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19 settembre 2018

 

La struttura originaria di E. Severino

 

A pag. 132, capitolo 22, Significato e insignificanza. Se si prescinde dalla struttura originaria (che sappiamo essere il principio di non contraddizione), ci si pone nell’insignificanza. Cioè, o una cosa è quella che, oppure, se non è quella che è, non significa niente. Pertanto, è solo in quanto si è già nell’apertura originaria del significato, che la stessa domanda sul significato acquista un significato… Se mi faccio una domanda sul significato, in questo domandare sul significato ci sono già dei significati. … ma nell’atto in cui lo acquista, essa è per ciò stesso tolta, come domanda, dalla risposta originaria. Nel momento stesso in cui l’atto acquista significato succede che è già nella struttura originaria, è già nel principio di non contraddizione, per cui quel significato è quel significato. Cioè il domandare è autenticato (= reso significante) … Qui il termine significante non è da intendere nell’accezione di de Saussure, come parte del segno, ma semplicemente come “significare”. …nell’atto in cui gli si risponde. Il “rispondere” è lo steso conferimento di significato al domandare. Se uno risponde a qualche cosa è perché c’è un significato, che in qualche modo coglie. Sì che il rispondere originario non risponde a nulla, o non presuppone nulla, che esso stesso non abbia posto. Il rispondere implica l’aver già accolto il significato, cioè essere nel significato, e quindi l’avere già accolto che le cose sono quelle che sono, che c’è un significato.

Intervento: Lei ha detto che in questo caso il termine “significante” non è da intendere nell’accezione di de Saussure.

Perché il significante per de Saussure è un aspetto del segno (significante/significato). Questo significante che è dato dalla differenza con tutti gli altri significanti, è per de Saussure l’immagine acustica, cioè l’immagine del suono, di questo suono che io riconosco. Qui, invece, Severino lo utilizza in accezione più ampia, come il participio presente del verbo significare, cioè significante come ciò che significa qualcosa, qualunque cosa significhi. D’altra parte, l’“insignificanza” non è altro che o l’“infondatezza” o la “contraddittorietà” di un contenuto proposizionale. Una cosa è insignificante o quando è infondata, non ha fondamento, o quando è autocontraddittoria. In questi casi non significa. In altri termini: non vi è nulla di insignificante simpliciter; tutto ciò che è, è a suo modo significante. Insignificante è soltanto il nulla, in quanto assoluta negatività. (Ma poi – cfr. Cap. IV -, questa assoluta insignificanza è essa stessa positivamente significante. Perché, parlando del nulla, comunque ne parlo e, quindi, questo nulla è qualche cosa. pertanto, allorché si afferma che il significato si costituisce solo nella posizione dell’immediatezza del significato – o che prescindendo dalla struttura originaria, ci si pone nell’insignificanza –, si guarda al valore o al fondamento del significato; e si dice quindi che ogni sapere che prescinda dalla struttura originaria è o infondato o contraddittorio. Ogni sapere che non parte dall’idea che qualcosa è quella che è, cioè non può essere autocontraddittoria, perché se è quella che è non può non essere quella che è, ecco, qualunque discorso che non ponga questo a fondamento, dice Severino, non ha fondamento. (La contraddittorietà è poi una forma dell’infondatezza, contraddittorio essendo ciò che non può avere fondamento; a differenza di ciò che, semplicemente, o di fatto, non ha fondamento). Ciò che contraddittorio non può essere fondato. I neopositivisti distinguono di solito due tipi di proposizioni “insignificanti”: quelle costituite da parole che, pur avendo significato in un certo contesto semantico, non hanno significato nella connessione in cui si trovano nella proposizione considerata – a questo tipo di insignificanza apparterrebbero la maggior parte delle proposizioni metafisiche e filosofiche, e quelle che si possono ottenere, ad esempio, battendo a caso sui tasti della macchina da scrivere. Quanto al primo tipo di proposizioni, osserviamo che si risolvono in contraddizioni (quando lo sono), la definizione del predicato implicando la negazione della definizione del soggetto. Se dico “Cesare è un’equazione di secondo grado” costruisco una proposizione in questo senso autocontraddittoria, perché non posso attribuire a Cesare il fatto di essere un’equazione di secondo grado. Quanto al secondo tipo di proposizioni, pur non significando nulla nella misura in cui si intende che valgano come proposizioni, sono d’altra parte significanti come cose, come grafemi, cioè contenuto empirico. Vedo delle forme, che comunque mi significano qualcosa, non sono niente, sono qualcosa. Ma, anche qui, quel loro lato di insignificanza è propriamente una contraddizione. La contraddizione sta in