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19 ottobre 2022

 

La filosofia dell’espressione di G. Colli

 

Proseguiamo e concludiamo questo testo di G. Colli. A pag. 118. Se si approfondisce tuttavia il significato dell’“è” definitorio, si scopre una sua convergenza con la categoria dell’essere. Quest’ultima, alla sua origine, esprime (e questo è il suo aspetto di verità) un richiamo istantaneo all’immediatezza. Quando si approfondisce la questione dell’“è”, dell’essere che definisce qualcosa, dice Colli, si tratta, e questo è il suo aspetto di verità, di un richiamo istantaneo all’immediatezza. Nella definizione invero si tende ad accentuare questo richiamo e a dargli una maggiore vivezza, presumendo di poter designare “quale” sia l’immediatezza richiamata. /…/ Questo riferimento all’immediatezza, caratteristico dell’identità – la quale riguarda la sostanza, come dice Aristotele – è ciò che fa collocare l’“è” definitorio tra le categorie della qualità. L’immediato, di cui parla Colli, è ciò che non è rappresentabile, è l’irrappresentabile. Lui aggiunge anche che è fuori del linguaggio, anzi, sarebbe la condizione del linguaggio. Ora, se è condizione del linguaggio, come accade che a un certo punto sorga il linguaggio? Da dove arriva? Perché, secondo lui, questa immediatezza, che è irrappresentabile, sarebbe la causa del linguaggio in quanto il linguaggio accadrebbe per dare un significato all’immediatezza, quindi, per determinarla. Ma la questione è: da dove arriva il linguaggio? Poi, naturalmente, ci sono tutti i problemi, cui abbiamo accennato la volta scorsa, per quanto riguarda l’immediatezza, cioè l’irrelato. In quanto irrelato non ha nessun significato. A pag. 121. Nella definizione accade questo: si pretende di formulare l’espressione astratta (definiens) di un’immediatezza (definiendum);… L’immediato per Colli sarebbe, in effetti, ciò che accade, ma non tiene conto che perché qualcosa accada occorre che ci sia qualcuno per cui accada, sennò dire che accade o che non accade significa niente. Quindi, se accade per qualcuno vuol dire che è all’interno di un segno, di un rinvio, di un rimando, e, quindi, questa immediatezza è mediata da questo rinvio, da qualche cosa e, quindi, non può essere immediato. E poi insiste a dire che l’espressione… L’espressione sarebbe il primo modo di porsi di fronte all’accadere di qualcosa, cioè dell’immediato. Ma l’espressione è per sua natura insufficiente e manchevole nella sua efficacia manifestante: quindi neppure l’espressione definitoria potrà essere identica a ciò che vuole esprimere. La definizione sarà sempre mancante rispetto all’immediatezza. Però, se l’immediatezza è irrappresentabile, come lo so? Anche questa è una domanda legittima: come faccio a sapere che è mancante rispetto all’immediatezza se questa è irrappresentabile? Non ho nessun parametro. A pag. 122. …è impossibile che il definiendum designi una immediatezza (già per il fatto che l’immediatezza non può essere designata né in genere rappresentata), mentre è proprio questo che vorrebbe giustificare l’“è” definitorio (identità), sia la completezza della definizione. Vedete che il linguaggio, che qui sarebbe il definiens, dovrebbe giustificare in qualche modo questa immediatezza, immediatezza che non è altro che l’accadere, che secondo Colli è fuori del linguaggio, ma abbiamo visto che è piuttosto improbabile che sia così. A pag. 128. Attraverso un oggetto contingente il riferimento all’immediatezza è difatti malcerto,… Oggetto contingente. Colli ha una particolare affezione nei confronti della logica, sia formale, sia modale. La logica modale è quella logica che determina il modo in cui qualche cosa è, e stabilisce tre figure di questo modo: necessario, contingente e impossibile. Fu Aristotele a descrivere da qualche parte negli Analitici queste tre figure: il necessario è ciò che non cessa di accadere; il contingente, ciò che cessa di non accadere; l’impossibile, ciò che non cessa di non accadere. Attraverso un oggetto contingente il riferimento all’immediatezza è difatti malcerto, poiché interamente a esso non