa che di fatto non è mai stata, viene a supplire una presenza che è sempre stata assente, che non c’è mai stata in realtà, pensare che ci sia stata è il pensiero stesso della metafisica, pensare che ci sia stato un qualche cosa che almeno una volta sia stato quello che è in modo definitivo e incontrovertibile, però se il linguaggio è un susseguirsi incessante di segni che rinviano ad altri segni come sarebbe stato possibile reperire l’elemento originario, è una costruzione fantasmatica direbbe Freud, perché a questo punto possiamo concordare con lui, questa presenza originaria non c’è mai stata, non è mai stata presente a nessuno, mai, la si è costruita, da qui l’idea del paradiso, più o meno perduto e tutte queste storie ma non c’è mai stata perché non può esserci presenza semplicemente se c’è linguaggio) La supplementarietà rende dunque possibile tutto ciò che costituisce il proprio dell’uomo, la parola, la società, la passione eccetera (la supplementarietà cioè la “differance” sarebbe la barra, ricordatevi che per lui la barra, come già per De Saussure è ciò che costituisce il segno, il segno è ciò di cui sono fatte le parole, le parole sono ciò di cui sono fatti i discorsi quindi tutto quanto. Qui si chiede allora “che cos’è il proprio dell’uomo?” cioè che cos’è che dobbiamo dire propriamente dell’uomo?) Da una parte è ciò di cui bisogna pensare la possibilità prima dell’uomo e fuori di esso. L’uomo si lascia annunciare a se stesso per via della supplementarietà che non è dunque un attributo accidentale o essenziale all’uomo, perché ci sia l’idea di uomo comunque occorre che ci sia linguaggio, che ci sia segno (quindi anche l’uomo in quanto tale procede dalla differenza necessariamente) D’altra parte la supplementarietà che non è nulla né una presenza né un’assenza, non è una sostanza né un’essenza dell’uomo è precisamente il gioco della presenza e dell’assenza, l’apertura del gioco che nessun concetto della metafisica o dell’ontologia può comprendere (Abbiamo visto la volta scorsa che porre la questione in questi termini può comportare dei problemi, come porre la differenza, cioè questo supplemento, come un qualche cosa che non procede più dal segno, non procede cioè dalla parola, se procedesse dal segno sarebbe a sua volta mediato da qualche altra cosa e quindi si tratta a questo punto di riflettere su questa nozione di supplementarietà, cioè di archi scrittura, di differance, di barra perché non è che venga dal niente, si certo struttura il segno e senza questa supplementarietà non ci sarebbe segno, ma il segno è fatto non soltanto della barra, c’è un significante e c’è un significato, questi due elementi che sono tenuti insieme dalla barra e insieme costituiscono il segno, questi due elementi tuttavia non possono giungere dopo la barra, la quale per altro non vuole dire niente, come ci dice lui continuamente, non significa niente, non significando niente è fuori dal segno cioè è fuori da tutto ciò che è un rinvio, è fuori dal segno quindi è fuori della parola perché la parola è segno. Questo è un problema ovviamente perché sembra costruire un attacco, a suo parere formidabile alla metafisica, muovendo da una nozione che comunque muove dalla metafisica perché la differance è quella che è e non è altro da sé, perché? Perché è così, dopo tutto Derrida, non può dire perché è quello che è, perché farebbe a questo punto procedere la differenza da qualche altra cosa, quindi sarebbe prodotta da altro mentre per lui non può essere prodotta da altro in quanto è originaria, è lei che produce ogni cosa, e questa è una posizione metafisica che crea un problema. Sarebbe come dire che ciò che sta affermando e cioè che la differance è l’origine, ciò che produce, ciò che origina il segno, non potrebbe dirlo, perché a questo punto sarebbe soltanto un gioco linguistico e cioè non si troverebbe nella condizione di poter affermare questo con certezza, potrebbe dire che in base a questo che ho elaborato e alle premesse da cui sono partito, siano quelle che siano, queste sono possibili conclusioni, non potrebbe neanche dire che sono conclusioni necessarie, ma possibili conclusioni di questo gioco e quindi questo che sto dicendo vale al pari di qualunque altra cosa.