19 agosto 2020
Scienza della logica di G.W.F. Hegel
Prima di iniziare la questione dell’idea assoluta vorrei fare un ultimo accenno alla questione del sillogismo. Il sillogismo di cui parla Hegel, come sapete, è il sillogismo compiuto, è l’unione, la simultaneità dei tre giudizi, deduttivo, induttivo e analogico. Ora, è interessante come la logica matematica ponga il teorema di deduzione. Questo testo di Mendelson, scritto nel 1964, è stato adottato in moltissime università nel mondo da facoltà sia di matematica che di filosofia. Ciò che interessa qui non è tanto la dimostrazione in sé ma l’architettura di questa dimostrazione, cioè il modo in cui viene costruita. Ecco la dimostrazione di Mendelson tratta dalla Introduzione alla logica matematica, Boringhieri, Torino 1972
3) Se A , B e C sono fbf qualunque di L, allora i seguenti sono assiomi di L:
A1 (A ⊃ (B ⊃ A ))
A2 ((A ⊃ (B ⊃ C )) ⊃ ((A ⊃ B) ⊃ (A ⊃ C ))
A3 ((~B ⊃~A ) ⊃ ((~B ⊃~A ) ⊃ B )).
4) L’unica regola di inferenza di L è il modus ponens: B è una conseguenza diretta di A e A ⊃B . L’applicazione di questa regola verrà indicata con MP.
Lemma 1.7 Per ogni fbf A , Γ ⊢ A ⊃ A .
Proposizione 1.8 (Teorema di deduzione) Se Γ è un insieme di fbf, e A e B sono fbf, e Γ, A ⊢ B , allora Γ ⊢A ⊃B . In particolare, se A ⊢B , allora ⊢ A ⊃B . (Herbrand, 1930)
Dimostrazione. Sia B 1, …, B n una dimostrazione di B da Γ U {A }, dove B n = B. Dimostriamo per induzione su i, che Γ ⊢ A ⊃Bi per ≤1 i ≤ n. Innanzitutto, B 1 deve essere in Γ o essere un assioma di L oppure A . Per l’assioma A1, B1 ⊃ (A ⊃B ) è un assioma. Perciò nei primi due casi, per MP, Γ ⊢ A ⊃B 1. Per il terzo caso, quando B 1 è A , risulta ⊢ A ⊃B 1 per il lemma 1.7, e, di conseguenza, Γ ⊢ A ⊃B 1. Questo per quanto riguarda il caso i = 1. Supponiamo ora che Γ ⊢ A ⊃B k per tutti i k < i. O B i è un assioma o B i è in Γ, o B i è A , o B i deriva per MP da qualche B j e B m, dove j<i, m<1 e B m ha la forma B j ⊃ B i. Nei primi tre casi Γ ⊢ A ⊃ B i, come nel caso precedente i = 1. Nell’ultimo caso, per ipotesi induttiva, Γ ⊢ A ⊃ B j e Γ ⊢ A ⊃ (B j ⊃ B i). Ma, per l’assioma A2, ⊢ (A ⊃ (B j ⊃ B i)) ⊃ ((A ⊃ B j) ⊃ (A ⊃ B i)). Quindi per MP, Γ ⊢ (A ⊃ B j) ⊃ (A ⊃ B i) ed ancora per MP, Γ ⊢ A ⊃ B i. Così la dimostrazione induttiva è completa. Il caso i = n è il risultato voluto. (Si noti che, data una deduzione di B da Γ e A , la dimostrazione appena fornita ci permette di costruire una deduzione di A ⊃ B da Γ. Si osservi anche che nella dimostrazione del teorema di deduzione vengono usati solo gli schemi di assiomi A1, A2.)
