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19 dicembre 2018

 

La struttura originaria di E. Severino

 

Vorrei farvi un esempio per provare a spiegare in termini più semplici quello che sta facendo Severino in queste pagine. Considerate questa proposizione: “L’essere è la totalità dell’apparire”. Questa proposizione è fatta in modo tale per cui comporta un giudizio, un’apofansi, non è analitica, nel senso che ciò che segue all’essere non è necessariamente implicito nell’essere. È propriamente un giudizio sintetico a priori, nel senso che è necessario che l’essere sia la totalità dell’apparire; necessario, certo, ma, tuttavia, non analitico perché non è incluso nell’essere stesso. La cosa che importa è che questa affermazione, questo giudizio, sia vero, e cioè che incontraddittoriamente l’essere sia la totalità dell’apparire. Ma quando, per Severino, un’affermazione è vera? Tenete conto che questo esempio lo sto facendo io, non lo fa Severino, il quale avrebbe sicuramente da ridire perché è molto sommario. Dicevo, dunque, che perché sia vera questa affermazione occorre che non sia autocontraddittoria ma che sia incontraddittoria. Come procede Severino? In questo caso, quello della proposizione “L’essere è la totalità dell’apparire”, abbiamo che l’essere è ciò che appare, ma questo essere, questo ciò che appare, è mediato da un termine che è la totalità. Quindi occorre che l’essere e la totalità siano due cose che necessariamente stanno insieme, e cioè che sia contraddittorio affermare la non contraddittorietà di questa relazione tra l’essere e la totalità. Come procederebbe Severino? Se l’essere non fosse la totalità l’essere avrebbe o un altro essere superiore oppure sarebbe una parte di qualche cosa, e in entrambi i casi non sarebbe l’essere. Quindi, affermare che l’essere non è la totalità è autocontraddittorio; soltanto se l’essere è totalità questa affermazione è incontraddittoria. Poi, c’è questo medio, la totalità, che deve convenire all’apparire. Anche in questo caso dire che la totalità è ciò che appare occorre che sia incontraddittorio, e cioè che sia contraddittorio affermare che non è incontraddittorio. Se la totalità non apparisse non apparirebbe nulla, quindi, nemmeno la totalità; quindi, se la totalità non apparisse non sarebbe totalità, sarebbe niente perché non appare niente. A questo punto abbiamo che la totalità conviene all’essere necessariamente, cioè è contraddittorio affermare che non gli appartiene; allo stesso tempo, abbiamo visto che alla totalità conviene che sia qualcosa che appare, ché se non appare è niente; quindi, deve necessariamente apparire. A questo punto che cosa abbiamo che i due lati di questa proposizione si rivelano incontraddittori perché abbiamo tolto la negazione. La negazione, infatti, comportava una contraddizione: se io nego che all’essere conviene la totalità, abbiamo visto che produco una proposizione autocontraddittoria, cioè produco una proposizione che afferma che l’essere non è l’essere. Quindi, potremmo scriverla così, seguendo Severino: essere = totalità dell’apparire. Però, l’essere propriamente non è la totalità dell’apparire, nel senso che sono due formulazioni differenti. E, allora, sì, certo, rimangono distinte ma non differenti, perché queste due affermazioni, cioè l’essere = totalità dell’apparire ci appaia come incontraddittorio occorre passare dall’astratto, che è questa affermazione “L’essere è la totalità dell’apparire” … Astratto perché uno è soggetto e l’altro un predicato, ma è astratto rispetto a che cosa? Rispetto al concreto, ovviamente, e il concreto che cosa mostra? Mostra questa proposizione come un tutto. Questo concreto, così come fa il concreto generalmente, mostra che ciascuno di questi elementi vale ciascun altro, è ciascun altro. Così come facevamo rispetto all’esempio “questa lampada che è sul tavolo”, il concreto è l’intera proposizione. Se io astraggo un pezzo di questa proposizione, il concreto cessa di essere tale, cioè cesso di avere di fronte ciò che mi appare realmente. Ciò che appare concretamente è che la lampada è “questa lampada che è sul tavolo”, non un’altra lampada. E così nella proposizione che vi ponevo come esempio, l’essere ci appare non come l’essere distinto, o astratto, ma l’essere che è la totalità dell’apparire. Severino usa questo stratagemma per mostrare il concreto, cioè scriverebbe che:

(essere = totalità dell’apparire) = (totalità dell’apparire = essere).