è rintracciabile un’unione che richiami un’unione del contatto, e il riferimento è affidato piuttosto una memoria dell’immediato che si irradia verso oscure profondità. Nella direzione dell’astrattezza, inoltre, il contingente va perdendo il suo carattere giocondo, attraverso le sfumature del capriccioso, del casuale, dell’instabile, per ripiegare spesso verso l’elemento fondamentale dell’insufficienza che inerisce a ogni espressione, cosicché la manchevolezza del non essere rimane congiunta alla testimonianza dell’essere nel cuore dell’oggetto contingente. Quindi, questa manchevolezza è sempre presente: ogni espressone è sempre mancante, mancante perché non raggiunge l’immediato e non lo raggiunge perché non è rappresentabile. La prima domanda a questo punto è: come fa a sapere di non averlo raggiunto? A pag. 149. Qui dice qualcosa che è emblematica sia del suo pensiero che del modo in cui procede. La legge generale della deduzione si formula: un oggetto, se è, per necessità non è; se non è, per necessità è. Segue la dimostrazione. Un oggetto esprime o il necessario o il contingente (applicazione del principio modale). Se esprime il necessario (risoluzione del principio modale), ossia se si risolve come oggetto necessario, o è o non è (prima parte della legge qualitativa); se esprime il contingente (risoluzione del principio modale), ossia se si risolve come oggetto contingente, è e non è (seconda parte della legge qualitativa). Il contingente è questo: che è ma anche non è. In primo luogo, si risolva come necessario. Poiché un oggetto, tanto se è quanto se non è, esprime o il necessario o il contingente (corollario dell’applicazione del principio modale), allora l’oggetto risolto come necessario, se è, viene escluso come contingente (risoluzione-esclusione del principio modale). In tal caso il medesimo oggetto, se non è, sarà del pari escluso come contingente (risoluzione-esclusione della seconda parte della legge qualitativa). Ma tale oggetto che non è, escluso come contingente, per necessità risulta necessario (risoluzione-esclusione del principio modale). Quindi, ciò che non è risulta necessario. Dunque, noi abbiamo un primo oggetto, che poniamo come necessario (l’oggetto che è); poi, dice: consideriamo lo stesso oggetto anziché che è come non è. Al pari del primo sarà o necessario o contingente: se è necessario escludo il contingente, ma se escludo il contingente, cosa resta? Il necessario. Quindi, questo oggetto che è, dice lui, necessariamente non è, perché se è abbiamo detto che è necessario… ma se questo stesso oggetto non è, allora non essendo esclude il contingente; ma se esclude il contingente risulta necessario, ma abbiamo detto che è necessario l’oggetto che non è; quindi, questo oggetto che è diventa necessariamente ciò che non è. D’altra parte, l’oggetto risolto come necessario, se non è, viene escluso come contingente (risoluzione-esclusione del principio modale). In tal caso il medesimo oggetto, se è, sarà del pari escluso come contingente (risoluzione-esclusione della seconda parte della legge qualitativa). Ma tale oggetto che è, escluso come contingente, per necessità risulta necessario (risoluzione-esclusione del principio modale). È la stessa cosa di prima. Prendiamo come necessario l’oggetto che non è. In tal caso, dice, il medesimo oggetto, se invece è, sarà escluso come contingente (lo abbiamo posto come necessario), ma se è escluso come contingente, per necessità, risulta necessario; quindi, questo oggetto che non è necessariamente è. Poiché un oggetto necessario o è o non è, e non vi sono altri casi da considerare,… Lui considera solo il contingente e il necessario, l’impossibile non lo prende in considerazione. Un oggetto necessario, se è, per necessità non è; se non è, per necessità è. In secondo luogo, si risolva come contingente. Un oggetto contingente è o non è: la formulazione affermativa e quella negativa solo in quanto poste assieme esprimono un oggetto contingente. Se si pone isolatamente una delle due, da ciò segue per necessità la formulazione dell’altra. Dunque un oggetto contingente, se è, per