Le formule ben formate (fbf) in logica sono tutte quelle proposizioni costruite da variabili enunciative, i connettivi (non, e, se… allora), le parentesi, la punteggiatura, e basta. Vale a dire, le formule ben formate sono quelle e soltanto quelle costruite in questo modo. Si parte da un insieme Γ di formule ben formate, dove A e B sono formule ben formate. Quindi, abbiamo A e B, e poi abbiamo Γ, da cui siamo partiti, e abbiamo anche che B è derivabile da A. Dice che se A allora B è derivabile da Γ: questo è ciò che occorrerebbe dimostrare, e cioè se A allora B è un teorema Γ ⊢ (A ⊃ B) – teorema si intende che è una sequenza di proposizioni derivabili da formule ben formate. Come avviene questa dimostrazione? Questo è il problema della deduzione: dimostrare che A ⊃ B è vero per tutte le B. Si parte dall’insieme di fbf B (B1 … Bn) e la cosa interessante è che ciò che deve dimostrare a questo punto, per il teorema di deduzione, è l’induzione da B1 a Bn, cioè per tutte le B. Come avviene questa dimostrazione? Avviene utilizzando un paio di assiomi, utilizzando delle regole di trasformazione, il modus ponens, che è l’unica inferenza consentita (il modus ponens: se A allora B, ma A, dunque B). Dunque, in questa sequenza, da B1 a Bn, si individua una Bi qualunque e si dimostra che Bi ha le stesse proprietà di B1 da cui siamo partiti. Ovviamente, la proprietà che a noi interessa è quella di essere derivabile da A . Ora, per analogia, badate bene, giunge a dire che se è vero con Bi allora sarà vero anche con Bk o Bj, e questo semplicemente per analogia. In questo modo, attraverso delle regole di trasformazione, alla fine, attraverso il modus ponens, giunge ad affermare che se A allora Bi è un teorema di Γ, che era quello che si doveva dimostrare. Ma, sono le sue parole, così la dimostrazione induttiva è completa: il caso di i=n è il risultato voluto. Si noti che data una deduzione di B da Γ e A, la dimostrazione appena fornita ci permette di costruire una deduzione di se A allora B da Γ. La cosa che ci interessa qui è che Mendelson riesce a dimostrare questa cosa in un intreccio di dimostrazioni: l’analogia, l’induzione e la deduzione si intrecciano continuamente. Infatti, anche nei vari passaggi per giungere a dimostrare l’induzione usa delle deduzioni. Questo dimostra molto bene quello che ci diceva Hegel rispetto al sillogismo compiuto. Queste tre figure, il sillogismo deduttivo, induttivo e analogico, in effetti, come qui, nessuna di esse esiste senza le altre. È una questione di grande interesse perché il teorema di deduzione è fondamentale per la logica matematica, e se non si dimostra questo, non si va da nessuna parte, ma il problema è che c’è questo rinvio continuo dall’induzione alla deduzione e all’analogia. Mendelson ovviamente non parla mai di analogia, però il procedimento è quello: per analogia, se ci sono delle proprietà in Bi ci saranno anche in Bj, preso come minore, uguale, ecc. Queste tre forme sono assolutamente indissolubili; il che significa che in realtà non si dimostra proprio niente. Mostra anche quello che dice Hegel riguardo al modo in cui i momenti, in un certo senso, cadono l’uno nell’altro, cioè siano inscindibili, per cui il primo è tale soltanto se c’è l’ultimo; è l’ultimo che determina il primo in quanto primo. Allo stesso modo qui è l’induzione che determina la deduzione, ma senza la deduzione non posso dimostrare nulla, e naturalmente non posso anche dimostrare l’induzione senza l’analogia, perché è l’analogia che mi consente il passaggio, p. es., da Bi a Bk, ecc.; è un’analogia, non c’è nessun dio al mondo che mi garantisca una cosa del genere, però se va bene per uno andrà bene anche per quell’altro. Ora, questo è l’inizio, ma è il caposaldo perché su questo si regge tutto il rimanente. Tutto si regge su questo, per cui, se non possiamo usare la deduzione e l’induzione, non dimostriamo niente. Però, come vi dicevo, mostra anche il movimento di cui parla Hegel, perché un elemento non c’è senza gli altri. E qui mostra molto bene come fa a non esserci, perché ha bisogno di quegli altri per esistere, se non