A questo punto si sarebbe prodotto il concreto, dove ciascun elemento, non essendo astratto rispetto agli altri, mostra il tutto, la totalità. A questo punto, direbbe Severino che l’essere è effettivamente la totalità dell’apparire; si è mostrato, cioè, che negare questa affermazione è autocontraddittorio. Ora, detto questo, aggiungiamo che l’importanza di un’elaborazione del genere, quella di Severino, è trovare che cosa sostiene, che cosa regge, di che cosa è fatta, una struttura originaria, una struttura originaria che regge qualunque altra possibilità, qualunque cosa esista. Ciò che regge tutto quanto è la incontraddittorietà. Come giunge a dire questo? Ci giunge attraverso una serie di considerazioni che muovono dal fatto che se, dicendo che l’essere è l’essere, questa formulazione non fosse il concreto, non fosse l’apparire, se non fosse così, cioè che l’essere è l’essere… ma per poter affermare questo occorre che io ponga questo essere come ciò che toglie di mezzo la sua negazione, che devo porre (il non essere) e poi toglierla. Soltanto a questo punto l’essere è effettivamente l’essere, e cioè non c’è la possibilità che sia altro da sé. Compiendo questa operazione, cioè ponendo la negazione dell’essere e poi togliendola fa una cosa importante, che lui attribuisce alla struttura originaria, e cioè nega il divenire. Se l’essere, per potere essere quello che è, deve togliere la sua negazione, cioè il non essere, è ovvio che l’essere non può venire dal non essere, perché l’ha tolto, non c’è più, né può andare verso il non essere, e, quindi, è eterno, perché non nasce e non perisce. Quindi, è eterno, cosa che gli ha creato qualche problema con la Chiesa. A questo punto è chiaro che se dio è eterno allora non c’è creazione, per il motivo ovvio che se dio è eterno non può esserci il non essere prima di lui, né potrà essere il non essere dopo di lui; quindi, non è venuto dal non essere un qualche cosa, non c’è creazione possibile, perché è eterno. A tutto ciò aggiunge un elemento che riguarda poi il pensiero filosofico che accoglie la possibilità del non essere all’interno di sé. Quando io dico che qualcosa differisce da sé, sto dicendo che io tengo a fianco di questo qualche cosa il non essere qualche cosa; non lo tolgo ma lo lascio a fianco. Lasciandolo a fianco questo qualche cosa è qualche cosa ma è anche non questo qualche cosa, il che è autocontraddittorio, e ciò che è autocontraddittorio è nulla, perché dice di sé di non essere. Se l’essere dice di sé di non essere, allora è nulla, nulla non come nihil absolutum, di quello non si può parlare. Tutte le considerazioni che fa Severino dopo La struttura originaria non abbandonano mai questa idea che il pensiero occidentale sia un pensiero fondato sulla follia, cioè sull’idea che le cose divengano: se le cose divengono allora vuole dire che queste cose sono e non sono. È questa per lui l’estrema follia. Quindi, tutto il pensiero occidentale affonda le proprie radici sulla follia. Da qui una serie di problemi che il pensiero occidentale, quindi, l’occidente, l’umanità, ha incontrato nel suo cammino, nel senso che da sempre ha dovuto porre rimedio a questa follia. Porre rimedio come? L’ultimo rimedio, quello più recente, quello con cui abbiamo a che fare, è la tecnica. È la tecnica che dovrebbe porre rimedio a questa follia immaginando che la produzione di mezzi, di strumenti in vista di fini, secondo la definizione di Heidegger, esaurisca la possibile totalità dei fini, che, quindi, questo strumento diventi lo strumento finale, lo strumento che risolve tutto. Ma, naturalmente, questa idea è viziata nella sua struttura dall’essere fondata sul concetto di divenire - la tecnica è divenire, le cose si trasformano continuamente – e, quindi, anche la tecnica trae il suo fondamento dalla follia, per cui non potrà mai riuscire nel suo intento. Ora, qui si potrebbe porre una questione che è connessa con la volontà di potenza: la volontà di potenza è il tentativo di porre rimedio a questa follia? Sì e no, anche perché c’è l’eventualità che questa follia non sia nient’altro che il linguaggio. Rispetto a