ciò: che si intende che ciò che non è una proposizione – ma è segno, suono, ecc. – valga come una proposizione. (Ma se questa intenzione non c’è, non c’è nemmeno la contraddizione indicata, e quei segni appartengono al contenuto presente, così come vi appartengono questo foglio o questo colore). Non c’è propriamente, dice, una contraddizione in questo, perché è come se io ponessi un suono, un colore, un carattere, come una proposizione. Allora, sì, certo, come proposizione diventa contraddittoria ma non sono proposizioni, sono cose, ma in quanto cose hanno un significato. Bisogna tenere qui conto di quanto Severino diceva rispetto al significato. Per Severino il significato è il fatto che una certa cosa è quella che è. Ciò avvertito, è d’altronde del tutto lecito chiamare “insignificanza” la contraddizione. Se c’è una contraddizione allora non c’è significato o. meglio, c’è insignificanza. E insignificante può essere detta, come già si è avvertito, anche la proposizione senza fondamento. La coscienza prefilosofica (alla quale appartengono la coscienza religiosa, scientifica, estetica, ecc.) è certamente l’apertura di un piano semantico. Si parla appunto di senso comune. Ma per quel tanto che questo significare non è in grado di farsi valere – e cioè di mostrare il suo fondamento –. Tenete sempre conto che per Severino il fondamento è sempre e soltanto il principio di non contraddizione. …esso porta con sé la negazione di sé, o si lascia accanto il significato originario: instabilità di significato o, appunto insignificanza. Una qualunque cosa, se non toglie la sua negazione, è insignificante perché autocontraddittoria. All’insignificanza, intesa come infondatezza, si accompagna, in taluni aspetti del senso comune, l’insignificanza come contraddizione. Se la sofistica si assunse il compito, giusta l’osservazione hegeliana, di portare alla luce questo autoannullamento del senso comune, è d’altronde compito del sapere filosofico di mostrare in che misura il sapere prefilosofico sia un’infondatezza, e in che misura una contraddizione. Il sapere prefilosofico, potremmo dire, è la chiacchiera, nel senso inteso da Heidegger. Se il senso comune continua in qualche modo a permanere come un che di stabile, è per l’intervento di una componente pragmatica, onde si vuole, per conseguire determinati scopi, tener fermo un certo contenuto semantico, piuttosto che la sua negazione. Cioè, vale una cosa piuttosto che la sua negazione perché gli conviene. Mi serve per il superpotenziamento, direbbe Nietzsche. Il cristianesimo vuole salvare, innanzitutto, dalla insignificanza del “mondo”, e cioè dalla insignificanza dello stesso senso comune. Ma ci si salva con un atto di fede assoluta in un certo significato (il contenuto rivelato). Per questo lato si può dire che l’atteggiamento filosofico è eccezionale: la normalità essendo data dall’interno differenziarsi dell’atteggiamento fideistico (che è l’atteggiamento di chi, semplicemente, non vuole contraddirsi o essere contraddetto; o non vuole che il suo dire sia senza fondamento). Questo è l’atteggiamento fideistico: non voglio che mi si contraddica. Qui ci sta dicendo in pratica che non tenendo conto del fatto che il principio di non contraddizione è la struttura originaria, tutto ciò che segue da questo, che non toglie la negazione, è infondato, insignificante. Quindi, tutto il discorso prefilosofico, la chiacchiera, il discorso comune, è insignificante perché infondato, autocontraddittorio. Come dicevamo la volta scorsa, ogni affermazione che si fa è autocontraddittoria, salvo quella, secondo Severino, che afferma il principio di non contraddizione. Questa non può essere autocontraddittoria perché la sua negazione comporterebbe la sua autocontraddizione; negare il principio di non contraddizione comporta un’autonegazione. È importante porre questo fondamento. Quando nelle pagine precedenti parlava del concreto e dell’astratto stava dicendo la stessa cosa. Ricordate l’esempio della lampada sul tavolo. Qual è il concreto? Il concreto è la lampada sul tavolo; non è la lampada e poi il tavolo. Porre la lampada come disgiunta dal fatto di essere la lampada sul tavolo, questo è l’astratto, perché io astraggo la lampada dal concreto. Una volta che l’ho astratta è chiaro che questa lampada posso determinarla, posso dirne, posso misurarla, ecc., che è poi quello che fa la scienza. La scienza deve astrarre dal concreto ma, astraendo degli elementi dal concreto, che è la struttura originaria, perdo l‘unità della cosa con il mondo in cui è inserita. Potremmo dire così: tornando alla lampada sul tavolo: in concreto questa lampada è la lampada sul tavolo. Non è questa lampada, non è una lampada appesa al muro, è questa lampada sul tavolo. Questo è il concreto. Come dicevamo, l’astratto comporta l’astrarre da questo concreto la lampada in quanto tale, e solo allora posso misurarla, pesarla, determinarla, ecc.