esistono quegli altri non esiste neanche lui: se non c’è il per sé non esiste neanche l’in sé, e viceversa; così come il significante e il significato: se non c’è il significato non esiste il significante, e viceversa. Cosa che potrebbe far riflettere su che cosa sia un giudizio, su quali basi si fondi. In questo caso il sillogismo è ovviamente formale, ma nel sillogismo formale è questo che interviene, cioè la dimostrabilità è costruita sull’indimostrabile. Il che è un altro modo per intendere ciò che dicevamo rispetto a qualunque inferenza, a qualunque sillogismo: alla base, come sapevano bene Heidegger e Husserl, c’è la chiacchiera, cioè l’indimostrabile. Indimostrabile non perché non esistano regole per dimostrarlo, di queste se ne possono costruire quante se ne vogliono, non è questo il punto, ma indimostrabile perché è la base, la condizione per ogni dimostrazione; è l’insieme di quegli elementi che costituiscono la mia possibilità di pensare di costruire una dimostrazione: la chiacchiera, il mondo della vita, la verità pubblica, abito di pensiero, ecc. Dicono tutte la stessa cosa: qualcosa di indimostrabile, ma indimostrabile perché precede ogni dimostrazione, è la condizione di ogni dimostrazione. Ecco come si formano le idee, i giudizi, i concetti: sono tutti costruiti sulla chiacchiera. Qui, anche lui, in effetti, a leggerlo così, sembra che ci sia una quantità enorme di presupposizioni, perché, p.es., dice che anzitutto B1 deve essere in Γ o essere un assioma di L, come linguaggio, oppure A. Sono tutta una serie di presupposizioni. Ecco, dunque, l’idea. Intanto, quello che ho appena letto ci dice come si forma un’idea, l’idea comune, come si intende generalmente. Ma l’idea di cui parla Hegel non è l’idea così come è comunemente intesa. Infatti, a pag. 858 dice mentre ora l’espressione d’idea vien riserbata per il concetto oggettivo o reale, e l’idea vien distinta dal concetto stesso, ma più ancora dalla semplice rappresentazione, più che mai bisogna rigettar quella stima che dell’idea si fa quasi fosse soltanto qualcosa d’irreale e secondo cui si pensieri veri si dice che non siano altro che idee. Quando i pensieri sia qualcosa di semplicemente soggettivo e accidentale, certo non valgono più di questo, ma in questo non stanno al di sotto delle realtà temporali e accidentali, che nemmeno esse valgono più di accidentalità e di fenomeni. Che se poi al contrario l’idea non deve avere il valore di verità perché riguardo ai fenomeni è trascendente, perché non le si può assegnare alcun congruente oggetto nel mondo dei sensi, allora è questo un singolare abbaglio di rifiutare all’idea il valore oggettivo perché le manca quello che costituisce il fenomeno, l’essere non vero del mondo oggettivo. Questa è l’idea che ha Hegel del mondo oggettivo: di essere non vero. A pag. 889, L’idea del vero. L’idea soggettiva è dapprima impulso o istinto. Essa è infatti la contraddizione del concetto, di avere per sé l’oggetto e di essere a sé la realtà, senza che tuttavia l’oggetto sia come un altro, indipendente di fronte a lui, vale a dire senza che la sua differenza da se stesso abbia insieme la determinazione essenziale della diversità e dell’esistere indifferente. È l’idea che viene così, che non distingue assolutamente niente. L’istinto ha quindi la determinatezza di toglier via la sua propria soggettività… Per istinto, quindi, come se non dipendesse da lui; cosa che si dice anche comunemente. …di render concreta la sua realtà dapprima astratta, e di riempirla col contenuto del mondo presupposto dalla sua soggettività. In questo caso prende l’istinto come un oggetto, come un qualche cosa di estrinseco. D’altro lato esso si determina con ciò in questa maniera: il concetto è bensì l’assoluta certezza di se stesso; ma al suo esser per sé si contrappone la presupposizione sua di un mondo essente in sé, il cui indifferente esser altro ha però per la certezza di se stesso soltanto il valore di un inessenziale; esso è perciò l’istinto di toglier via questo esser altro e di contemplare nell’oggetto l’identità con se stesso. È interessante, dice