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19 novembre 2025

 

Gregorio di Nissa Teologia Trinitaria

 

La teologia ci ha portati a considerare la questione dell’estasi mistica, cioè, della contemplazione della verità. La verità può solo essere contemplata, non può essere né detta né pensata, perché la verità è Dio e, quindi è ineffabile, e la sua ineffabilità è ciò che mantiene al sicuro. Se diventasse dicibile perderebbe il suo carattere di identità, perché se si dice allora si trasforma in ciò che di fatto è, cioè nei molti, come diceva Aristotele nelle Categorie, prima che arrivasse Porfirio, che ha risolto il problema. Questa cosa mi ha fatto pensare che probabilmente dobbiamo modificare leggermente il programma di lettura, perché l’estasi mistica riguarda il bello, riguarda ciò che piace, il piacere. Ciascuno è attratto dal piacere, dall’ήδονή, dal bello. Ma questo bello che cos’è, da dove arriva? I teologi hanno inteso bene la questione perché il bello assoluto è il vero, cioè è Dio, e quindi le persone vogliono il bello perché vogliono il vero, perché vogliono Dio, e il bello e ciò che inseguono, ciò che desiderano, ciò che per tutta la vita vogliono ottenere, facendo di tutto per ottenere questa cosa, perché viene manifestata sotto la forma di ciò che piace. E ciò che piace è ovviamente ciò che attrae. Dieter Henrich è un filosofo che viene citato da Reale ed è uno che sembra essere piuttosto bravo, diciamo che potrebbe essere a livello di Beierwaltes. Lui si è occupato della questione ontologica, il titolo è La prova ontologica dell’esistenza di Dio, e fa un excursus di tutte le prove ontologiche che sono state fornite nel corso dei secoli sull’esistenza di Dio. Ma cosa significa cercare una prova ontologica dell’esistenza di Dio? La prima, la più famosa, è stata quella di Anselmo. Significa, sì, certo, anche dare alla logica una dignità che altrimenti non avrebbe, ma soprattutto serve a fornire la giusta via, la giusta direzione per arrivare al bello, per arrivare all’estasi mistica, cioè, per compiere quel processo noto come itinerario dell’anima a Dio. Ecco perché lo leggeremo dopo Gregorio di Nissa, perché questo itinerario dell’anima Dio è ciò che ciascuno percorre nel tentativo di raggiungere, di ottenere ciò che gli piace. Ora, i teologi direbbero che questo modo di muoversi è falso perché lui non si rende conto che in realtà sta cercando Dio. È vero, non se ne rende conto, però di fatto sta cercando il vero e ogni volta che dice che cosa gli piace sta dicendo che cosa per lui è Dio e qual è il suo itinerario dell’anima a Dio, qual è il suo percorso. Questo bello, lo diceva già Platone soprattutto nel Simposio: si va con un ragazzino perché è bello, come dire che questa bellezza che si prova insieme con il ragazzino, facendo il sesso, porta verso un bello che va oltre questo bello, va verso un bello che è l’idea del bello. Naturalmente, lui non parlava di Dio, ma dell’idea del bello, che sta lassù. Questo itinerario dell’anima a Dio è il percorso che ciascuno compie, sapendolo oppure no, verso quell’oggetto che per lui è l’estasi mistica; perché una volta raggiunto questo oggetto, nella fantasia c’è l’acquietamento, che Plotino descrive quando si avvicina all’Uno. C’è l’acquietamento dell’Uno, ci si acquieta, tutto diventa tranquillo, sereno, è la pace totale, non ci sono più i molti; quindi, si è raggiunta la pace, si è raggiunto Dio. Ecco perché i teologi dicevano che la contemplazione di Dio è sufficiente, perché quando uno è lì non ha più bisogno di nulla, ma non ha più bisogno di nulla non perché vede il tizio con il triangolino sulla testa, ma perché possiede il tutto, l’intero, cioè diventa lui Dio. E qui naturalmente c’è uno scivolamento verso lo gnosticismo. Bisogna fare attenzione a queste cose. L’estasi mistica è quella cosa che ha inventato il cristianesimo per potere pensare la verità. La si può pensare solo attraverso l’estasi mistica, solo attraverso la contemplazione, perché non la si può raggiungere. Ma l’estasi mistica dice che c’è comunque questo trascinamento, questo rapimento verso l’oggetto dell’estasi. Ciò che le persone cercano è perché non hanno inteso che in realtà stanno cercando Dio. Siamo a pag. 72, sempre con Gregorio di Nissa contro Eunomio. E ancora, cosa questa che smaschera vieppiù l’assurdità della dottrina di Eunomio: non solo, in seguito a si fatto ragionamento, si attribuirà al Figlio un’origine della sua sussistenza nel tempo, ma anche, per effetto di questa consequenzialità, essi non risparmieranno nemmeno il Padre, e argomenteranno che anche lui avrebbe un’origine dal tempo. Se, infatti, sta al di sopra del Figlio un segno che indichi la sua generazione, tale segno fissa evidentemente anche il principio dell’esistenza del Padre. Questo perché introdurre il tempo significa introdurre il movimento. E questo non è bene. Forse non è inopportuno, per motivi di chiarezza, esaminare con maggior cura questo ragionamento. Colui che insegna che la vita del Padre è più antica di quella del Figlio, sicuramente separa con un certo intervallo l’Unigenito dal Dio... Lo separa con un intervallo. Qui si pone una questione notevole che, in fondo, è il perno di tutta la questione teologica relativa alla Trinità, e cioè la continuità. L’ipotesi del continuo. Dice, dunque, che nel pensiero di Eunomio si inserisce un salto, cioè si interrompe la continuità, si altera questa processione e si inserisce uno spazio. E questo è gravissimo per tutta la teologia, perché lo spazio che si inserisce o è misurabile, oppure non lo è. Però, misurare questo spazio, dopo Zenone, diventa un problema. Perché se questo spazio fosse infinito, come la mettiamo? Il Figlio non sarà mai generato dal Padre.