questo modo di vedere le cose, di approcciare le cose, il linguaggio stesso è la follia, perché per affermare ciò che qualche cosa è deve affermare ciò che questo qualche cosa non è, deve, cioè, autocontraddirsi. Quindi, il tentativo di Severino, dopo avere individuato la struttura originaria, cioè un qualche cosa di sufficientemente solido, stabile e soprattutto di incontrovertibile, regge a fino a un certo punto, cioè regge fino al punto in cui è pensato, anche se questo stesso pensiero è contraddittorio, non appartenere al funzionamento del linguaggio ma è pensato come un ente metafisico. Se lo pongo nel linguaggio e tengo conto, perché non posso non tenere conto, che nel linguaggio per dire che cos’è una certa cosa devo dire un’altra cosa, allora anche dicendo della incontraddittorietà mi trovo preso in un gioco pericoloso, nel senso che per risolvere il problema della incontraddittorietà dovrei tornare ad usare lo stesso sistema, quello che usa Severino e su cui fonda tutto: incontraddittorietà = incontraddittorietà. Però, sarebbe la formulazione astratta di un concreto. Il concreto, l’immediatezza di ciò che appare, verrebbe formulata per Severino in questo modo, cioè:

(incontraddittorietà=incontraddittorietà) =(incontraddittorietà=incontraddittorietà)

Questo sarebbe il concreto, cioè ciò che appare concretamente; dopotutto, sarebbe la realtà. Il problema che sfugge a Severino è che in questo modo, straordinariamente articolato e acuto, non si tiene conto del fatto che tutto ciò che si dice, che si scrive, non descrive uno stato di cose ma descrive soltanto un funzionamento. A un certo punto, lui pare intendere questo, quando dice che la verità è, in effetti, una struttura, un organismo, un qualche cosa che procede dal fatto che qualche cosa si mostra incontraddittorio; però, rimane il fatto che tutte queste cose non sono altro che una narrazione intorno a qualche cosa che, sì, occorre che sia, ma che cosa occorre che sia? Occorre che sia il linguaggio, con il suo funzionamento. E, quindi, questo funzionamento è fatto in modo tale che ciò che mi appare è ciò che mi appare: se io ho detto A ho detto A e non un’altra cosa; quindi, questo essere, in questo caso la A, è la totalità dell’apparire, questa A è la totalità di ciò che mi appare, di ciò che dico, non c’è altro. Però, rimane il fatto che tutto questo appartiene al funzionamento del linguaggio, il che significa che, per potere affermare una qualunque cosa, io devo necessariamente rincorrere altre parole, e per potere affermare queste parole devo rincorrere altre parole ancora, ecc. Quindi, l’incontraddittorietà serve al linguaggio, e lui ha fatto bene a sottolineare questo aspetto: ciò che si mostra, ciò che appare, è quello che appare; come dicevo prima, se ho detto A ho detto A e non un’altra cosa; poi, cosa questo significhi per me è un’altra questione. Tutto questo conduce poi, naturalmente, al tentativo di Severino di costruire attraverso la contraddizione C, che poi vedremo, un qualche cosa che stia in piedi presupponendo che non stia nel linguaggio, ed è lì che tutto gli ritorna addosso, e cioè si trova di fronte a un’aporia che non è più risolvibile. Lui immagina che sia risolvibile all’infinito, quando il tutto apparirà. Tutto questo per dare un’idea generale non solo del pensiero di Severino ma anche del modo con cui pensa, con cui approccia le varie cose, per mostrare sempre un’affermazione la cui negazione è autocontraddittoria, e lui deve togliere questa contraddittorietà per potere affermare l’incontraddittorio, cioè qualche cosa che appartiene alla struttura originaria, che cioè non si può negare, perché ogni altra cosa è autocontraddittoria, quindi, per Severino è la follia, cioè nulla. Il fatto è che, mostrandosi il linguaggio come strutturalmente autocontraddittorio, seguendo Severino il linguaggio sarebbe nulla, il che non ci porta molto lontani a questo punto, perché comporta un’altra contraddizione: il linguaggio è nulla ma questo nulla appartiene al linguaggio; quindi, per essere nulla, occorre che ci sia un linguaggio che lo definisce come nulla. Da questo tipo di