Intervento: E se dicessi solo la lampada?

Se dicessi solo la lampada, questo in teoria sarebbe fuori da un contesto, non significherebbe nulla detta così, non c’è un’affermazione, non sta affermando niente; sta dicendo una cosa, che poi è sempre unita a un qualche cosa, per cui il suo dire “la lampada” è unito all’esempio che vuole fare in cui la lampada è sul tavolo. Quindi, è sempre e comunque inserita in un mondo, in un progetto, e il suo progetto, in quel caso, era di fare un esempio specifico. Quindi, dicevo, il concreto. Ecco, quando io mi chiedo “che cos’è questa lampada” è la lampada sul tavolo, non è una lampada ma è la lampada sul tavolo, cioè è questo che è: la lampada sul tavolo. Questo è il concreto: ciò che appare, e ciò che appare, appare nel modo in cui appare, cioè, come lampada sul tavolo, e non appare come “non lampada sul tavolo”. La questione interessante è che Severino svolge tutte queste questioni non parlando mai di immagini. Si potrebbe pensare all’immagine di una lampada sul tavolo; no, lui non parla mai di immagini, parla solo di proposizioni. La lampada sul tavolo appare in una proposizione, e solo dopo appare come immagine, ma questa immagine sarebbe nulla se non avesse alle spalle una proposizione che l’afferma in quanto lampada sul tavolo. Andiamo a pag. 134, Sapere prefilosofico e sapere filosofico. Dato che la precedenza di un qualsiasi tipo di sapere (e quindi di realtà) rispetto al sapere filosofico viene stabilita solo all’interno di questo sapere… Se c’è un sapere è un sapere filosofico, perché è un sapere che impegna la ragione, è un sapere che parte dalla struttura originaria, un sapere che muove dalla necessità che qualcosa sia quello che è, che non sia cioè autocontraddittorio. …ne viene allora che, qualora sia stabilita in altro modo, questo stabilire non ha maggiore fondamento di ciò che è stabilito come una precedenza, e rientra esso stesso nell’orizzonte del precedente. Onde esso stesso può esser posto solo nell’apertura del sapere filosofico. Il quale, ponendo la precedenza, pone l’insignificanza o l’infondatezza di ciò che precede, in quanto questo precede. Il discorso filosofico è quello che si interroga sulle cose, ma che si interroga a partire da ciò che è e non può non essere. L’apertura del discorso filosofico, per Severino, consiste in questa apertura che mostra il significato di un qualche cosa in quanto essere quello che è. Questo è il significato: l’essere ciò che è. Se io dico che il sapere prefilosofico precede, come dice la parola stessa, la filosofia, è soltanto perché c’è la filosofia che posso dirlo. Propriamente, ciò che così procede è posto, in quanto precede, come possibilità di fondatezza – e pertanto come possibilità di infondatezza. Se è possibile che sia fondato è anche possibile che sia infondato. Nel sapere prefilosofico l’infondatezza non è posta, … Il sapere prefilosofico, la chiacchiera, quando mai si preoccupa dell’eventualità che ciò che ciò afferma sia autocontraddittorio? …e cioè non è “per esso”… Non è per l’infondatezza. Questo discorso non si fa per mettere in risalto l’infondatezza, l’insostenibilità, ecc.; al contrario, viene fatto per essere sostenuto a spada tratta, anche se si tratta della peggiore idiozia. …questo sapere è infondato, ed è tale solo per il sapere filosofico. Solo il sapere filosofico può rilevarne l’infondatezza. Il sapere filosofico è quel sapere, come direbbe Heidegger, autentico, il sapere che interroga se stesso. (Il semplice sospetto dell’infondatezza, al quale qualche volta si abbandona la coscienza comune, non è meno infondato di ciò che questa sospetta). Anche questa idea è altrettanto infondata. Per il sapere comune sussiste invece quell’insieme di conoscenze “sicure”, che esso chiama “mondo”, o “vita”, ecc. Il prefilosofico è infondatezza, perché, come già si è osservato, esso è per essenza un lasciar valere la negazione di sé medesimo, sia come negazione degli asserti particolari in cui esso si realizza. Ogni asserto della chiacchiera è un asserto che è