l’istinto di toglier via questo esser altro, cioè, di ricondurlo a qualcosa di domestico. Ciò che è altro è generalmente inteso come qualcosa di sconosciuto, di non manipolabile, di difficilmente gestibile. È, quindi, un altro modo per porre la questione della tecnica, che incontra continuamente oggetti che sono sempre altro e che deve ricondurre a sé, ma riconducendoli a sé li mantiene sempre come oggetti esterni, con il risultato, di cui dicevamo la volta scorsa, e cioè che ciascuno di questi oggetti mostra alla fine di non essere nient’altro che uno strumento per un altro oggetto, e così via all’infinito. In quanto questa riflessione in sé è l’opposizione tolta, ed è l’individualità posta, operata per il soggetto, che appare dapprima come il presupposto essere in sé, è l’identità della forma con se stessa, ristabilitasi dall’opposizione, – una identità, che è con ciò determinata come indifferente di fronte alla forma nella sua distinzione, ed è contenuto. Questo è ciò che accade nel momento in cui l’oggetto esterno, in quanto opposizione, cessa di essere l’opponente in quanto ricade sul soggetto. Questione che aveva già affrontato sin dalle prime pagine della Fenomenologia dello spirito rispetto all’in sé e al per sé: è necessario che il per sé si rifletta sull’in sé perché l’in sé diventi qualcosa. Si può intendere la questione in modo più semplice pensando al significante e al significato: il significato deve tornare sul significante, e soltanto così il significante è quello che è, cioè dice qualcosa. Ora vorrei leggervi la definizione di idea che dà Hegel, tratta dall’Enciclopedia. Siamo a pag. 198. L’idea è il vero in sé e per sé, l’unità assoluta del concetto e dell’oggettività. Cioè: del concetto e di ciò di cui il concetto è concetto; sempre tenendo conto che ciò di cui il concetto è concetto è di se stesso; proprio così com’era il sillogismo compiuto, che non giudica su qualche cosa d’altro, ma dice di sé di essere se stesso. Il suo contenuto ideale non è altro che il concetto nelle sue determinazioni: il suo contenuto reale è solo l’esposizione, che il concetto si dà nella forma di esistenza esterna; e questa forma, inclusa nella idealità di esso, nel suo potere, per tal modo si mantiene nell’idea. Cioè: costruisce questo qualcosa di esterno, dopodiché lo mantiene nell’idea come qualcosa di esterno. La definizione dell’assoluto, che l’assoluto è l’idea, è essa stessa assoluta. Tutte le definizioni, sin qui date, si riportano a questa. – L’idea è la verità, perché la verità è il rispondere dell’oggettività al concetto,… Oggettività, come ci ha detto, è l’altra faccia del concetto, ciò che si oppone al concetto, il suo negativo. Oggettività che deve ricadere sul concetto, e solo a questo punto avverrà l’idea assoluta. …non già che cose esterne rispondano a mie rappresentazioni; queste son soltanto rappresentazioni esatte, che io ho come questo individuo. Nell’idea non si tratta né di questo, né di rappresentazioni, né di cose esterne. Ma anche tutto il reale, in quanto è vero, è l’idea; ed ha la sua verità soltanto per mezzo e in forma dell’idea. Idea, tenete sempre conto, che è l’unità assoluta del concetto e dell’oggettività. Il singolo essere è un qualche lato dell’idea: per questa occorrono dunque ancora altre realtà, che a lor volta appaiono come esistenti particolarmente per sé; solo in esse tutte insieme, e nella loro relazione, è realizzato il concetto. Quando appaiono esistenti tutte assieme: questo è l’atto di parola, né più né meno. È l’atto di parola che esiste in quanto esiste insieme con tutto. Questo de Saussure lo aveva inteso: occorre che ci siano tutti gli elementi linguistici perché possa darsi il singolo atto linguistico. In realtà, il singolo atto linguistico è un’astrazione, cioè, lo astraggo da un tutto, da un tutto che è presente e che deve essere presente. È quel tutto di cui il linguaggio è fatto. Quando Heidegger dice che io sono il mondo, sta dicendo proprio questo, e cioè che io esisto, sono quello che sono o quello che penso di essere o quello che credo che altri credano che io sia, perché sono nel