19-8-2015
La questione del potere per Nietzsche è prioritaria su qualunque cosa, la “volontà di potenza” è l’Essere, e quindi l’uomo, e quindi la vita stessa. Ponendosi come prioritaria su qualunque cosa, qualunque cosa accada agli umani è una conseguenza della volontà di potenza necessariamente, e non c’è altro all’infuori di questo, è ciò che rende gli umani tali. Nietzsche non aveva gli strumenti per porre la domanda in termini ancora più radicali, e cioè perché la volontà di potenza? A che scopo? In effetti Nietzsche non poteva rispondere in modo adeguato a questa domanda, occorreva una riflessione su ciò che rende gli umani tali, e cioè muovere da una considerazione ancora più essenziale e cioè che gli umani sono parlanti, e trarre da questo tutte le implicazioni. Ciò che dicevamo la volta scorsa è importante, perché queste notazioni di Heidegger prese da Nietzsche intorno al principio di non contraddizione rimettono in gioco e in questione una domanda antica, che è sempre la stessa da quasi tre mila anni a questa parte, e cioè la domanda che pose per primo in modo originario Parmenide cioè la domanda sull’Essere, ponendo che ciò che è non può essere ciò che non è; dicendo questa semplicissima banalissima cosa ha innescato praticamente tutto il pensiero occidentale, poiché da quel momento tutti hanno dovuto fare i conti con questo. L’Essere e il divenire, l’Uno e i molti, la stabilità e il movimento, tutto il pensiero ha dovuto lavorare su questo, e le domande più radicali che si è poste sono sempre state intorno a questa questione posta da Parmenide, potremmo addirittura dire che non si è andati oltre a questa questione. Ci sono state molte articolazioni, molte riflessioni ma non soluzioni, la questione non ha soluzione e vedremo adesso alcune cose con le quasi si cimenta Nietzsche proprio a questo riguardo, cioè come risolvere il problema dell’Essere e del Divenire. Come Severino ha notato in modo molto preciso e molto rigoroso, le cose o sono o divengono, se divengono allora non sono, e se non sono allora sono nulla per cui il divenire è nulla, c’è solo l’Essere, l’Eterno. Questa in tre parole la teoria di Severino. Però vediamo cosa ci dice invece Nietzsche, abbiamo saltato molte cose adesso andiamo un pochino a ritroso cercando di precisare alcune cose, qui si interroga su una nozione che è importante anche perché è stata ripresa da molti, la questione della “prassi” cioè dell’agire, del fare, è Heidegger che ne parla: pensata in senso originario “prassi” non significa attività come realizzazione, piuttosto una tale attività è fondata nell’atto del vivere stesso, “atto” nel senso della vitalità della vita, bisogno pratico vuol dire ora avere bisogno e necessità di ciò che è insito nell’essenza della prassi come atto del vivere. (ecco qui per Nietzsche la “prassi” non è altro che la vita, il vivere) Il vivente per la sua vitalità (cioè per potere continuare a vivere) e in base a essa necessita come prima cosa di ciò che è importante per lui in quanto vivente, e cioè di vivere, di essere, di non soggiacere secondo quanto detto in precedenza al travolgimento del proprio carattere di caos ma di installarvisi e starvi (il caos, sta cerando di porre un modo per illustrare come è possibile che ci sia stabilità ma anche divenire) tale stare nel travolgimento significa stare in opposizione all’impeto (quello del divenire) portarlo in qualche modo a stare non però in modo che la vita stia ferma e cessi, ma in modo che sia assicurata la sua sussistenza proprio in quanto vivente, la prassi come atto del vivere è in sé assicurazione della sussistenza (quindi vedete che c’è già un’idea di un qualche cosa che deve stare, che deve essere quello che è, questo nel divenire, nell’impeto delle emozioni, delle sensazioni eccetera qualcosa comunque deve stare) poiché questa assicurazione è possibile soltanto mediante uno stabilizzare e un fissare il caos (caos: movimento incessante e inarrestabile) la prassi in quanto assicurazione della sussistenza richiede la trasposizione di ciò che incalza qualcosa che sta nelle figure, negli schemi, la prassi è in sé in quanto assicurazione della