vero ma può anche essere falso; quindi, potremmo dire con Severino, che è quello che è ma che anche non è quello che è. Per questo motivo è infondato. O tutt’al più gli compete l’intenzione di non lasciarla valere. Perché il modo in cui il prefilosofico si sbarazza della negazione che lo investe è dato da un’insofferenza pratica per questa, realizzatesi in una gamma di atteggiamenti che vanno dalla semplice repulsione della negazione, dal semplice respingerla via nell’oblio (il “non volere sentir parlare”) all’eliminazione fisica di chi ne è il portatore. Né può essere diversamente, perché se il prefilosofico giustificasse il suo negare la negazione di sé medesimo, se cioè si sapesse veramente tener fermo di contro alla negazione che gli s’appunta, esso non sarebbe più il prefilosofico, ma la filosofia in atto, se per “filosofia” si intende l’apertura del fondamento di ogni possibile sapere. La filosofia non è che l’apertura del fondamento di ogni possibile sapere. Perché ci sia fondamento occorre che sia fondato, e cosa può fondare qualcosa se non l’unica certezza, e cioè che ciò che appare, appare nel modo in cui mi appare. Il prefilosofico non può, invece, che lasciarsi accanto la negazione di sé, senza sapere dire perché esso, piuttosto che la negazione, debba essere tenuto fermo. Quando si chiede a qualcuno che afferma una cosa “e perché non potrebbe essere il contrario?”, non sa bene cosa rispondere. Così come la stessa negazione di questo, in quanto non si costituisce come esercitata dal filosofare, è un modo del prefilosofico, e quindi si lascia accanto, essa pure, ciò che nega. Anche la stessa negazione, all’interno della chiacchiera, non ha nessun fondamento; affermare o negare qualcosa, è indifferente. Al di fuori del filosofare, l’affermazione non sa escludere la negazione, e questa non sa escludere quella. Se uno chiede “perché? Perché non potrebbe essere il contrario?”, beh, non sa perché, sa che è così ma non sa assolutamente perché sia così; vuole che sia così. Poiché d’altronde l’urgenza della vita o della prassi esige la decisione, ossia la scelta di uno dei due lati, la scelta ha alla sua base la semplice volizione di uno dei due, determinata dalla sua maggior “convenienza”… Che mi serve di più al mio superpotenziamento. …(e si assuma questo termine nel suo significato più ampio). Quindi, ogni scelta, ogni decisione, è mossa dalla convenienza, cioè è mossa dalla volontà di potenza. La volontà è il risolvimento pratico dell’aporia, o l’infondatezza è tolta praticamente, nel senso che la fondazione di uno dei due lati è data appunto dal fatto che uno dei due è scelto per la sua maggiore convenienza. Gli accordi realizzati dal prefilosofico sono quindi dovuti alla “buona volontà”; che è “buona” soltanto perché è volontà di andare d’accordo. Voler andare d’accordo significa decidere o scegliere in modo tale, che si realizzi ciò che è “conveniente” per tutti coloro che così scelgono. Cioè, per me e tutti quelli che la pensano come me. Certo che quando per qualcuno la scelta non è più conveniente, o quando sopraggiungono altri per i quali la scelta non è mai stata conveniente, l’accordo rivela tutta la sua gratuità, onde è del tutto indifferente scegliere l’affermazione o la negazione (e tanto l’una che l’altra trovano coloro per i quali l’una o l’altra rappresentano il conveniente). La crisi di significati di cui soffre il mondo contemporaneo non meno e non più di ogni altra epoca storica, sono crisi della buona volontà; ma insieme, ciò che più conta, sono la naturale conseguenza dell’oblio della filosofia. Quando parla di filosofia parla del pensare autentico. Siamo a pag. 137. Non si può dunque dire che la filosofia accerta che qualche volta il buon senso, o il comune “ha ragione”: non lo si può dire, proprio perché il prefilosofico non si sa tener fermo, e cioè non ha ragioni. Quindi, non può aver ragione perché non ha ragioni, non sa perché sta dicendo quello che dice. Le “ragioni” gliele conferisce tutte la filosofia; ma poiché quello, come tale, non