necessità non è; se non è, per necessità è. C’è un problema, anzi, due. Primo problema: se l’oggetto è necessario allora esclude il contingente, ma se questo stesso oggetto non è, al pari se necessario esclude il contingente, ma escludendo il contingente ci resta il necessario, quindi, è necessario che non sia. Nella seconda parte fa l’inverso, parte dal fatto che l’oggetto non è, per mostrare che alla fine è necessario che sia; si ritorna, quindi, al punto di partenza. Prendiamo la conclusione di questa cosa, e cioè che l’oggetto necessariamente è, e lo poniamo al posto di quell’altra, dove pone necessario l’oggetto che è. Quindi, si trova preso in una sorta di circolo vizioso, vizioso perché non ha vie d’uscita, dove tuttavia c’è una separazione fra ciò che è e ciò che non è. Infatti, lui dice, l’oggetto, se è, per necessità non è; se non è, per necessità è. Va bene, però tiene separati questi due momenti, l’oggetto che è e l’oggetto che non è. Qui, invece, facendo questo lavoro, e cioè utilizzando la conclusione dell’altra formula della questione e riproponendolo come il primo, ci troviamo di fronte a una situazione tale per cui non c’è più la separazione tra ciò che è e ciò che non è, ma ciò che è e ciò che non è sono lo stesso. Cosa che lui non dice, lui distingue da una parte l’oggetto che è e che necessariamente non è, e poi l’oggetto che non è, che per necessità è; però, tiene separati questi due momenti. Lui non dice mai che questo oggetto che è necessariamente anche non è. Infatti, lo dice qui Un oggetto contingente è o non è: la formulazione affermativa e quella negativa solo in quanto poste assieme esprimono un oggetto contingente. Se si pone isolatamente una delle due, da ciò segue per necessità la formulazione dell’altra. Se io pongo isolatamente una delle due, non è più il contingente. Lo ha detto prima: il contingente non è altro che la congiunzione di “è” e di “non è”. Se io li separo non è più il contingente, è un’altra cosa. Faccio un esempio banale: poniamo la relazione “3 + 2”; è una relazione, ma se io li separo e considero il 3 e il 2 separatamente, considero dei numeri e non più una relazione. Quindi, come dice lui, se si pone isolatamente una delle due, non è più il contingente, è un’altra cosa e, quindi, cade tutta la sua argomentazione. Anche nel primo caso continua a considerare isolatamente le cose. A noi non interessa minimamente né confutare né demolire Colli, ci interessa invece intendere come e quanto sia facile cadere nel discorso religioso. Il discorso religioso è quello che tiene separati i momenti, e lui fa esattamente questo, lo dice esplicitamente senza neanche accorgersene, dice esplicitamente che separa le due cose, dopo avere detto invece che la contingenza è data proprio dall’unione di questo essere e non essere; ma non li posso separare, se li separo non è più il contingente, e lui non se ne accorge tanto è preso dalla necessità di mostrare… che cosa in fondo? Che tutto è illusione, che, quindi, l’unica realtà è l’immediato. Questa è la cosa che a lui interessa: ogni cosa è illusoria, ogni cosa è una finzione, è irreale e l’unica realtà è l’immediato, che abbiamo visto non può esistere. Si tratta qui, in effetti, di una teoria. Ogni teoria, qualunque teoria, è una propaganda fidei, una diffusione della fede, cioè, mostra come stanno le cose e che riceve questa fede, questa teoria, non può che accoglierla: dice come stanno le cose o una certa cosa. In questo senso è una propaganda fidei, necessariamente, perché non può né deve mettere in discussione quegli asserti da cui muove - quelli sono quelli – e non possono essere discussi, sennò crolla tutta la teoria. Per questo a noi interessa, al punto in cui siamo, non più la teoria – la teoria è un dire come stanno le cose – ma l’approccio teoretico, e cioè a quali condizioni qualche cosa è affermabile. Cosa che è totalmente assente in Colli: non si chiede mai a quali condizioni può affermare l’esistenza dell’immediato, da dove arriva, chi l’ha messo lì, perché. Questo non c’è, c’è l’immediato, l’accadere, posto, direi, magicamente. C’è molta