sussistenza un bisogno di schemi, (comincia a dire ciò di cui gli umani hanno bisogno per vivere. Noi potremmo dire in modo forse più appropriato per potere continuare a parlare) bisogno pratico pensato in termini metafisici vuol dire quel mirare a formare schemi, che rende possibile l’assicurazione della sussistenza in breve “bisogno di schemi”. Il bisogno di schemi è già un mirare a qualcosa che fissi e quindi delimiti, ciò che delimita si dice in greco “to ορίζωn”, dell’essenza del vivente nella sua vitalità, della assicurazione della sussistenza nel modo del bisogno di schemi fa parte un “orizzonte”, questo non è quindi un confine che capita al vivente dall’esterno e contro il quale l’attività della vita va a sbattere e si sciupa, no, la formazione di orizzonte fa parte dell’intima essenza del vivente stesso, qui “orizzonte” vuol dire dapprima solo questo “delimitazione dell’atto del vivere che si dispiega entro la cerchia della stabilizzazione di ciò che impelle, incalza” (quindi questo orizzonte è imporre un limite a qualcosa che di per sé non vale più di tanto) ora la vitalità di un vivente non cessa a causa di questa cerchia delimitante, ma da essa prende costantemente avvio, gli schemi assumono la formazione dell’orizzonte (sta dicendo che questo orizzonte delimita e delimitando sta, quindi sta incominciando a dire che occorre che ci sia qualche cosa di fermo in questo caos, caos non è altro che l’effetto del divenire incessante e inarrestabile, il caos potete intenderlo come la “semiosi” infinita che rende impossibile lo stare di qualunque cosa). Il caos a sua volta in quanto impeto travolgente del vivente rende necessaria per la sussistenza dell’essere vivente l’assicurazione prospettica della sua sussistenza (“prospettica” significa qui per Heidegger “avere di mira qualche cosa” una prospettiva) Il bisogno di schematizzare è in sé: mirare allo stabile e alla sua fissabilità cioè alla sua percepibilità questo bisogno pratico è la ragione (cioè mirare a qualcosa di stabile in vista, mirando alla sua “percepibilità” cioè alla conoscenza, questo è il bisogno pratico e questa, dice lui, è la ragione “Vernunft” in tedesco) Essendo considerato il “conoscere” fin dai tempi antichi un porre dinnanzi (vor stellen) anche nel concetto nietzscheano della “conoscenza” verrà mantenuta questa essenza del conoscere (quindi un “porre innanzi” “vor stellen” “stellen” “stare”) ma l’accento del porre dinnanzi si sposta sul “porre dinnanzi” “portare dinnanzi a sé in quanto porre”, nel senso del porre stabilmente, dello stabilire cioè del fissare, il presentare nell’impianto di una forma “ge-stellen” (“ge stellen” l’avevamo già visto tempo fa in Heidegger, è l’impianto, sarebbe anche il dispositivo, il marchingegno che serve a qualche cosa, che in quanto tale è stabile, serve a fare altre cose) per questo il conoscere non è riconoscere cioè riprodurre in immagini, il conoscere è in quanto è un assegnare un posto nello stabile un sussumere e uno schematizzare. // “Nella formazione della ragione della logica delle categorie è stato determinante il bisogno, il bisogno non di conoscere ma di sussumere, di schematizzare al fine dell’intesa del calcolo” (questo era Nietzsche che parlava, ora torna a parlare Heidegger) Questa proposizione non contiene una spiegazione darwinistica della genesi della facoltà della ragione ma descrive ciò in cui Nietzsche vede l’essenza della ragione e del conoscere cioè la prassi come atto del vivere, come atto che fa durare fino in fondo il vivente in una stabilità portando qualcosa di fissato ad essere presente ma ciò che è fisso si chiama, nel senso della tradizione, l’ “ente”. Rappresentare, pensare razionalmente l’ente è la prassi della vita originaria assicurazione della propria sussistenza. Il portare a stare gli oggetti e l’afferrarli saldamente rappresentandoli cioè la formazione di concetti non è una remota occupazione superficiale di un intelletto teoretico, non è nulla di estraneo alla vita ma la legge fondamentale dell’atto della vita umana in quanto tale (sta dicendo che fissare l’ente, stabilirlo è non solo la base della conoscenza, ma è qualche