mondo, perché sono il prodotto di tutto ciò che penso, di tutto ciò che dico e di tutto ciò che è stato detto migliaia di anni fa: io sono il risultato di tutto questo. Porre il linguaggio come un tutto non è nient’altro che il porre il linguaggio come la condizione perché io oggi sia quello che sono; condizione che naturalmente non può non esserci; se potessi, per assurdo, togliere il mondo, scomparirei anch’io. Allo stesso modo, se io tolgo il significante scompare anche il significato, non è che rimane lì il significato da solo, perché l’uno non esiste senza l’altro. l’idea stessa non è da prendere come un’idea di qualche cosa, né del pari il concetto soltanto come un concetto determinato. L’assoluto è l’universale e unica idea, che, col giudicare, si specializza nel sistema delle idee determinate, che però tornano nell’unica idea, lor verità. Tutte queste che, sì, si determinano, certo, nei miei giudizi, in tutto quello che faccio, ecc…. Ci sta dicendo una cosa importante, e cioè che queste idee determinate tornano nell’unica, che è la loro verità, e cioè il tutto. Questa idea determinata esiste in quanto c’è il tutto, in quanto è inserita all’interno del linguaggio, senza il quale nessuna idea potrebbe determinarsi o astrarsi; è sempre dal concreto, dal tutto, quindi, dal linguaggio, che qualcosa può astrarsi. A pag. 189. L’idea, in quanto non ha a suo punto di partenza e di appoggio un’esistenza, è presa di frequente come qualcosa di logico, in senso meramente formale. Bisogna lasciare siffatta veduta a quei punti di vista, nei quali la cosa esistente, e tutte le ulteriori determinazioni che non giungono ancora all’idea, sono considerate come cosiddette realtà, o vere effettualità. Dice che l’idea non ha un punto di partenza. È vero. Provate a pensare: da dove comincia il linguaggio? Quand’è che io personalmente ho incominciato a parlare? È possibile stabilire un giorno, un’ora, come si fa? Anche se ho pronunciato un suono, che per altri aveva un senso, per me non lo aveva, era solo un suono. Quando questo suono è diventato parola? A che punto esattamente? Come si fa a determinarlo con precisione? È impossibile. O stabilire quando è nato il mio linguaggio, data e ora. È impossibile, anche perché i testimoni dell’epoca non sono più tra noi. Quindi, non ha un punto di partenza. È quello che Heidegger afferma quando dice che ciascuno di noi nasce già nel linguaggio: non c’è il punto di partenza, è già lì. Egualmente falsa è la rappresentazione dell’idea come alcunché di meramente astratto. Certo. L’idea ha a che fare con il tutto, con l’intero, con il linguaggio, non ha nulla di astratto. Tale essa è certamente in quanto divora in sé tutto ciò che non è vero; ma in se stessa è essenzialmente concreta, perché è il libero concetto, che si determina da se steso e, per tal modo, come realtà. Il concetto si determina da sé e diventa realtà. È importante questo. Bisogna ripercorrere ciò che abbiamo detto tante volte, e cioè l’avviarsi del linguaggio, non nel senso del momento in cui si avvia, ma cosa lo permette, cosa accade quando si avvia. Accade quella distanza per cui incomincio a stabilire che io sono io perché non sono altro, cioè incomincia a stabilirsi un qualche cosa e il suo opponente. Questo accade con il linguaggio, senza linguaggio non accade nulla. Un leone non ha come suo opponente un’altra cosa, un’antilope. Certo, se ci riesce la mangia, ma non è altro da lui. La distanza è il linguaggio stesso; questa distanza è ciò che fa esistere l’opponente, che altrimenti non esiste. Per il leone l’antilope non esiste, se ovviamente intendiamo con esistenza ciò che intendiamo noi, e noi non possiamo che intenderla così, come la intendiamo noi, cosa che il leone non può fare. Grazie a questa distanza qualcosa esiste, può esistere. Finché non c’è questa distanza non può esistere in alcun modo, e non può esistere nemmeno il concetto di esistenza, ovviamente. Ecco perché prima diceva che è il concetto a produrre l’oggettività. Ricordate che il concetto è l’unione indissolubile tra essere ed essenza, cioè tra l’essere che si pone in