Intervento: Sarebbero due sostanze diverse.

Il che andrebbe contro il dettato niceno. Gregorio non demorde da questa questione: non c’è uno spazio tra l’uno e l’altro, c’è quella processione, che non ha propriamente un’argomentazione che la sostenga, tant’è che lo stesso Plotino, alla fine delle Enneadi, si domandava come si passa dall’Uno all’Intelletto e all’Anima e rispondeva: non lo so. Qui Gregorio di Nissa trova il sistema, perché, certo, li definiamo in modo differente ma ci riferiamo a un’unica sostanza. E dice, appunto, questo intervallo intermedio o si supporrà che sia qualcosa di infinito oppure lo si delimiterà per mezzo di segni e confini evidenti. Ma il concetto di “posizione intermedia” non ammetterà che tale intervallo sia infinito, altrimenti si eliminerà assolutamente con il ragionamento la nozione del Padre e la nozione del Figlio... Se il Figlio è infinito, non c’è più né l’uno né l’altro. ...e nemmeno si penserà che sia intermedio tale infinito, fino a quando sarà infinito, cioè non definito né da una parte né dall’altra, in quanto la nozione del Padre non arresta verso l’altro il procedere dell’infinito, né la nozione del Figlio tronca verso il basso l’infinitezza. E conclude dicendo che se si esclude naturalmente l’infinito vuole dire che Dio ha avuto un’origine. C’è stato un punto di inizio, dunque non è eterno, e a questo punto crolla tutto. Ma per fare crollare tutto, come abbiamo visto, basta inserire tra il Padre e il Figlio, tra l’uno e due, tra l’uno e i molti, uno spazio dove non c’è più continuità. D’altra parte, questa continuità come la provo? Con la teoria dei limiti? La teoria dei limiti non toglie lo spazio, fa finta che non ci sia. A pag. 76. Ma siccome è ammesso dal giudizio concorde di tutte le persone pie che, tra tutte le cose che esistono, alcune esistono attraverso la creazione, e siccome crediamo per fede che è increata la natura di Dio, nella quale, come ci insegna il discorso della pietà, colui che è la causa e colui che proviene dalla causa posseggono l’esistenza senza che un intervallo li separi... Di nuovo, sta dicendo che questo intervallo costituisce un grosso problema, se c’è un intervallo tra il Padre e il Figlio è un problema. Non ci deve essere assolutamente, non ci deve essere soluzione di continuità. ...ebbene ogni ordine nel tempo e ogni successione delle cose create si colgono mediante i secoli, mentre la natura che è antecedente ai secoli sfugge ad ogni differenza secondo il concetto di più antico e di più recente. Certo, perché è prima dell’eternità, sopra il cielo.