cosa di più, è il bisogno degli umani, ma per che cosa? Nietzsche dice) “L’adattare, l’escogitare il simile, l’uguale, lo stesso processo che ogni impressione sensoriale percorre è lo sviluppo della ragione (quindi un adattare, un escogitare, un calcolare diceva prima, infatti dice subito dopo Heidegger) La ragione consiste nell’adattare e nell’escogitare l’uguale. (Escogitare l’uguale, badate bene quello che sta dicendo non è una questione secondaria, sta incominciando a dire che questo “uguale” cioè l’identità è qualcosa che si escogita, che poi come abbiamo visto la volta scorsa è un’invenzione, è un avere fede che sia così, un escogitare un modo perché l’ente sia quello che è per poterlo usare, ecco lui dice, parlava prima dell’albero questo porre l’albero come lo stesso albero) è in un certo modo un porre qualcosa che non c’è e precisamente nel senso di qualcosa che si trovi lì davanti (questo richiama il Sofista di Platone quando Teeteto chiede allo straniero, al sofista, se vede un certo albero, e il sofista “tu parlamene e dopo che me ne avrai parlato saprò se anch’io vedo quell’albero”, per questo Heidegger dice “è in un certo modo porre qualcosa che non c’è” nel senso di qualcosa che si trovi lì davanti, questa è l’ingenuità del pensiero comune) Questo porre un uguale (cioè l’albero identico a sé) è perciò un inventare ed escogitare, per pensare e determinare l’albero nel suo apparire dato di volta in volta, deve prima essere inventata la sua identicità, questo libero porre anticipatamente qualche cosa di identico cioè una identità, questo carattere inventivo è l’essenza della ragione e del pensiero, per questo prima di pensare il senso comune del termine bisogna sempre inventare (soltanto dopo che uno si è inventato che una certa cosa è quella che è, è identica a sé, può parlare di quella cosa, può dire che quella cosa è quella cosa. Qui si potrebbe anche porre qualche obiezione in effetti se pensiamo a Wittgenstein, Heidegger dice “qualcosa che ha inventato” sì ma l’ha inventata lui? Sì e no, perché questa cosa l’ha imparata, quindi altri prima di lui l’hanno inventata però il fatto che lui la stia praticando in quel momento comporta anche da parte sua un’invenzione perché non possiamo in nessun modo dire se ciò che sta usando lui, il modo in cui sta usando una cosa, una parola è la stessa cosa di un’altra persona, quindi c’è comunque potremmo dire dell’invenzione in ogni caso anche se l’ha imparato che questa è una matita quello che è, questo lo ho imparato non l’ho inventato ex nihilo …
Intervento: da quanto ho capito Nietzsche parla di stabilità e dice che non c’è il divenire, o no?
No, dice che il divenire è il fondamento di tutto però deve comunque trovare il modo di “salvare” per così dire qualcosa di stabile all’interno del divenire, se fosse tutto divenire sarebbe il caos assoluto però per Nietzsche il divenire è l’essenza delle cose, le cose divengono. Occorre tenere conto che, e su questo anche Heidegger ha insistito abbastanza, che la volontà di potenza cioè il divenire, o la volontà di divenire, prende le mosse, a suo fondamento, la sua ragione, per così dire, nell’eterno ritorno dell’uguale e cioè nell’attimo che è quello che torna sempre in quanto se stesso, in quanto attimo, in quanto cioè quell’elemento che sarebbe, nell’esempio che faceva Nietzsche, la risultante dell’infinito passato e dell’infinito futuro che si incontrano in questo attimo. Questo attimo per usare il termine di Severino è eterno, eterno che si ripete in ogni attimo praticamente, ma è perché c’è questo elemento che è stabile questo attimo che è possibile il divenire, senza questo elemento non c’è divenire, muove da nulla, ora prosegue qui sempre Heidegger) Il “sensibile” (vi ricordate che il rovesciamento che opera Nietzsche rispetto a Platone è quello di porre il “sensibile” come ciò che è veramente, ciò con cui gli umani hanno a che fare, l’“ultrasensibile” invece è di secondaria importanza, è ciò che gli umani si sono inventati per dare una consistenza al “sensibile”, questo è il rovesciamento, perché per Platone c’è il sensibile e poi aldilà c’è l’idea) il sensibile ci