quanto in sé, e in quanto esserci. Ma questa oggettività ha la possibilità di esistere grazie al linguaggio, a questa distanza fra io e tutto ciò che non è io, che ovviamente senza il linguaggio non può esistere. L’intelletto… Distingue tra intelletto e ragione. L’intelletto mette in atto l’in sé, la coscienza immediata, che vede le cose ma senza avere un ritorno da queste cose tale per cui queste cose sono effettivamente quelle che sono. L’intelletto ha un lavoro facile nel mostrare che tutto ciò che vien detto dell’idea è in sé contraddittorio. Di ciò gli si potrebbe render la pariglia, o anzi, ciò è già attuato nell’idea; – ed è un lavoro, che è il lavoro proprio della ragione, e non è tanto facile quanto quello dell’intelletto. La ragione è riflessiva, nel senso letterale, cioè riflette su di sé; l’intelletto no, l’intelletto giudica. Potremmo accostare qui l’intelletto al giudizio formale, in modo non preciso ma giusto per dare un’idea. Allorché l’intelletto mostra che l’idea contraddice sé stessa, perché ad es. il soggettivo è soltanto soggettivo, e l’oggettivo anzi gli è opposto; che l’essere è qualcosa di affatto diverso dal concetto, e perciò non può essere ricavato da questo; ed egualmente che il finito è solo finito e per l’appunto il contrario dell’infinito, e non può essere identico con questo, e così via per tutte le determinazioni; la logica prova invece l’opposto: che cioè il soggettivo, che dev’essere solo soggettivo, il finito, che dev’essere solo finito, l’infinito, che dev’essere solo infinito, e via dicendo, non ha verità alcuna, si contraddice e passa nel suo concreto; con che questo passaggio, e l’unità nella quale gli estremi sono come superati e qual parvenza o momenti, si svela come la loro verità. Torniamo di nuovo alla questione del linguaggio. Senza questo qualcosa che appare come opponente io non ci sono, non esisto; deve esserci questo opponente perché io esista, così come deve esserci l’infinito perché esista il finito, e viceversa: deve esserci questa opposizione. Questa è stata l’idea straordinaria di Hegel, si è accorto in modo straordinariamente preciso del funzionamento del linguaggio, che cioè senza questa distanza per cui qualcosa mi si oppone non ci sono nemmeno io, non c’è niente. L’intelletto, che si fa a trattar dell’idea, commette un doppio errore. In primo luogo, esso prende gli estremi dell’idea, – siano espressi come si vuole, dato che siano nella loro unità, – ancora nel senso e nel significato in cui essi non sono nella loro concreta unità, ma restano ancora come astrazioni fuori di essa. Questo sarebbe il primo errore: pensare che in questa distanza, che il linguaggio instaura nel momento in cui si avvia, io e l’oggetto siamo cose diverse. Siam distinti, certo, ma se non ci fossi io non ci sarebbe l’oggetto, e viceversa, che è la cosa più interessante: senza questo oggetto non ci sono nemmeno io, cioè, senza questa opposizione, senza questa distanza, cioè, senza linguaggio. Né l’intelletto disconosce meno la relazione tra essi, anche quando è già posta espressamente; così, per es., esso trascura perfino la natura della copula nel giudizio, la quale del singolo, del soggetto pronuncia, che il singolo non è singolo, ma universale. Ogni volta che io dico “questo è quell’altro” sto dicendo che questa cosa qui, che è singola, è universale, cioè è quell’altra cosa. L’universale sarebbe il Bn. In secondo luogo, l’intelletto stima che la sua riflessione, - cioè che l’idea con sé identica contenga la negazione di sé stessa – sia una riflessione estrinseca, che non cada nell’idea stessa. In effetti, però, codesta non è una sapienza che sia propria all’intelletto: ma l’idea è essa stessa la dialettica, la quale eternamente separa e distingue l’identico con sé dal differente, il soggettivo dall’oggettivo, il finito dall’infinito, l’anima dal corpo, e solo così è eterna creazione, eterna vita ed eterno spirito. In questa separazione, c’è la creazione. È perché sono separato da qualcosa che questo qualcosa esiste: viene creato da questa separazione. Dire che esisterebbe lo stesso senza il linguaggio