contraddizione non si esce, a meno di non uscire dal linguaggio, allora sì, ma come? Non so se sono riuscito a rendere l’idea del modo in cui sta procedendo Severino. Riprendiamo la lettura. Siamo a pag. 311, paragrafo 14, Per una tipologia delle costanti mediazionali. Le costati mediazionali sono quegli elementi che mettono un elemento in relazione a un altro, non essendo analiticamente evidente che una cosa appartiene a un’altra. Per esempio, dicendo “tutto” io includo la “parte”, non ho bisogno di costruire un giudizio sintetico, soprattutto a posteriori perché non lo posso dedurre dall’esperienza che la parte sia necessariamente implicata nel tutto. La costante, quindi, è quell’elemento che interviene… come nell’esempio di prima, “l’essere è la totalità dell’apparire”, sarebbe la totalità, come costante che è di mezzo, che appartiene a un lato della proposizione e appartiene anche all’altro in modo diverso, che non è deducibile dal primo. I due lati della proposizione, di cui il primo non deduce immediatamente il secondo, ci vuole un medio, una costante che sta in mezzo. Distingue tre tipi di costanti che convengono L-immediatamente ad A – salva la possibilità di accertamento di altri tipi:… La formula è A=M=B, dove M è il medio, l’elemento che mette in relazione la A e la B. …a) I tipo. – B conviene L-immediatamente a M – ossia vale L-immediatamente come predicato di M -;… In questo caso B è immediatamente predicata dalla M, perché la M è il medio, non è la A. …ma, da un lato, B non è momento semantico di M in quanto tale, ossia B non è parte della significanza di M;… Momento semantico, cioè un rinvio semantico. La B, l’ultima parte della proposizione, non fa parte necessariamente di M, ma è qualche cosa che viene predicato. …dall’altro lato M non è parte della significanza di B. Si dovrà dire pertanto che in quanto B sia considerato come distinto da M in modo tale che il campo semantico costituito da B sia assunto come non includente il campo costituito da M e viceversa, B permane come B e M come M; sì che M conviene (immediatamente) ad A, anche in quanto sia considerato come significato distinto da B. In quanto B è inteso in questo modo, B può essere costante L-immediata di M, ossia può “appartenere” al significato di M, solo come predicato. Questa “appartenenza” non è l’appartenenza che qui sopra si è esclusa dicendo che B non è parte del significato di M; ma è l’appartenenza che consiste nella stessa convenienza predicazionale di B a M. Sta dicendo che il fatto che B appartenga a M, il medio… questo riguarda sempre, badate bene, uno dei tipi di costanti mediazionali. Sta valutando, quindi, il fatto che B convenga necessariamente a M oppure no, cioè, se B appartenga al significato di M in quanto M lo predica. A pag. 313. d) La distinzione di questi tre tipi di costanti è distinzione di tre tipi di proposizioni sintetiche a priori. Nei casi in cui B non vale come predicato di A, il predicato della sintesi a priori è la posizione dell’implicazione o dell’appartenenza di B ad A. Dice Nei casi in cui B non vale come predicato di A, che è possibile, perché io posso affermare un qualche cosa ma questo qualche cosa che affermo non è necessariamente predicato dalla premessa, potrebbe anche non esserlo. Ad esempio: la proposizione sintetica a priori che si istituisce con i significati “totalità” e “parte” è: “Totalità è implicante parte – dove il predicato non è “parte”, ma, appunto, “implicante parte”. È simile all’esempio che vi facevo prima. Il predicato della proposizione, che vi avevo portato come esempio, non è l’“apparire” ma la “totalità dell’apparire”, cioè l’essere (soggetto) è la totalità dell’apparire (predicato). Andiamo a pag. 320, paragrafo 18, Principio di non contraddizione e proposizioni analitiche. Esiste un’unica proposizione analitica L-immediata. Dunque, dice, Il principio di non contraddizione è “fondamento” (come dice Kant) delle proposizioni analitiche, non nel senso che la fondazione sia una L-mediazione, ma nel senso che la connessione analitica viene rilevata come individuazione dell’universale dell’incontraddittorietà, ossia