magia in tutto ciò, come anche in qualunque teoria c’è molta teologia e, in fondo, molta magia, perché presuppone che gli elementi da cui si muove siano magicamente quello che sono, senza mai interrogarli, naturalmente, sennò è un problema. Come sappiamo, non vanno interrogati; tanto Platone quanto Aristotele lo avevano detto chiaramente che non ci si deve interrogare oltre i principi primi, su ciò che è posto come fondamento, su questo non ci si deve interrogare, perché altrimenti si scompiglia tutto e ci si accorge che c’è solo la chiacchiera, le analogie. A pag. 160 c’è un’affermazione emblematica. …raddrizzando la struttura secondo la genesi, il logos è comunicabile poiché comune era il punto di partenza. Il punto di partenza, naturalmente, è l’immediato. Siccome quello è il punto di partenza ed è sempre lo stesso, ecco perché il logos è comunicabile, perché continua a veicolare questo punto di partenza comune; però, non si sa come questo punto di partenza produca il logos: cosa lo fa sorgere questo logos, questo linguaggio? Come dicevamo prima, da dove arriva? Non si accorge, non gli viene in mente che deve già deve essere lì, anche per produrre l’immediato, se non altro come fantasia. A pag. 172. La ragione appartiene naturalmente all’uomo, è chiaro, si presenta come una sua manifestazione, o meglio è manifestazione di qualcosa attraverso lui. Ma l’averla posta al vertice dell’interesse, averne gonfiato e vantato smisuratamente le capacità, stravolto la prospettiva ottica, aver creato l’illusione di poter aprire con il suo aiuto scrigni preziosi e rivelare misteri inebrianti, questo è un fatto incidentale, episodico, aberrante. Eppure non ci si è ancora scrollati di dosso questo avvenimento. In altri centri della cultura umana la ragione rimase in disparte, o entrò in un gioco equilibrato con i restanti strumenti espressivi. In Grecia infuriò divampante, fu messa al centro, in alto, creò il mito dell’eccellenza più eccitante dell’uomo, che assunse il titolo di filosofia, pieno di risonanze. Per secoli questa rimase sul trono, poi passò lo scettro alla scienza, che rivelò e sfruttò i poteri della ragione nella sfera dell’utile, dove il logos diventa spurio; e sotto questo segno riuscirono le più difficili conquiste, caddero persino, in direzione del sole nascete, le roccaforti di ciò che è interiore. È tutto preso di mistero, di arcano. Certo, la Grecia ha dato una priorità alla ragione, al logos, quando si è accorta che parliamo, e allora ha incominciato a porsi delle domande. Eraclito, uno dei primi e dei più straordinari dei pensatori: lui ha incominciato a parlare del logos e si è accorto che è il logos che produce le cose, che le determina, che è la condizione perché le cose siano. Anche lo stesso Parmenide: essere e pensare sono lo stesso τό γάρ ατό νοεν τε χαί εναι. Mentre per Colli tutte queste cose hanno un che di aberrante. Certo che ce l’hanno, perché la ragione pone delle obiezioni a ciò che lui pone come l’immediato e questo gli secca moltissimo. La ragione chiede conto di questo immediato e, chiedendone conto, lo ritrova come necessariamente preso in una relazione, se è qualcosa, perché anche l’immediato è pur qualcosa; se è qualcosa vuole dire che è un segno, direbbe Peirce. Non c’è il primo segno, questo lo diceva già Peirce. L’immediato, l’accadere, sarebbe ciò che non ha nulla prima di lui, ma perché qualcosa accada, perché questo accadere sia qualcosa, occorre il linguaggio, occorre un segno: non c’è il primo accadere, non c’è il primo segno, quello che avvia tutta la catena infinita, non può esistere. Quindi, questo immediato, se è qualcosa, è necessariamente un segno, non è il primo qualcosa, né può essere il primo qualcosa. Sia che accada all’origine dei tempi, sia che accada ciascuna volta, se qualcosa accade, è perché questo qualcosa è preso in una concatenazione linguistica, sennò non accade niente; se è fuori del linguaggio, come immagina Colli, non accade niente, nemmeno l’immediato. A pag. 177. Anche se la nascita della ragione è improvvisa, pure, quando si alza il velo del silenzio che nascondeva l’uomo