è, come amerebbe dire Wittgenstein, un non senso, cioè non significa niente. E, poiché a questo modo l’idea è anche il trapasso, o anzi il tradur se stessa nell’intelletto astratto, è altresì eternamente ragione:… L’intelletto che diventa ragione nel momento in cui ritorna su di sé. …è la dialettica, che fa sì che questo intellettuale, questo diverso venga inteso oltre la sua natura finita e la falsa parvenza d’indipendenza, che hanno le sue produzioni; e lo riconduce all’unità. Queste produzioni hanno una parvenza d’indipendenza, cioè di esistere, potremmo dire in modo esplicito, senza linguaggio. Certo che esistono, le vedo, le tocco, le sento, ma è una parvenza. Posso fare tutte queste cose perché sono concetti o perché ciascuna cosa che io vedo, tocco, ecc., è un sillogismo; se non lo fosse non potrei toccarla. E, non essendo, questo doppio movimento, temporale né in alcun modo separato e diverso, - altrimenti esso sarebbe sempre soltanto intelletto astratto, – l’idea è eterno intuire di se stessa in altro: il concetto, che ha attuato se stesso nella sua oggettività, l’oggetto, che è finalità interna, soggettività essenziale. Ecco, dice l’idea è eterno intuire di se stessa in altro, cioè, occorre questo altro, occorre questo mondo, come direbbe Heidegger, occorre questo tutto, di cui l’idea è fatta. È per questo, come dicevo prima, che pone l’atto di parola. L’atto di parola è questo: è il porsi in atto del tutto, del concreto, del linguaggio; ha bisogno di tutto per potere essere, per potere darsi. Come dire che ho bisogno di tutto il linguaggio per potere dire la parola “penna”. Naturalmente, dicendo “penna” dico una serie di cose che mi riguardano, che riguardano anche la penna. Questa penna esiste perché c’è la chiacchiera; è la chiacchiera che mi ha insegnato a tenerla in mano, a usarla, a sapere a che cosa serve, e quindi a utilizzarla per scrivere cose. Il fatto di sapere usare una penna, questo viene dalla chiacchiera, dal pensare comune, sono quelle cose che ciascuno sa senza sapere da dove propriamente arrivino, le sa e le usa ininterrottamente per tutto l’arco della giornata. Le diverse maniere di concepire l’idea come unità dell’ideale e del reale, del finito e dell’infinito, dell’identità e della differenza, e così via, sono più o meno formali; designando un qualche grado del concetto determinato. Cioè: sono concetti in questo caso che si riferiscono sempre ad altro, hanno bisogno di altro per potersi dire. Perché l’atto di parola non ha bisogno di altro? perché l’atto di parola è questo altro, questo tutto altro, simultaneamente. È per questo che non ha bisogno di uscir fuori da sé; il linguaggio non ha bisogno di uscir fuori da sé per affermare qualcosa. Potremmo dirla in modo un po' rozzo, che tutto ciò di cui ha bisogno ce l’ha già, è già tutto presente. È per questo che vi dicevo tempo fa che qualunque invenzione o genialata che possa venir in mente a qualcuno, questa era già presente, era già presente come possibilità; inesorabilmente, perché se non lo fosse stato allora avrebbe significato che questa cosa è fuori dal linguaggio e a un certo punto comparirebbe dal di fuori, ma questa operazione, di comparire dal di fuori, presenta una quantità enorme di problemi insolubili. Il fatto è che, invece, come molti hanno intuito per il vero, questo tutto, e Hegel stesso lo dice più volte, è già qui presente. Poi, che lo vediamo o no, questo è un altro discorso, ma è già qui. Ed è l’idea in qualche modo, tirandola un po’, di Alexandre Koyrè, il quale diceva che tutta la scienza, la tecnica, sono un prodotto del pensiero greco; era come se già con Parmenide fossero presenti la cibernetica e l’intelligenza artificiale. Certo, Parmenide non poteva vederla, ma era già lì; in condizioni particolari, avrebbe potuto vederla; ma era già lì, perché è una produzione del linguaggio, e il linguaggio non può essere fatto a pezzettini, o c’è tutto o non c’è, per funzionare deve essere tutto. L’idea è il giudizio infinito… Il giudizio diventa infinito con l’idea. Cosa vuol dire questo? Generalmente, il giudizio, quello che si produce