le riceve, non le fa sue – ché se ciò facesse esso non varrebbe più come il prefilosofico, ma come lo stesso filosofare -, è soltanto e propriamente la filosofia che “ha ragione”. Letteralmente, ha la ragione, cioè ha la capacità di dimostrare quello che afferma. E cioè si ha ragione quando si sa di averla, e cioè quando si sanno le proprie ragioni, perché è appunto sapendole che si può mostrare l’insostenibilità delle affermazioni contrarie. Ciò non esclude – ripetiamo – che l’orizzonte filosofico possa conservare quei contenuti del momento prefilosofico, dei quali si riesca a stabilire la fondatezza. Ma questo lo fa la filosofia, non può farlo la chiacchiera, perché non ha gli strumenti per farlo, non sa dire quali sono le sue ragioni. Prima dicevamo di qualcuno che dice delle cose a cui si controbatte “e se fosse il contrario?”: non ha ragioni per negare ciò che dice. Ma il prefilosofico non è semplicemente un contenuto, ma è anche un modo di assumere il contenuto. Cioè, è un modo di pensare. Tale modo costituisce la forma del prefilosofico. Qualunque sia il contenuto assunto, tale forma è, come si è visto, un essere nell’infondatezza… Qualunque tipo di pensiero rimane nell’infondatezza, non esce da lì. …in quanto le compete, come tale, di lasciarsi accanto la negazione della sintesi costituita dalla forma e dal suo contenuto: negazione della totalità del contenuto prefilosofico. Questo modo di pensare deve lasciare da parte la negazione del contenuto perché deve scegliere l’uno o l’altra, semplicemente. Tale sintesi è il prefilosofico nella sua globalità, o in quanto atteggiantesi a sistema unitario. (La negazione del prefilosofico, assunto in questo modo, è sempre fondata – sempre che, naturalmente, sia operata dal filosofare). Soltanto la filosofia può accorgersi di quanto la chiacchiera sia infondata. È per questo motivo che la struttura originaria include il prefilosofico come un passato e un futuro: il presente temporale è infatti occupato – almeno sino a che non si dimostri l’esistenza di altri soggetti pensanti – dall’esercizio o dalla forma del filosofare. Dice che il prefilosofico è incluso comunque nel filosofare, lo pone come il passato e come il futuro; infatti, del passato io posso dire quello che voglio, e così del futuro. Ma nel presente, no, lì c’è la filosofia, c’è il pensiero autentico, perché il presente è l’immediato, è ciò che mi appare in questo momento, sono io in questo momento, non quello che sarò, quello che sono stato, queste sono solo fantasie. Ciò che sono stato, certo, posso pensarlo come fantasia, ma ciò che sono stato è anche ciò che determina ciò che sono. Ma non posso porlo come qualcosa di non autocontraddittorio, perché è comunque un discorso prefilosofico. È in questo senso che il prefilosofico sarebbe il passato e il futuro, mentre il presente è il filosofico. È quando si considera soltanto il contenuto del prefilosofico che accade – come si è detto – che alcuni momenti particolari di tale contenuto siano conservati nel filosofare. Ma ciò che si conserva è appunto il semplice contenuto; e si conserva non per quello che esso è, ma per il suo essere assunto come contenuto della forma del filosofare. Dice che questo prefilosofico viene mantenuto come contenuto per quello che è. Ma che cos’è? È autocontraddittorio. Infatti, dice, È quando si considera soltanto il contenuto del prefilosofico che accade – come si è detto – che alcuni momenti particolari di tale contenuto siano conservati nel filosofare. Ciò che si conserva è il semplice contenuto, ma ciò che si conserva non per quello che è, cioè autocontraddittorio, ma per il suo essere assunto come contenuto della forma del filosofare, cioè viene posto come una forma in cui si fa filosofia. Essere nella verità (nel fondamento), esserlo cioè semplicemente, significa quindi non essere nella verità. Poiché essere in questa – esserla in modo che, insieme, non sia un non esserlo – significa possederla, saperla, comprenderla. (Mentre, al contrario, nell’errore si può soltanto essere, ché