misterico, il logos compare dapprima disarticolato. Queste sono affermazioni sue, che non si capisce bene da dove arrivino. È un sapiente, Eraclito di Efeso, che si proclama scopritore e possessore di una legge divina che incatena gli oggetti mutevoli dell’apparenza, e lui stesso per primo dà il nome di logos a questa legge. Esso è la trama nascosta del dio che regge e sferza tutte le cose, ma coincide al tempo stesso con il “discorso” di Eraclito, con le sue parole. Gli strumenti della ragione, gli universali, sono già tutti in possesso di Eraclito; ma la loro ferrea concatenazione secondo la necessità non viene da lui enunciata. Per ottenerla occorre un’elaborazione umana collettiva, mentre Eraclito ha scarnito e affinato da sé i suoi universali: la legge dei loro vincoli non lo interessa, non fa parte del suo logos. Il dimostrare non ne fa parte, e il suo “discorso” è fatto di lampeggiamenti, che non hanno bisogno di essere posti in relazione. No, sono già in relazione. Eraclito è proprio colui che pone la relazione. Qui c’è un’altra annotazione che occorre fare. Dice Il dimostrare non ne fa parte: certo, perché non era così fideisticamente devoto alla dimostrazione, come invece mostra di essere Colli. Non aveva, né lui né altri presocratici, tutta questa fede nel dimostrare. È stato poi con Aristotele che la dimostrazione è assurta a una certa dignità, ma è assurta a una certa dignità perché si è cancellato il pensiero di Eraclito. Il pensiero di Eraclito è quello che pone delle obiezioni allo stabilire che una certa cosa sia quella che è per virtù propria. Lui diceva ἒν πάντα εἰναι, ma, come ci fece notare giustamente Heidegger, che è fine osservatore, questo πάντα non dice che “uno è il tutto” ma che “uno è tutte le cose”, “tutte le cose sono uno”, come dire che il finito è infinito, e viceversa. È, quindi, chiaro che il pensiero di Eraclito è inadatto a costruire una logica aristotelica, tanto formale quanto modale, perché per Eraclito ciascun elemento è quello che è ma anche quello che non è, anche il suo contrario. Bisognerà aspettare fino ad Hegel per riprendere la questione. A pag. 181. È di fronte all’immediato che la verità, come testimonianza del contatto,… Il contatto sarebbe quell’istante in cui soggetto e oggetto scompaiono. …impone di dire che “è”. Questo “è” si accompagna al pensiero, è il pensiero stesso (emergente dall’immediatezza) in quanto manifestato, ed è anche la categoria suprema dell’“essere”. Capite bene che qui è tutto un problema. È di fronte all’immediato che la verità, che in fondo la testimonia, impone il dire che è, cioè, l’immediato che impone di dire di qualche cosa che è. Se fa questo vuol dire che l’immediato è nel linguaggio, fa parte del dire; ma se fa parte del dire non è affatto immediato, è anche lui una costruzione. A pag. 185. La parola costitutiva del logos dev’essere vivente, pronunciata, modulata, scagliata contro le parole di altri uomini. Così sorge la dialettica, già si è detto. Lo scalpello dell’agonismo è lo strumento della politura razionale. La ricerca del logos si attua con una lotta per la supremazia,… Qui non è già più il logos, è la retorica, è la dialettica, il logos non è solo questo. …con una gara il cui premio è l’eccellenza nel pensare e nel dire, riconosciuto dall’avversario soggiogato. Un gioco e una violenza assieme, in cui la violenza non si esercita sul corpo, ma sul pensiero. Solo in Grecia si è riusciti a deviare gli istinti aggressivi dalla sfera dell’azione, per indirizzarli al mondo delle idee astratte, dove il loro impulso, attinto all’individuazione, viene paradossalmente utilizzato per emergerne, cosicché la vittoria non tocca all’uomo, ma al logos. Qui le punte estreme della vitalità umana furono rivolte a una conquista interiore, le spoglie più preziose di uno scontro tra individui di eccezione, cosicché la posteriore distinzione di vita attiva e vita contemplativa appare al confronto una coppia di ideali attenuati e frantumati. A pag. 186. Furono così bruciate, sino agli universali più estesi, le tappe dell’induzione e della deduzione, e l’aspro gioco