Intervento: Sostanzialmente è come se Gregorio di Nissa stesse affrontando il problema della definizione dell’irrelato; dare più nomi alla stessa sostanza introduce una differenza; con la differenza introduco un limite, ma sto parlando dell’illimitato.

Esatto. E da lì non se ne viene fuori. Ché tutto il creato, come già si è detto, ha avuto origine secondo una successione e un ordine, e quindi viene commisurato alla dimensione dei secoli, e se uno con il ragionamento risale attraverso la successione delle cose create al principio di quello che è stato fatto, costui delimiterà la sua ricerca con la creazione dei secoli. Invece la sostanza che è al di sopra del creato, poiché è estranea ad ogni idea di periodo di tempo, sfugge ad ogni successione nel tempo, perché non è partita dal nessun inizio del genere, non procede e non va a terminare in una fine, in nessun modo che si trovi conforme a un certo ordine.

Intervento: Esatto, è quello che pensavo. Perché avrebbe detto che è colpa dell’uomo che non può fare altro che misurare.

Si diletta a baloccarsi con questi giochini.

Intervento: È il classico artificio retorico, cioè dire al lettore, all’uditore, che non può capire.

È stato Plotino il primo: l’Uno non si può comprendere, ma si sente. E se non lo sente è colpa sua, non si è aperto a sufficienza.

Intervento: Quello è l’artificio retorico; invece, quello teorico è di Porfirio con la supersostanza.