incalza e ci assale in quanto siamo esseri viventi razionali tanto che senza un’ “intenzione” di volta in volta messa esplicitamente in atto, abbiamo già sempre mirato a rendere uguale, perché solo l’uguale offre la garanzia dell’identico e perché solo l’identico pone al sicuro ciò che è stabile, e la stabilizzazione è l’atto dell’assicurazione della sussistenza, di conseguenza già le sensazioni stesse costituiscono la ressa che impelle più da vicino sono una molteplicità escogitata, le categorie della ragione sono orizzonti dell’escogitazione, la quale soltanto concede a ciò che si presenta quel posto libero dal quale e stando nel quale esso può apparire come un che di stabile, come stante di fronte, come oggetto (Gegenstand) (questo è rilevante perché sta sempre di più precisando la questione, dicendo che il sensibile sì incalza continuamente, ininterrottamente, però senza un’intenzione, senza mirare a qualche cosa, ci sarebbe soltanto l’identico, l’identico che è stato fissato, però perché solo l’uguale offra la garanzia dell’identico e perché solo l’identico pone al sicuro ciò che è stabile e la stabilizzazione è ciò che rende possibile la sussistenza, questo non toglie ciò che impelle, non lo toglie per nulla, e “le categorie della ragione” sono soltanto, dice, degli orizzonti escogitati, che servono appunto a fermare qualche cosa che non si ferma, che è travolgente, che è il divenire appunto. Questo è Nietzsche che parla) “La finalità nella ragione è un effetto, non una causa” (se dice che la finalità è un effetto vuole dire che questa “finalità” è qualcosa di escogitato per potere mantenere una sussistenza, per potere continuare a dire, per potere continuare a parlare, potremmo dire in modo più preciso) Nietzsche dice ancora “la finalità è un effetto non una causa” (ecco qui lo riprende Heidegger) anche qui abbiamo la abbreviazione frequente in Nietzsche di una riflessione in sé ricca ed essenziale, Nietzsche non pensa a negare quanto ha appena illustrato (cioè che il fine che è rappresentato già prima in quanto pre-posto, ha il carattere di ciò che dà indicazioni ed in tal modo è causa, come si intende generalmente il “fine”) ciò che tuttavia egli vuole anzitutto sottolineare è questo: il perché cosa e il per questo, rappresentati fin da prima sono scaturiti in quanto tali, in quanto ciò che fin da prima è fissato nel carattere inventivo della ragione dal mirare a qualcosa di stabile e dunque sono stati prodotti dalla ragione e per questo sono effetto (cioè sono effetto della ragione, dell’escogitare) la “finalità” è in quanto categoria qualcosa di inventato e perciò di effettuato se non che questo qualcosa di inventato, questa categoria “fine” ha un carattere di orizzonte tale da dare indicazioni per la produzione di altre cose, quindi causa la produzione di altre cose come “effetto” proprio poiché la “finalità” in quanto specie di causa è categoria, essa è effetto nel senso di uno schema escogitato (questo mirare a qualche cosa pare in Nietzsche come la volontà di potenza, il divenire, il divenire che vuole che cosa? Sempre maggiore potenza, un superpotenziamento, che è la vita stessa, è ciò di cui sono fatti gli umani, quindi il “mirare a qualche cosa” comporta tanto il divenire come un muoversi verso qualche cosa, ma anche fissare un obiettivo, fissarlo quindi renderlo stabile. Sta descrivendo in effetti il modo in cui funziona il linguaggio, il linguaggio produce delle sequenze che hanno un obiettivo: arrivano a stabilire, a una conclusione, si chiama “conclusione”, nel discorso e cioè affermare qualche cosa, ma questo affermare qualche cosa ha un unico scopo e cioè da lì ripartire per produrre altre cose, appunto come ci dice giustamente Nietzsche) /…/ Nietzsche tacitamente pensa così: ogni pensare in categorie, ogni pre-pensare in schemi cioè secondo regole è prospettico, condizionato dall’essenza della vita quindi è tale anche il pensare secondo le regole del pensiero cioè secondo il principio di non contraddizione. L’indicazione vincolante cioè la necessità logica contenuta in questo assioma ha lo stesso carattere di tutto ciò che è regola e schema, seguendo il