del logos venne scoperto come un passatempo inebriante, attraverso un inestricabile groviglio di nessi verbali, dove tutto si collega in una ragnatela senza fine e ogni passo apre nuove prospettive;… Questo in parte è accaduto con gli ultimi sofisti. Tutti i concetti erano lucidi e freschi, potevano quindi essere modificati, abbandonati, sostituiti da altri ancora più giovani, cosicché la scherma dialettica si addentrò più tardi nelle sottili distinzioni tra i vari significati delle parole e assieme si sviluppò sempre più il gusto per la definizione. Questa lotta tuttavia non è funesta, poiché vi si insinua il gioco, il distacco dalla violenza e la contemplazione; e difatti il logos autentico, che da tutto ciò risulta, è anche un’avventura, un circolare e un vagabondare attraverso la varietà. Il logos autentico, per lui, è quello che si produce direttamente dall’immediato. Quel primo acquietamento dell’universale nella parola viene turbata dal vorticoso scontro dialettico; la parola entra allora in un caleidoscopio dove le prospettive sono moltiplicate, e diventa inquieta nel trascorrere degli interlocutori e dei significati. In assenza di un discorso teoretico si ricorre all’enfasi. A pag. 190. Il labirinto della ragione è solo apparentemente un edificio. Vedete come continua a dare contro alla ragione. Per lui la ragione produce solo illusorietà. Potrebbe anche essere illusorietà, ma solo se posta in un altro modo, nel senso che la ragione non può dire la cosa, mentre per lui la ragione sarebbe l’illusione rispetto all’immediato, all’accadere, cioè, la ragione non può rendere conto dell’accadere. Se volessimo a tutti i costi dargli una dignità, potremmo accostarlo a Zenone: ciò che accade, ciò che vedo non è matematizzabile. Ma in Zenone la questione è posta in un altro modo, perché ciò che vedo, ciò che accade ha la necessità di non essere matematizzabile; è perché qualcosa non è matematizzabile che è possibile la matematica, è perché qualche cosa non può dirsi che è possibile dire. In Zenone i due momenti sono sempre simultanei, mentre in Colli no, c’è una progressione dall’immediato, si procede attraverso varie espressioni fino alla ragione, ecc., c’è una progressione che è assolutamente assente in Zenone. Il labirinto della ragione è solo apparentemente un edificio. Quel periodo primitivo della dialettica, i cui artefici sono caduti nell’oblio, ne ha costruito i profondi sentieri, annodando universali a parole; poi d’improvviso giunge qualcuno che sui lati di quei cunicoli scopre aperture, passaggi sempre più numerosi, sin tanto che le pareti si svelano inconsistenti. A compiere questo è il demone deduttivo, che collega le astrazioni in direzione discendente, pur abbracciandone sinotticamente tutti i presupposti. Il coronamento della dialettica è così la dimostrazione, ma l’impeto giovanile, con cui quest’ultima fu inventata, rabbiosamente applicata ed esaurita – come per una sete divorante – in tutte le sue confluenze, la svuotò subito, rivelandola distruttiva: di conseguenza, quando l’arte dialettica appare per la prima volta in piena luce, già la sua parabola è al culmine. La dimostrazione. Certo, la dialettica è dimostrativa e abbiamo visto che l’avvio della dialettica fu proprio con Zenone. La questione importante è che in Zenone i due momenti, quello della percezione e quello del ragionamento, sono simultanei, cioè, dipendono l’uno dall’altro, non sono separabili, non posso separare ciò che vedo da ciò che calcolo, sono due momenti dello stesso. Ed è questo che insiste sempre nei presocratici, in Eraclito, in Parmenide, in Zenone, e cioè la simultaneità di ciò che è e di ciò che non è, di finito e di infinito, di sensibile e di trascendente. Ed è questa la portata straordinaria del pensiero: riuscire a cogliere questa simultaneità, che Colli non coglie assolutamente, per lui è un progresso che si sviluppa man mano. A pag. 194. Il suddetto sistema argomentativo costituisce un vertice di hybris. Non è sicuro che si possa attribuire a Zenone nella sua totalità, sebbene non manchino buone basi per crederlo. Se gli si concede