quando l’errore è saputo, se ne è già fuori, nella verità). Dice, essere nella verità. Che cosa comporta questo? Significa saperla, comprenderla: questo è essere nella verità. Nell’errore, invece, dice che si può soltanto essere, ché quando l’errore è saputo se ne è già fuori. Essere semplicemente nella verità, senza sapere di esserlo, è essere, di fatto, nell’errore; anche se quello che dico è vero, però non ho ragioni per sostenerlo e, quindi, non la possiedo. Infatti, dice, nell’errore si può soltanto essere perché, quando l’errore è saputo, se ne è già fuori, nella verità. In altri termini, soltanto se ho delle ragioni posso essere nella verità. Poi, cosa si debba intendere qui con verità, questo è un altro discorso. Sappiamo, però, che per Severino essere nella verità significa essere nella struttura originaria, cioè nell’affermazione del principio di non contraddizione. A pag. 138 parla della riluttanza. …la riluttanza del “filosofo” a comunicare all’“uomo” i risultati della sua fatica; e di qui la disillusione dell’“uomo” nell’apprenderli. Quello è riluttante perché sa che le sue parole saranno tradotte in un diverso orizzonte semantico (e l’occasione prima di questo tradurre è dato dallo stesso filosofo che si lascia tentare a quella comunicazione); questo è disilluso, perché, proprio in forza di quella traduzione, o viene ad apprendere ciò che “più o meno” sapeva già, o trova assolutamente estraneo ciò che gli viene comunicato, e se ne libera subito. Per questo riguardo il compito del filosofo sta dunque – negativamente – nel non accettare il colloquio, inteso come relazione biunivoca tra due piani semantici; e – positivamente – nel render l’uomo filosofo; instaurazione del logo e quindi trasformazione del mondo. Questo sarebbe il compito… arduo, come sappiamo. A pag. 140. In una lunghissima nota: Il fondamento della richiesta del fondamento, simpliciter, o il significato della richiesta del significato, simpliciter, è la struttura originaria… Lo aveva già detto prima. Se io chiedo del fondamento è perché c’è già del fondamento, so già qualche cosa del fondamento, perché è già in atto questo fondamento. E, infatti, chiedo del fondamento e non di un’altra cosa. Qualunque cosa io intenda con fondamento, comunque è quella cosa lì che io ho in mente, non un’altra. Poco più avanti. Chiedere il fondamento di qualcosa senza collocarsi originariamente nel fondamento, equivale a rendere infondata la richiesta. Una richiesta di fondamento che non muova dalla consapevolezza del fondamento già presente, dice, rende infondata la richiesta. Il chiedere ha qui fondamento in quanto è il fondamento stesso che sta in relazione con altro, e per questo stare in relazione non è semplicemente fondamento, ma richiesta di fondamento. L’“altro” è appunto ciò di cui non si vede immediatamente la coincidenza col fondamento. Quando io chiedo un fondamento di qualche cosa, per Severino, chiedo di mostrare perché quella cosa è ciò che è; quindi, questa richiesta di fondamento già muove dal fondamento. A pag. 143, Capitolo Secondo, L’immediatezza dell’essere. L’essere che è immediatamente presente – l’“immediato”, come ciò che entra a costituire il soggetto del giudizio originario, o meglio come elemento di quella strutturazione dei sensi dell’immediatezza, che costituisce essa appunto il soggetto del giudizio originario – è ciò che per essere affermato non richiede o non presuppone altro che la presenza di se stesso, o non presuppone altro che se stesso in quanto presente: il per se notum. Questo è l’immediato: ciò che viene colto immediatamente in quanto se stesso e viene posto come qualcosa di non contraddittorio, perché questa lampada sul tavolo non è una non lampada sul tavolo. L’affermazione o posizione di esso è la stessa presenza, manifestazione, attualità di tale essere. Infatti, per Heidegger l’essere è la presenza di qualche cosa. Infatti, dico “questo è…”. Quindi questo “è” lo indico come presenza; l’essere è la presenza di questa cosa così come mi appare. Ossia il presentarsi