filo conduttore della notazione cioè della meditazione sull’essenza degli schemi, sulla preventiva regolamentazione del pensiero in generale Nietzsche non giunge improvvisamente e immediatamente alla regola fondamentale alla quale tutto il conoscere sottostà (il principio primo) egli incomincia indicando situazioni nella quali il ruolo del principio di non contraddizione come regola diventa particolarmente chiaro, Nietzsche vuol dire ci sono casi in cui non possiamo contraddire vale a dire casi in cui non possiamo rimetterci a una contraddizione ma dobbiamo necessariamente evitare la contraddizione, in questi casi non possiamo affermare e negare la stessa cosa, siamo costretti a fare o una cosa o l’altra, possiamo sì, affermare e negare la stessa cosa ma non nello stesso tempo e sotto lo stesso riguardo, in questo “non potere” domina una costrizione (appunto quella del principio di non contraddizione) ma si chiede: di che specie è? La costrizione all’una o all’altra cosa, dice Nietzsche, è un costrizione soggettiva, insita nelle fattezze del soggetto umano, è questa costrizione soggettiva a evitare la contraddizione per potere in generale pensare un oggetto è una costrizione “biologica” (“biologica” da intendere come la intende Nietzsche, infatti la mette tra virgolette e cioè come intende la vita, la vita è la volontà di potenza) Il principio di non contraddizione la regola che impone di evitare la contraddizione è la legge fondamentale della ragione e in tale legge quindi si esprime l’essenza della ragione, il principio di non contraddizione non dice tuttavia che in verità cioè in realtà cose contraddittorie non possono mai essere contemporaneamente reali, dice soltanto che l’uomo per ragioni biologiche è costretto a pensare così, in termini sommari l’uomo deve evitare la contraddizione per sfuggire alla confusione e al caos ovvero per padroneggiarli imponendo loro la forma dell’incontraddittorio cioè dell’unitario e del sempre identico eccetera (cioè sta dicendo che il principio di non contraddizione anche lui segue a questa necessità della vita per mantenere se stessa, nell’accezione di Nietzsche del concetto, e cioè della volontà di potenza, il principio di non contraddizione come dirà poi dopo, e come abbiamo visto la volta scorsa, è un’invenzione che serve a mantenere la sussistenza, serve a fissare qualche cosa cioè a potere dire che l’ente è quello che è, ma questo è un marchingegno, è un’invenzione e non ha nessuna ragione di essere al di fuori di questo)
Intervento: è un’istruzione …
Sì certo, parlerà di comandi in effetti. Vedete che ci stiamo avvicinando sempre di più alle questioni direi più radicali, nel senso che sono quelle domande, come dicevo appunto più radicali che generalmente non vengono poste, e non vengono poste per un motivo perché mettono o possono mettere in imbarazzo qualunque teoria. Qui Heidegger fa un esempio, sta parlando del caos) Atteniamoci da capo a un esempio corrente, supponiamo di entrare per la prima volta in quest’aula e constatare che su questa lavagna sono scritte lettere greche, in questa conoscenza come prima cosa non si presenta un caos ma vediamo la lavagna e i caratteri grafici, forse oramai non tutti sono in grado di stabilire che si tratta di caratteri greci ma anche in tal caso non siamo dinnanzi a un caos bensì a qualcosa di scritto e visibile che noi però non sappiamo leggere, certamente si concederà che il percepire e l’asserire immediati si riferiscono alla lavagna qui presente fatta in tale e tal modo e non a un caos, questa concezione corrisponde è vero alla realtà delle cose anticipa però già come decisa la domanda vera e propria “questa lavagna” cosa vuol dire ciò? Non è già dire la conoscenza compiuta, questa cosa in quanto lavagna? Dobbiamo avere già riconosciuto questa cosa come “lavagna”, che ne è di questa conoscenza? (la stessa domanda che si pone Wittgenstein, lui la risolve dicendo “l’ho imparato”, ho imparato che questa è una lavagna, Heidegger si pone la questione in modo più radicale) Le asserzioni sulla lavagna hanno già tutte il loro fondamento nel fatto che questa cosa è riconosciuta come lavagna, per