viene ricondotta (immediatamente) alla formulazione universale del principio di non contraddizione. Non posso dire che nel tutto non ci sono le parti, dicendo “tutto” includo implicitamente le parti. Dice che il principio di non contraddizione è fondamento non nel senso di una fondazione, che sarebbe un’altra cosa che interviene, ma nel senso che la connessione è immediata: dicendo “tutto” dico anche “parte”. Ogni connessione analitica costituisce una individuazione del principio, e non una “conseguenza” di questo. Questo è importante. Sta dicendo che nella connessione analitica, come “tutto” e “parte”, questa costituisce una individuazione del principio, cioè, io individuo il principio nel momento in cui constato che il “tutto” include la “parte”, che non posso parlare del “tutto” senza parlare delle “parti”. Non è che c’è il principio di non contraddizione e, quindi, non posso parlare del “tutto” senza parlare della “parte”; il principio di non contraddizione sorge da lì, dal fatto che il “tutto” non può non includere la “parte”. Ma perché il “tutto” non può non includere la “parte”? Severino fa tutta una spiegazione ma, secondo voi, questa spiegazione su che cosa punterà? Sul fatto che la connessione analitica sia l’individuazione del principio di non contraddizione deve giungere a porsi come un’affermazione incontraddittoria, cioè, una affermazione tale per cui la sua negazione si autocontraddice o, ancora, affermare che la connessione analitica non è un’individuazione del principio di non contraddizione ma segue al principio di non contraddizione, questo deve risultare autocontraddittorio. Infatti, si afferma che A e a1 non in quanto questo essere deve venir pensato come questo essere, ma in quanto l’essere è l’essere, e questa identità universale include L-immediatamente quella prima identità come una sua individuazione. (Si dice poi che la proposizione “A è a1” equivale alla proposizione “Questo essere è questo essere” – giacché… Tenete sempre conto del suo progetto: deve dimostrare l’affermazione che il principio di non contraddizione segue la sua individuazione; o, come diceva prima, una connessione analitica costituisce un’individuazione del principio e non una conseguenza di questo. Questo va tenuto ben presente. …la proposizione “A è a1” equivale alla proposizione “Questo essere è questo essere” – giacché escludere che “A è a1” sia affermato perché questo essere è questo essere significa appunto tener ferma quell’equivalenza – perché i termini della serie a1…an sono costituiti da A… Sono tutte le costanti di A, le sue determinazioni. …e dalle negazioni delle varie forme di negazione di A, sì che, in ogni caso, predicare di A uno di quei termini, significa affermare che A è A. Se poi A è inteso come già esso una sintesi predicazionale, allora i termini della serie a1…an possono valere anche come parte della significanza di A: in questo caso la proposizione “A è a1” equivale alla proposizione “Questo essere è questo essere” nel senso che ciò che in A è identico ad a1 è appunto affermato nella sua medesimezza. Se avete seguito un po', ecco che vi rendete conto che si tratta sempre della questione del concreto e dell’astratto. È importante riflettere su queste due righe dove dice si afferma che A e a1 non in quanto questo essere deve venir pensato come questo essere, ma in quanto l’essere è l’essere, cioè non è questo essere qui, ma sta dicendo che l’essere è l’essere. Quindi, quando dice che Ogni connessione analitica costituisce una individuazione del principio, e non una “conseguenza” di questo, sta dicendo che posso dire che questo essere è questo essere perché l’essere è l’essere e non posso negarlo. b) Riprendendo. Si afferma che A è A che questo essere è questo essere – non in quanto l’identità (l’incontraddittorietà) sia una proprietà di questo essere – sì che, considerando una cert’altra determinazione x, non si possa dire che x è x… Dico “questo essere è questo essere”, come dire che quest’altro potrebbe anche non essere. No, dice, ma in quanto A è rilevato come determinazione o individuazione dell’universale – l’essere – alla