dal sillogismo formale, è finito, è determinato, non è infinito. Il giudizio infinito è quello che vede nel proprio giudicare il tutto, l’intero, il concreto, e non la cosina che sta giudicando, cosa assolutamente irrilevante. Vede in questo suo giudicare, e non può non vedere, il tutto, che è presente e gli consente di esprimere quel suo qualsivoglia giudizio. Poiché l’idea a) è processo, l’espressione che designa l’assoluto come unità del finito e dell’infinito, del pensiero e dell’essere, ecc. … è falsa, perché l’unità esprime l’identità astratta, persistente in riposo. Come dire che questa unità del finito e dell’infinito viene posta come un’unità ferma, immobile. Il processo, sottointeso dialettico, viene cancellato. Poiché essa b) è soggettività, quell’espressione è ugualmente falsa, perché quell’unità esprime l’in sé, il sostanziale della vera unità. L’infinito appare per tal modo come soltanto neutralizzato col finito; e così il soggettivo con l’oggettivo, il pensare con l’essere. Ma nell’unità negativa dell’idea, l’infinito soverchia sul finito, il pensiero sull’essere, la soggettività sull’oggettività. Altra questione interessante: nell’unità negativa dell’idea. Perché dice nell’unità negativa dell’idea? Perché non è qualcosa che si sta ponendo, è negativa nel senso che contiene in sé la negazione di tutto ciò che le si oppone. L’idea ha dovuto compiere questo processo dialettico per essere idea assoluta. È in questo senso che parla di negativo. Dice l’infinito soverchia sul finito, il pensiero sull’essere, ecc. Soverchia è un altro modo per dire che ciò che accade in un qualunque giudizio formale comporta molto di più di ciò che il giudizio formale pensa di esporre. Che cosa c’è di più? C’è una cosa straordinaria, e cioè che questo giudizio formale ha l’occasione, se si fa carico del problema, della fatica del concetto, di accorgersi di essere infinito, e che quindi non può fermarsi al suo giudizio formale, che non significa niente, è come dire Pietro e Paolo sono dodici. L’unità dell’idea è soggettività, pensiero, infinità, e perciò da distinguere essenzialmente dall’idea come sostanza; allo stesso modo che questa soggettività soverchiante, questo pensiero, questa infinità è da distinguere dalla soggettività unilaterale, dal pensiero unilaterale, dall’infinità unilaterale, alla quale essa, col giudicare e col definire, si abbassa. Se questa idea rimane un giudicare attraverso il sillogismo formale… cosa intende quando soggettività unilaterale? Che non tiene conto del lavoro dialettico. Unilaterale, cioè, vede un lato solo della cosa, non vede l’altro aspetto, cioè non vede il ritorno su di sé dell’opponente, e, quindi, il suo giudicare, il suo definire, si abbassa. Ché è poca cosa rispetto a ciò che è in realtà. A pag. 202. Il vivente è il sillogismo, i cui momenti stessi sono sistemi e sillogismi in sé; i quali però sono sillogismi attivi e processi, e nell’unità soggettiva del vivente sono solo un unico processo. Che è esattamente ciò che dice del sillogismo; sillogismo che è fatto di questo movimento di altri sillogismi, ma il movimento di questi tre sillogismi (deduttivo, induttivo e analogico) formano una unità, un unico processo, che è il sillogismo compiuto. A pag. 203. Il giudizio del concetto prosegue, come libero, a scacciar da sé l’oggettivo, come attività indipendente; e la relazione negativa del vivente verso di sé forma, come individualità immediata, il presupposto di una natura inorganica, che sta a lui di fronte. È esattamente quello che vi dicevo prima, detto in un altro modo ancora. Poiché questo negativo è egualmente momento concettuale del vivente stesso, esso sta in questo, che è insieme universale concreto, come una deficienza. Scacciar da sé l’oggettivo, come attività indipendente vuol dire che bisogna farla diventare un’attività dipendente da me. Ecco la tecnica, che vuole impadronirsi dell’oggetto, che io stesso ho creato, ma immaginandolo a questo punto fuori di me. Lo immagino fuori di me perché sono travolto da questa cosa che mi impedisce di vedere di che cosa è veramente fatto il mio giudizio.