riconoscere questa cosa come la lavagna, dobbiamo prima avere in generale fissato come “cosa” e non come un processo che sguscia via ciò che ci si presenta davanti (e qui torniamo alla questione del divenire, se fosse solo divenire sarebbe appunto qualcosa che sguscia via, sarebbe la semiosi infinita, quindi occorre fissare qualcosa, qualcosa è stato fissato, fermato) Ciò che prima in generale è preso come cosa, questo che ci si presenta davanti in cui ci imbattiamo e ci colpisce e ci riguarda dobbiamo averlo percepito in questo primo incontro (e cioè che questo qualcosa è qualcosa) qui ci si presenta davanti qualcosa di nero, di grigio, bianco, marrone, duro, ruvido che risuona se percosso, esteso con una superficie piana, mobile dunque una molteplicità di dati, ma tutto questo è il dato, e ciò che si dà, non è già anche qualcosa di preso, di assunto, già mediante le parole nero, grigio eccetera, eccetera? Non dobbiamo forse ritirare anche questo nostro assalire ciò che ci si presenta mediante la parola nella quale lo abbiamo fissato per avere, per lasciare che si presenti allo stato puro ciò che si presenta davanti? (per potere ciò che ci si presenta davanti dobbiamo già sapere intanto che questa cosa è una cosa, e questo non va da sé) Ciò che si presenta, si può mai dire ancora qualcosa? O non incomincia qui la regione di ciò che non va più detto di quella rinuncia dove non si può più o non si può ancora decidere su essente non essente è niente? Oppure anche di fronte a questo alcunché che ci si presenta davanti non si è ancora rinunciato alla parola che lo nomina ma non lo si è denominato esso stesso bensì designato secondo ciò mediante cui ci viene portato mediante la vista, l’udito, l’olfatto eccetera, si suole chiamare ciò che è dato la molteplicità delle sensazioni, Kant parla addirittura della ressa delle sensazioni intendendo dunque esattamente il caos, lo scompiglio ciò che non solo nell’attimo della percezione di questa lavagna ma continuamente ovunque ci incalza in modo apparentemente più esatto si dice: non incalza noi ma io nostro corpo, ci tiene occupati, ci tocca, ci sommerge, ci mette sottosopra, infatti contemporaneamente e insieme ai dati dei sensi detti e così detti “esterni” urgono e aizzano, spingono e tirano, attraggono, rigettano, travolgono e sorreggono le sensazioni del senso interno che in modo di nuovo apparentemente più esatto vengono accertati come stati corporali (adesso lui parla di stati corporali o di sensazioni o di emozioni eccetera però è un modo in effetti per porre una questione che è la stessa con la quale ha esordito Freud, cioè noi vediamo sì qualche cosa ma mentre vediamo qualche cosa, ci poniamo di fronte a qualche cosa, esiste una ressa di pensieri, di immagini, di fantasie direbbe Freud, inarrestabile). Se dunque azzardiamo solo pochi passi nella direzione indicata, risalendo dietro ciò che appare così innocuo, pacifico e definitivo come oggetto, per esempio questa lavagna o altre cose ci imbattiamo già nella ressa delle sensazioni cioè nel caos, (nell’impossibilità di fermare qualche cosa perché come penso o cerco di fermare qualche cosa, questo qualche cosa è già travolto per esempio dall’intenzione stessa di fermarlo, e lo altera) è la cosa più vicina ed è tanto vicina che non sta neppure vicino a noi in un di fronte ma che siamo noi stessi a essere in quanto esseri corporei, forse questo corpo così com’è in carne e ossa è la cosa più certa in noi, più certa dell’anima e dello spirito.(È chiaro che lui mette sempre davanti il sensibile cioè il corpo, non lo spirito e “porsi di fronte all’oggetto” dice Heidegger in modo interessante ci coinvolge al punto tale che c’è qualche cosa in noi che partecipa di ciò che abbiamo di fronte negando in questo modo assolutamente per esempio il positivismo che immagina il soggetto e di là l’oggetto, poi con Cartesio l’oggetto è tale perché c’è un soggetto che lo esperisce ma rimane sempre una distinzione netta che con Freud invece incomincia a scomparire. Per questo la nozione di “soggetto” incomincia a venire messa in discussione poi sempre di più, poi in modo definitivo dalla semiotica