o il manifestarsi dell’essere è precisamente l’affermazione: “l’essere è”. Ora, si dice appunto che, per affermare che l’essere è, non c’è bisogno, né può esserci bisogno, di introdurre un termine diverso da ciò che è affermato; ossia per affermare che l’essere è non c’è bisogno, né può esserci bisogno, di alcuna mediazione, dimostrazione, apodissi. “Per affermare che l’essere è non c’è bisogno, né può esserci bisogno di alcuna mediazione”: ciò significa: “Che l’essere sia è per sé noto”. Per sé noto vuole dire che questa cosa, che appare, appare così come appare, mi appare così come mi appare senza bisogno di alcuna dimostrazione che è così che mi appare. Per sé noto: è per se stesso e non per altro. Per sé noto: cioè noto non per altro. Se ciò per cui l’essere è noto è lo stesso essere che è noto, che l’essere sia è immediatamente noto o presente. Immediatezza fenomenologica. Ciò per cui l’essere è noto è lo stesso essere noto, non c’è altro. Lui insiste sull’immediatezza dell’essere e tutto il suo pensiero ruota intorno a questo, cioè, ciò che mi appare mi appare così come mi appare e non in un altro modo. Sempre tenendo conto che in questo apparire lui non parla mai di immagine, parla sempre e solo di proposizioni: ciò che mi appare mi appare in quanto proposizione, in quanto affermazione. Infatti, insiste sul termine “è”. A pag. 144. Il termine “essere” indica una sintesi – che dovrà essere accuratamente esaminata – tra il significato “essere” (essere formale) e i significati costituiti dalle determinazioni che, appunto, sono. Essere formale, cioè, essere in quanto forma nella parola, e invece le cose che sono qualche cosa. Capitolo 3: Principium cognitionis. Se a questo punto si volesse dire che “ciò per cui” è noto che l’essere, è qualcosa come la “coscienza” (o il “soggetto”, o l’“io”, ecc.), bisognerebbe osservare che la coscienza non solo è ciò per cui si afferma che l’essere è, ma è anche ciò per cui si ha la facoltà di negare che l’essere sia. Pertanto la coscienza (o i termini equivalenti), come tale, non è ciò per cui è tenuta ferma l’affermazione piuttosto che la negazione. Il “ciò per cui” è noto che l’essere è, ha quindi un significato differente dal “ciò per cui” è lasciata sussistere tanto l’affermazione come la negazione dell’essere: la differenza sussiste per quel tanto appunto che ciò per cui è noto che l’essere è, esclude la negazione che l’essere sia. Si dirà allora che il “ciò per cui” è affermato che l’essere è, è il principium cognitionis. Ma con l’avvertenza che qui il “principio”, il fondamento è la cognizione stessa (e cioè è l’affermazione che l’essere è). È un po’ quello che diceva prima, cioè, non posso distinguere l’affermazione che l’essere è dalla coscienza di questa affermazione, sono la stessa cosa. Infatti, dice, a) Dire che l’essere è noto significa che dell’essere si sa che è. (Ogni altro sapere che si possa realizzare intorno all’essere è una determinazione interna di questo sapere che l’essere è). A pag. 146. Qui evoca un po’ quello che diceva Heidegger rispetto all’“in quanto”: qualcosa in quanto c’è. Questo “in quanto” è l’essere stesso. Dire che “questo è” equivale dire che questa cosa è “in quanto” è se stessa, ma è “in quanto” è se stessa. Ciò per cui l’essere è noto – il fondamento della notizia dell’essere – è l’essere stesso che è noto. Qual è il fondamento della notizia di questa lampada che è sul tavolo? È l’essere stesso che è noto, cioè l’essere questa lampada sul tavolo. Se pertanto ci si limita ad affermare che l’essere è, questa affermazione è certamente – nella misura in cui si afferma l’essere dell’essere che è per sé noto – fondamento di sé medesima; ma, appunto, lo è soltanto; il fondamento è soltanto in sé: non è posto: non è saputo. O lo si sa (in quanto si sa l’essere che è noto), ma non lo si sa come fondamento: appunto perché non si sa che l’affermazione che l’essere è il fondamento di sé medesima, e cioè perché non è posto che l’essere è per sé noto, o non è posta l’immediatezza della presenza