la paternità, va rintuzzata la sua tracotanza, poiché una rappresentazione in generale in quanto oggetto e nesso, non è dimostrabile come possibile e insieme impossibile: lo vieta il supremo principio modale. In tal caso l’annientamento non è conseguito. /…/ Aristotele simulerà una confutazione, poi, quasi pentendosi, ammetterà che l’argomento di Zenone si può superare solo “per accidente”, ossia con un richiamo a ciò che “accade”. Ma ciò che accade è esattamente ciò che pone lui come immediato. A pag. 203. Quel volgarizzarsi del linguaggio dialettico ha un nome: la retorica. Qui la piattezza della scrittura non si è ancora imposta: la parola vivente si inebria di sé, vuol farsi tornita, scultorea. Non è un caso che l’erede della sapienza dialettica, Gorgia, sia stato altresì il legislatore della retorica. E il logos si trasforma, cambia pelle. La scaltrezza della ragione, affinata nelle dispute avventurose dell’astrazione, viene ora impiegata dal discorso retorico come strumento scintillante della volontà di dominio. Sì, certo, volontà di dominio, ovviamente. Dopo avere tradotto tutto Nietzsche, gli è rimasto qualcosa della volontà di potenza. A pag. 209. La “filosofia” nasce così da una mancanza di talento oppure da un talento dell’estroversione, da un istinto di dominio e da ambizioni politiche frustrate, dall’invenzione di un genere letterario, di un qualcosa mediato, non vivente,… Il mediato sarebbe il non vivente, piché l’unica cosa che lui considera come vivente è l’accadere, l’immediato. …dalle qualità del commediante, dal fiutare il capriccio di un pubblico fine ma snervato, cui piace essere tenuto per mano sui sentieri tortuosi della ragione e che sa appagarsi dei bei discorsi scritti. A pag. 211. Non vi sono dogmi da cercare in Platone: ciò suona astruso alle orecchie moderne. E l’idea non è altro che un simbolo divulgativo, una presentazione retorica del “ciò che è” parmenideo, una sua frammentazione seducente. Già la trascendenza dell’idea è un’accentuazione espositiva, dettata dal riguardo – ignoto a Parmenide – per un pubblico indifferenziato. Un abisso – il chorismòs (separazione) – separa le idee dal mondo che sta attorno a noi; eppure “idea” significa forma, apparenza, sembianza, ossia espressione, e difatti l’idea è una rappresentazione, come lo è l’Aletheia di Parmenide. Certo una rappresentazione esorbitante, un fantasma artistico che unifica una totalità gigantesca di serie espressive, stringendole e appendendole con un balzo retrospettivo all’immediatezza onde sorgono, così come la statua di un uomo può racchiudere e inchiodare all’indietro tutte le serie di rappresentazioni concrete e astratte che lo costituiscono. Ma vista sostanzialmente, l’idea è espressione di qualcosa di nascosto; allora il chorismòs – e qui sta il paradossale – dovrebbe essere proclamato piuttosto tra l’idea e quell’immediatezza, quella profondità che evoca l’allucinazione misterica. Tutto ciò è invece lasciato in ombra. Quest’allucinazione misterica. È un po’ come con gli sciamani, che si suppone che nei loro deliri riescano a mettersi in contato diretto con la natura. Pag. 216. Aristotele è prosaico, come già è denunziato dallo scarto, dalla disarmonia fra i suoi contenuti e il suo spirito nel trattarli. Pure il venir meno di quello sfondo (immediatezza) è ancora avvertibile in lui come un vuoto, che egli tenta di riempire con espedienti. Da un lato cerca di identificare l’immediatezza con la sensazione, o l’impressione sensoriale, il che è almeno giusto orientativamente;… Lui è d’accordo con il fatto che l’immediatezza richiami in qualche modo l’impressione sensoriale, la sensazione, come se la sensazione fosse fuori dal linguaggio. …d’altro lato fa intervenire una fiacca divinità, del tutto estranea a quanto la circonda, oppure introduce uno smorto nus, che di parmenideo ha soltanto l’istantaneità, e per contro indica una presunta conoscenza immediata del “principi propri” delle scienze. Quindi la bestemmia: l’immediatezza appartiene all’astrazione. Ma questi principi primi non esistono! Può darsi, certo, ma neanche l’immediatezza.