Si doveva salvare la sostanza, a tutti i costi; altrimenti, nel caso di Plotino crollava l’Uno, nel caso del cristianesimo crollava tutto. Sì. Perfetto. A pag. 78. Questa, dunque, è la sostanza nella quale sussistono tutte le cose, come dice l’Apostolo, e noi che ad uno ad uno partecipiamo all’essere, in essa viviamo e ci muoviamo e siamo, essa (la sostanza) è anteriore ad ogni principio e non ci dà dei segni della propria natura... Viene immediatamente in mente Aristotele con le Categorie. Come ci dà i segni della sua natura? La sostanza è i segni, per così dire, della sua natura. Ah, questa è bella. ...ma è conosciuta solamente nel non poter essere compresa. Questo è infatti il suo peculiarissimo segno di riconoscimento, cioè che la sua natura è al di sopra di ogni pensiero che possa caratterizzarla. A pag. 79. Poiché dunque le nostre parole hanno mostrato che il Figlio Unigenito e lo Spirito di Dio non devono essere cercati nel creato, ma si deve credere che siano sopra il creato... Perché se uno li cerca nel creato, li cerca nelle cose; e, invece, no, non fanno parte delle cose, sono al di sopra delle cose. Ma chi deve credere che siano sopra il creato? ...il creato potrà forse essere compreso in un suo principio peculiare dalla curiosità di coloro che si danno da fare a investigare questi problemi, mentre quello che al di sopra del creato per niente affatto potrebbe essere maggiormente conosciuto, in quanto in esso non si trova nessun segno indicativo, antecedente ai secoli. Cioè, non c’è nessuna determinazione, quindi è l’indeterminato. Se dunque nella natura increata si pensa che esistano quelle mirabili realtà e quei mirabili nomi (intendo dire il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo), come è possibile che quello che è colto dal nostro pensiero, che si affatica e insiste sulle cose che stanno in basso, e colloca, facendo un paragone, una cosa al di sopra dell’altra per mezzo di un periodo di tempo, come è possibile, dicevo, credere che questo avvenga anche nella sostanza increata e anteriore ai secoli? La natura creata è il linguaggio, per così dire, per loro, cioè è fatta di parole e le parole cambiano, mutano, sono inconsistenti, non offrono nessuna garanzia. E questa è la questione interessante e linguistica che pone la teologia: la consapevolezza che le parole non possono in nessun modo essere garantite da alcunché. E, dunque, occorre un’altra garanzia, perché se le parole non possono essere garantite da nulla e noi abbiamo solo le parole per potere pensare Dio, se non ci venisse da Dio stesso quella parola identica a sé, che è la verità, e che noi possiamo sentire. Si sono accorti straordinariamente bene dell’impossibile connessione con il linguaggio e che con il linguaggio non c’è nessuna garanzia di nessun tipo, e che quindi è necessaria una verità che sia fuori del linguaggio. È necessario, dunque, un qualche cosa, una verità, un assoluto, un ineffabile che sia identico a sé e che funzioni da garante. Senza questo non è possibile potere affermare nulla come vero; si può raccontare ovviamente, ma nulla che abbia a che fare con la verità epistemica, nulla che possa servire così come è servita la Bibbia, come il libro, come il testo sacro. Identico a sé, immutabile. L’importante qui è intendere bene come la teologia abbia creato, abbia inventato l’estasi mistica, che non è altro che ciò che l’uomo, anzi la sola cosa che l’uomo può fare nei confronti della verità, e cioè la contemplazione. La contemplazione è quella condizione in cui ci si trova di fronte a qualche cosa che non può essere modificata, ma può soltanto essere contemplata: l’assoluto, l’ineffabile, l’identico a sé, la verità epistemica. Senza questo assoluto non abbiamo nessuna garanzia, e cioè siamo in balia delle parole, siamo, avrebbe detto Aristotele, nella doxa, nel racconto, senza possibilità di fermare nulla, quindi senza la possibilità di calcolare nulla, se non appunto come un racconto. È per questo che è così importante per loro. Uno può pensare che sia un cavillo. No, è una questione fondamentale sulla quale si gioca tutto, sulla quale si è giocato tutto il pensiero e il discorso occidentale, il quale ha potuto fare buona parte delle cose che ha fatto proprio perché ha immaginato di essere sorretto da una verità assoluta, e che quindi le cose che faceva, che provava, che inventava, ecc., erano vere. Come dicevamo già tempo fa, il concetto di assoluto era estraneo al greco antico, non c’era, è un’invenzione del cristianesimo, l’assoluto come l’irrelato, come l’identico a sé, come ciò di cui non si può dire nulla, l’ineffabile. In questo modo, come dicevo, è messo al riparo da ogni possibile argomentazione.

Intervento: Che però può essere percepito attraverso l’estetica del bello, attraverso il contingente, il sensibile.

Sì, il sensibile, certo. Noi abbiamo a che fare solo con il sensibile, in buona parte. Come dire, ci fornisce degli strumenti, degli elementi che ci fanno intendere la presenza dell’ineffabile.

Intervento: Presenza che, poi, essendo confermata dall’estasi, è un sentimento alla fine, è la cosa più sensibile.

Puoi pensarla come l’essere rapito, letteralmente ex-stasi, L’essere rapiti, come quando si dice che uno è rapito da un bello spettacolo o da una fanciulla: c’è un rapimento, c’è qualcosa che porta fuori, che letteralmente se-duce. Questa è l’estasi: l’estasi è l’essere rapiti, quindi trovarsi sottomessi alla verità. L’invenzione dell’estasi mistica, cioè della contemplazione della verità, porta alla totale sottomissione alla verità. Perché io la verità posso solo contemplarla, perché essendo identica a sé non la posso modificare, è quella che è, e basta. Quindi, posso solo contemplarla, cioè adorarla.