dell’essere. Tornando alla lampada che è sul tavolo, l’immediatezza può dirmi che, sì, la lampada è sul tavolo, ma io posso chiedermi che fondamento ha questa affermazione. No, dice Severino, è questa affermazione il fondamento di se stessa; è ciò che è immediatamente noto, il fondamento di sé, perché ciò che è immediatamente noto è ciò che non può essere altro da sé, e quindi è ciò che mostra il principio di non contraddizione, cioè, toglie la negazione di sé. In questo senso è il fondamento. A pag. 148, capitolo 9, Nota 1. Parla dei due lati della reciprocità. Sarebbe il noto per sé e il noto per altro. Poco prima, però, dice Per presenza immediata si intende infatti l’essere noto o affermato per sé, in base a sé. Questa lampada sul tavolo lo affermo in base a sé. Ire che l’essere è noto per sé significa escludere che sia noto per altro. Che l’essere sia, da un lato è noto per sé in quanto è noto non per altro; e dall’altro lato è noto non per altro in quanto è noto per sé. L’essere è noto per sé in quanto è noto non per altro; dall’altra parte, è noto non per altro in quanto è noto per sé. È importante osservare che questa determinazione reciproca non è dimostrata o mediata. Infatti, i due lati della reciprocità… È la stessa cosa che faceva quando scriveva (A=B) = (B=A). …sono costituiti da due giudizi analitici (identici), nei quali il predicato conviene al soggetto in base alla semplice analisi del predicato, e cioè gli conviene immediatamente. Il soggetto conviene immediatamente al predicato. Come diceva prima, questa lampada sul tavolo è questa lampada sul tavolo, la cosa è per sé nota, è nota e immediata. Non è possibile negarla, nel senso che questa affermazione che la lampada è sul tavolo esclude necessariamente la sua negazione. Tali giudizi possono essere così formulati: “Noto per sé (soggetto) è ciò che è determinato da noto non per altro (predicato)… Ecco, lui elabora così la cosa. Ricordate della difficoltà: quando si pone un’identità, A è B o anche A=A, è chiaro che uno è soggetto a l’altro è predicato, però, lui cosa dice? Dice che, noto il soggetto… pensate alla formuletta A è B. Il soggetto sarebbe la A, è noto per sé, è la lampada sul tavolo, quindi, il soggetto, questo noto per sé, è determinato da essere noto non per altro, che è il predicato, cioè la B. La B in questo caso significa “noto non per altro”. La A significa “noto per sé”, che è uguale a B, che è “noto non per altro”. È così che lui pensa la cosa. … “noto non per altro è ciò che è determinato da noto per sé”. Nel primo di questi due giudizi, ad esempio, per “ciò che è determinato da noto non per altro”, si intende “ciò che è negato con la negazione di noto non per altro”. È un altro modo per riformulare il principio di non contraddizione. dire che “noto per sé” è in quanto è “noto non per altro”, o che dipende da “noto non per altro” significa appunto che la negazione di “noto non per altro” implica immediatamente la negazione di “noto per sé”… Se nego il secondo, il predicato, nego il soggetto. Ecco perché c’è l’identità di soggetto e predicato e non possono essere divisi. Questa unità di soggetto e predicato possiamo intenderla, con Severino, come il concreto, concreto che è costituito di questi due elementi che formano un tutto, perché questi due elementi sono lo stesso: il se stesso e il non poter essere altro che se stesso. Se io li separo, per via di un’astrazione, a questo punto si pone una contraddizione. Se li separo e faccio del soggetto e del predicato delle astrazioni, allora, sì, uno e soggetto e l’atro è il predicato, per cui non possono essere la stessa cosa. …sì che “noto per sé” non è qualcosa di fondato da “noto non per altro” – se il fondamento è inteso come un’antecedenza logica rispetto al fondato. Lo stesso si dica per il secondo giudizio. Il fatto che qui uno sia prima dell’altro non significa affatto che sia più importante; lo diceva nelle pagine precedenti, è solo il fatto che non possiamo dire simultaneamente due cose insieme, dobbiamo dirne una prima e l’altra dopo.