e dalla psicanalisi. Porre domande radicali come fa Nietzsche, e soprattutto Heidegger, comporta un qualche cosa per cui dopo non è più come prima, nel senso che è come se imponesse di pensare in un modo differente, cioè impone di non soffermarsi più in nessun modo su ciò che appare, ma di interrogarsi su ciò che sta accadendo mentre non solo qualcosa appare, ma mentre qualcosa appare di fronte a me. Tutte queste cose sono connesse fra loro, poi lo vedremo ancora meglio quando vedremo Greimas, ma qui c’è già una buona indicazione del fatto che tutto questo poi costituisca il fondamento di ciò che per Nietzsche è la volontà di potenza, perché tutte queste cose che sta dicendo mirano in effetti alla volontà di potenza cioè allo stabilire sempre con maggiore forza e certezza questa istanza che Nietzsche ha posta per primo in questi termini, e cioè come qualcosa di necessario. La volontà di potenza è ciò che comporta tanto il divenire, quanto lo stare, ché la volontà di potenza vuole la propria assicurazione, dice Nietzsche, quindi fermare qualche cosa su cui contare, infatti parla di calcolo, qualcosa su cui contare e su cui costruire altro ma al tempo stesso la volontà di potenza è volontà di superpotenziamento: una volta stabilito ciò che sta, aumentare la potenza muovendosi verso un’altra cosa che è posta come qualcosa che sta, ma più avanti. Questo movimento è un movimento che Heidegger riconosce come metafisico, perché questo rovesciamento che fa Nietzsche rispetto a Platone per Heidegger mantiene comunque sempre queste due istanze, cioè il sensibile e l’ultrasensibile, semplicemente scambia le due cose, anziché l’ultrasensibile, come l’idea, l’Essere delle cose che sta di sopra, qui l’Essere delle cose diventa l’ente cioè il sensibile e l’Essere non è altro che l’ente sensibile, cioè questo ente che è lo stesso uomo, che essendo preso nella volontà di potenza deve necessariamente, questo non può non farlo anche se come dicevo all’inizio Nietzsche non dice perché esattamente perché non può farlo e cioè deve necessariamente stabilire qualche cosa ma al tempo stesso non può, una volta stabilito qualche cosa, non muoversi verso un’altra direzione, verso un’altra finalità, verso un altro scopo. Produrre dei mezzi in vista di un fine è esattamente quello che fa la tecnica, quindi il pensiero di Nietzsche appare non uscire fuori dalla tecnica, e in effetti la volontà di potenza è la tecnica, è il linguaggio, è la metafisica, “linguaggio, volontà di potenza, metafisica” sono lo stesso per un verso, lo stesso nel senso che la struttura di cui sono fatte è tale per cui necessariamente una volta stabilito come dice Nietzsche qualcosa che sta, si muove verso un fine, che cosa dice la tecnica? Che è necessario costruire dei fini in vista dei mezzi che si utilizzano, e il linguaggio funziona proprio così, e cioè costruisce sequenze in vista di altre sequenze: qual è l’obiettivo del linguaggio? Costruire sequenze in vista di altre sequenze. Pensate alla nozione di segno, il segno su cui si regge tutta la semiotica è un rinvio da una cosa a un’altra, ed è quest’altra cosa che dà un senso alla prima e così via all’infinito. In questo percorso infinito Nietzsche aveva visto chiaramente che è il caos, che non c’è nessuna possibilità di arrestare qualcosa, per cui invece se qualche cosa deve stare allora non può stare di per sé, occorre escogitare un qualcosa che lo faccia stare, un’invenzione e cioè come dirà più avanti un comando che dice che questa cosa è quella che è. Intervento: non è anche un modo per dare una direzione al divenire quello di fermare qualcosa?
Spesso non c’è una distinzione così netta tra volontà di potenza e divenire molto spesso per Nietzsche sono la stessa cosa cioè il divenire è la volontà di potenza così come l’escogitare un fine, un obiettivo, entrambe appartengono alla volontà di potenza. Per Nietzsche è la vita che impone cioè la volontà di potenza lui non va oltre questo cioè “a imporre questo” cioè al proseguire: raggiunto un obiettivo devo comunque stabilizzare quello che ho ottenuto e per mantenere questa sussistenza, deve trovare altre cose necessariamente.