Intervento: Quello che volevo dire è che la bravura, l’intelligenza di questi teologi è stata quella di collegarla a un sentimento, come quello dell’essere rapiti da una percezione sensoriale di qualche tipo, e, se ci pensa, è qualcosa di privato, del singolo. Di conseguenza, il singolo non ci vuole rinunciare perché la manifestazione è più evidente della sua volontà di potenza. Q Dio e questo significa che Dio sta parlando con me, non sta tenendo un comizio, sta parlando con me, quindi io sono caro a Dio.

Intervento: È interessante a quura storica, possiamo chiamarla a questo punto, dell’estasi, fosse già comparsa per altre vie. Perché, tutto sommato, come sappiamo non si inventa mai ciò che è stato, è interessante capire se hanno colto la possibilità di collegare questa figura dell’estasi con la conferma della verità irrelata.

Per l’estasi loro usano una parola greca, che è appunto extasis. Veniva prima in questa accezione? Non lo so, occorrerebbe fare una ricerca. Così, a occhio, dire di no. L’estasi, nell’accezione in cui è stata pensata poi è quella imposta dal cristianesimo. I primi padri cappadoci erano greci, quindi parlavano di κστασις. Ma il testo greco non c’è.

Intervento: Come dicevamo prima, almeno da noi in Occidente, c’è stata anche la forte influenza della letteratura, l’amor cortese che lo ripropone pari pari.

Sono tutti aspetti che riprendono in fondo l’estasi mistica, perché l’estasi mistica è ritrovarsi faccia a faccia con Dio: lì c’è Dio, poi ci sono io. Quindi, ci sono dei momenti estatici dove io sono in presa diretta con la verità. Naturalmente, come dicevi giustamente, è una cosa totalmente soggettiva, questa verità sta parlando a me. Ma in quel momento, mentre contemplo la verità, io sto contemplando il tutto, l'intero, non ci sono più i molti, gli astratti, sono stati tolti di mezzo, sono in presa diretta con l'intero, vedo l'intero, cioè, io conosco l’intero. Conoscendo l'impero, io conosco tutto.

Intervento: Questo vuol dire che i padri cappadoci stessi, e i teologi successivi cristiani, aprono le porte allo gnosticismo.

Sì, in effetti, la più grande eresia, l’arianesimo, era tacciato di essere una variante dello gnosticismo.

Intervento: Però, dando questa tale importanza all’estasi e quindi al singolo di potere essere...

Sì, ho inteso. C’è uno scivolamento pericolosissimo.

Intervento: Se ci pensa, la dottrina calvinista della predestinazione è questo.

Però, non si è propriamente Dio, si è a contatto con Dio: Dio mi parla. Non è esattamente uno gnostico, lo gnostico si spinge un pochino più in là.

Intervento: Sì, però siamo lì perché soprattutto poi qual è la differenza essenziale tra gnosticismo e neoplatonismo? Perché il neoplatonismo, soprattutto nella sua rielaborazione cristiana, pretende che il ritorno a Dio sia normato da istituzioni. È per quello che si è detto tante volte che il protestantesimo è un rigurgito gnostico.

Questo è il problema dell’eresia ariana.

Intervento: Quindi, sono stati loro stessi a tenere la porta aperta.