cui essenza appartiene l’incontraddittorietà. Quindi, si parte dal fatto che l’essere è incontraddittorio, perché se nego l’essere allora l’essere non è, è niente, e non andiamo da nessuna parte. Qui c’è un po' tutto il discorso di Severino, che ho provato in qualche modo a tratteggiarvi prima, e cioè che dire che l’essere è l’essere è qualche cosa che per Severino è assolutamente necessario. Cosa significa che è necessario? Significa che se nego una cosa del genere creo, sì, una contraddizione, ma il creare questa contraddizione comporta un problema, e cioè non è più possibile parlare. Questo perché se l’essere non è l’essere, non questo essere ma l’universale, allora non posso neanche più dire che questo essere è questo essere, cioè non posso più affermare nulla perché ogni volta che affermo qualche cosa affermo che questa cosa è questa cosa. Se io affermo, cosa che potrebbe apparire un paradosso ma non lo è, che ciascun elemento differisce da sé, sto affermando che ciascun elemento differisce da sé, sto affermando che qualche cosa è quella cosa lì e non un’altra. Questa è una delle cose più difficili da intendere per molte persone. Questo per farvi vedere la cosa più importante, e cioè come per Severino sia fondamentale l’incontraddittorietà dell’essere. Se l’essere è contraddittorio allora, e in questo non ha torto Severino, allora è il nulla, perché non posso più affermare nulla; non nel senso che è autocontraddittorio, ma perché non c’è, perché questa cosa non è questa cosa. È in questo senso che ci interessa la questione. In effetti, ci sta mostrando una delle condizioni del funzionamento del linguaggio, e cioè che ci sia una struttura originaria, che, certo, sappiamo appartenere al linguaggio, ma questa struttura originaria è necessaria perché funzioni, perché possa affermarsi una qualunque cosa, non che questo sia questo ma che l’essere è l’essere, cioè che l’essere non può non essere: perché io possa affermare che l’essere è non non essere, è necessario che l’essere sia non non essere, perché se non fosse così, questo essere mi svanirebbe fra le dita, non sarebbe più nulla, non saprei più nemmeno che cosa sto affermando, quindi, non ci sarebbe l’affermazione, quindi, non ci sarebbe il linguaggio. Non posso affermare più nulla perché se affermo qualcosa affermo anche il suo contrario, e cioè dicendo dico che quello che dico non è quello che dico… non retoricamente ma strutturalmente. Retoricamente lo posso fare perché c’è qualcosa che è quello che è, sennò neanche la retorica potrebbe esistere. Il merito di Severino è di avere individuato che cosa è necessario per potere parlare, è cioè la struttura originaria, cioè l’incontraddittorio; è necessario che qualcosa si ponga come un qualche cosa che, se negato, si autocontraddice e, quindi, non lo posso più dire. Ma, torno a ripetere, non è che non lo posso dire per una questione logica, perché sennò costruisco una contraddizione logica e non va bene; no, perché questa cosa non è più questa cosa, ciò che sto affermando non è più ciò che sto affermando, non è più niente, e, quindi, non c’è più linguaggio. Viceversa, si afferma che l’essere è essere non in quanto l’identità sia una proprietà che conviene all’essere, inteso come universale astratto o formale, indipendentemente dal contenuto concreto di questa formalità; ma in quanto l’essere è l’universale concreto, concreto contenuto della forma, ossia in quanto l’elemento formale è posto nella sua relazione al contenuto determinato (e non al contenuto indeterminatamente posto). Sì che se da un lato si deve dire che A è A in quanto l’essere è l’essere, dall’altro lato si deve dire che l’essere è essere in quanto A (B, C, …) è A (B, C, …), ossia in quanto ogni determinazione particolare è sé medesima. L’essere comprende le determinazioni. Ciascuna di queste determinazioni a sua volta è quello che è, necessariamente, non perché è quella determinazione ma perché l’essere è l’essere, per cui quella determinazione è quella determinazione. È questo che vuole dire quando scrive A (B, C, …) è A (B, C, …): ogni determinazione particolare è sé medesima.