Sì, non potevano non farlo, perché il neoplatonismo si porta sempre appresso lo gnosticismo come un qualche cosa che comunque è sempre lì presente, fa sempre da sfondo, per cui è facilissimo scivolare verso lo gnosticismo. A pag. 79. Dal momento che così suppongono... Qui ce l’ha sempre con Eunomio. ...che stiano le cose tutti coloro che hanno tolto la semplicità del più schietto annuncio della fede, che motivo c’è di tentare di distruggere per mezzo della creazione il contatto del Figlio con il Padre, sì che sarebbe necessario credere o che egli sia coeterno ad essa o che anche il Figlio sia più recente? È ancora il problema della separazione se si nega questo contatto continuo. Questa idea della processione, stavo pensando l’altro giorno, che è rimasta nella logica formale. La logica formale, per quanto riguarda l’implicazione, che è uno dei quattro operatori logici (implicazione, negazione, opposizione e congiunzione) ... L’implicazione, che è forse la più importante, secondo le tavole di verità, quelle stabilite secondo il modello di Pietro Ispano, l’implicazione è sempre vera tranne in un caso: quando il conseguente è falso e l’antecedente è vero; in tutti gli altri casi è sempre vera. Perché? Su cosa si basano? Perché è una regola, certo, se la sono inventata. Sì e no, ma viene dall’idea che l’implicazione comporti necessariamente un passaggio e questo passaggio ci sia necessariamente tra l’antecedente al conseguente. Se questo passaggio c’è necessariamente allora e solo allora se c’è il conseguente o se non c’è il conseguente allora non c’è neanche l’antecedente. Questo per dire che anche la logica, in fondo, come dire, conserva ancora le tracce della teologia cristiana, anche nei suoi operatori. Sennò che cosa garantisce che esista questo passaggio da A a B? Chi lo garantisce? Come sappiamo, Aristotele aveva inteso bene la questione, ma se non penso che questa sia una mia decisione, perché se la pongo come una mia decisione allora non posso più fondarmi su nulla di certo, ché sono solo mie opinioni, e allora è necessario che se c’è l’antecedente ci sia il conseguente, cioè se è vero il conseguente allora è vero l’antecedente. Se è falso il conseguente, il modus tollens si chiama in logica, è falso anche l’antecedente, perché non può darsi nell’implicazione che un antecedente non implichi un conseguente, non può avvenire. Così come non può avvenire che dal padre non si produca il figlio. Gregorio lo dice, parla proprio di produzione, come il padre reale che produce il figlio, che genera il figlio: lo genera ma non lo crea, se non lo fa essere altro rispetto a sé. Tre ipostasi, una sostanza. E quindi anche la logica, nelle sue regole, nelle sue formulazioni, mantiene una posizione che è prettamente teologica, che è l’unica in grado di garantire che l’implicazione funziona, cioè, sia vera. A pag. 51. Ora però il pericolo non si limita ad un errore di parole (altrimenti la malattia sarebbe facilmente curabile), ma ha a che fare ancora una volta con perniciose sottigliezze. Lo vedi? Dice infatti Eunomio che delle tre sostanze “ciascuna è semplice in relazione alla sua propria dignità”, affinché, insieme con le definizioni da lui date all’inizio a proposito della prima e della seconda e della terza sostanza, egli possa sconvolgere anche la dottrina della semplicità di Dio. Come infatti egli definì “suprema” e “unica in senso proprio” la sostanza del Padre senza ammettere niente di tutto ciò per il Figlio e per lo Spirito, vale a dire né il concetto di “elevato” né quello di “in senso proprio al massimo grado”, allo stesso modo, avendo definito “semplici” le sostanze, crede che anche la nozione di semplicità debba essere attribuita secondo la misura della dignità osservata per ciascuno di esse. Cioè, in definitiva, ciascuno di questi tre elementi è semplice per se stesso, quindi è una sostanza. Quindi, sono sì tre ipostasi, ma tre sostanze. Se sono tre sostanze, qual è il problema? Che Dio, essendo trinità, non è più l’assoluto, non è più l’identico a sé. E questo non lo potevano negare, perché già nella Bibbia, poi tutti gli apostoli hanno insistito continuamente a dire, a parlare di Padre e Figlio e Spirito, quindi la trinità non si leva. Bisogna far sì che diventi tre, ma una sostanza. Solo così è possibile potere pensare a un Dio come identico a sé, perché è uno, anche se trino, ma è uno e, quindi, è identico a sé. Se sono tre sostanze allora non è più possibile pensare all’identità a sé. Cioè, questi tre elementi, non costituendo più un’identità, non sono più Dio, ma sono qualche altra cosa, della quale Gregorio di Nissa non vuole neanche sentire parlare. A pag. 79. Dal momento che così suppongono... Qui ce l’ha sempre con Eunomio. ...che stiano le cose tutti coloro che hanno tolto la semplicità del più schietto annuncio della fede, che motivo c’è di tentare di distruggere per mezzo della creazione il contatto del Figlio con il Padre, sì che sarebbe necessario credere o che egli sia coeterno ad essa o che anche il Figlio sia più recente? Ché la generazione dell’Unigenito non è all’interno dei secoli, e la creazione non è prima dei secoli; pertanto in nessun modo è lecito dividere in parti la natura inestesa e inserire un’idea di dimensione di tempo all’interno della causa creatrice dell’universo, dicendo che vi fu un tempo in cui non era colui che detta l’esistenza a tutte le cose. Cioè, inserendo uno spazio, un intervallo di tempo. Se si inserisce lo spazio, cioè la distanza, crolla tutto. A pag. 96. Quando infatti il termine di “privo di principio” viene inteso nel senso di non avere la propria sussistenza da una causa, allora noi confessiamo che questa è prerogativa solamente del Padre, il quale esiste senza generazione; quando invece il nostro esame si sofferma sui restanti significati del termine “principio”, poiché si può pensare anche ad un principio della creazione e del tempo e di un certo ordine, allora in questi ambiti noi attribuiamo anche all’Unigenito la prerogativa di essere superiore al principio, sì che noi crediamo per fede che colui per mezzo del quale sono state fatte tutte le cose sia al di sopra di ogni principio di creazione e di nozione di tempo e di successione di ordine. In questo modo, colui che non è privo di principio nell’essenza dell’ipostasi, in tutti gli altri ambiti possiede invece come giusto riconoscimento la prerogativa di essere privo di principio, e se il Padre è privo di principio e non generato, il Figlio è privo di principio, sì, secondo il modo che si è detto, ma non è anche non generato. Occorre stabilire una linea di successione, in modo che ci sia il Padre, che lui, sì, è ingenerato, ma il Figlio non è ingenerato, è generato. Ma è generato attraverso quella generazione che non si sa bene come funzioni.

Intervento: Non c’è distinzione di sostanza.

Esatto, per cui mantiene sempre la stessa sostanza: tre ipostasi, una sostanza. Questo è il fondamento di tutto il cristianesimo. A pag. 111. Non è certo il parlare in un modo o nell’altro che determina il nostro pensiero, ma il pensiero nascosto nel nostro cuore fornisce la causa delle parole, comunque esse siano: “ché la bocca parla in seguito all’abbondanza del cuore”, dice il Signore. E noi facciamo della parola l’interprete dei nostri pensieri, non viceversa, e non componiamo il pensiero partendo da ciò che diciamo. Perché, come abbiamo visto, le parole non sono assolutamente affidabili. E se sono presenti insieme l’una e l’altra, cioè pensare e parlare adeguatamente, allora l’uomo è perfetto nell’una e nell’altra comportamento, mentre se manca ua delle due, piccolo è il danno per colui che è inesperto a parlare, qualora la conoscenza che è riposta nel suo animo sia ben provvista dei contenuti migliori. “Questo popolo”, dice il Signore, “mi onora con le labbra, ma il loro cuore è lontano da me”: che cosa vuol dire con questo? Che è più prezioso agli occhi di Dio, che è giudice, e ascolta i gemiti ineffabili, il rapporto dell’anima con la verità, che non l’ornato esteriore del discorso riposto nelle parole. Delle parole infatti ci si può servire anche per lo scopo contrario, perché la lingua obbedisce facilmente a ciò che si vuole, secondo la volontà di colui che parla; invece, la disposizione dell’anima, come essa sia, è vista da colui che guarda nelle cose nascoste. L’anima non mente. Le parole, si, le parole mentono, possono ingannare, ma l’anima no, perché l’anima ce l’ha data Dio, e Dio non mente.