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19 luglio 2023

 

I concetti fondamentali della filosofia aristotelica di M. Heidegger

 

C’è una questione di cui forse parlavamo la volta scorsa, riguarda due direttrici fondamentali che hanno improntato tutto il pensiero filosofico e, di conseguenza, il pensiero comune, vale a dire, il platonismo e l’aristotelismo. Tutti i filosofi hanno seguito una certa direzione, o aristotelica o platonica, ma con un dettaglio interessante. Come sappiamo, l’aristotelismo ha avuto successo nel Basso Medioevo dopo Anselmo, ma dopo che cosa è accaduto? È accaduto che l’aristotelismo non è più stato ripreso. Tutto il pensiero che è seguito, dalla fine del Medioevo, quindi dal Rinascimento, è sempre stato platonico. In che modo il platonismo si distingue dall’aristotelismo? Per una questione molto semplice: il platonismo considera di partire da qualcosa che è quella che è per virtù propria; l’aristotelismo muove da qualcosa che è quello che è per altro. Il platonismo ha avuto ed ha tuttora un grande successo perché è un pensare teorico; la teoria è platonica perché muove da qualcosa che si ritiene essere quello che è per virtù propria, dopodiché si raccontano storie intorno alle varie implicazioni, ecc. La teoria non interroga mai le condizioni necessarie per potere affermare ciò che afferma. Questo lo fa il pensiero teoretico, lo fa Aristotele. Questa è un’ipotesi ovviamente, ma l’aristotelismo, così come ce lo ha illustrato e mostrato Heidegger, ha a che fare con il pensiero teoretico, che è quello più difficile perché interroga le condizioni stesse di interrogabilità di qualunque cosa e, quindi, non dà nessuna certezza. Pensate ad Aristotele, alle sue categorie, per esempio. Le categorie sono ciò che si dice, sono i predicati. Quindi, c’è l’ούσία, la sostanza, che è il qualcosa da cui si parte. Questo qualcosa, che cos’è? È ciò che se ne dice. Aristotele ha individuato alcuni modi principali, le sue categorie, appunto: la quantità, la qualità, la relazione, il tempo, il luogo, ecc. Ma qualcosa esiste in relazione a ciò che se ne dice. E già lì si vede che il qualche cosa, da cui si parte, esiste in relazione ad altro. Per Platone no, esiste per sé ed è causa sui. Per questo è comodo per una teoria, perché una teoria non mette mai in discussione i propri fondamenti, ciò che regge tutto. Invece Aristotele ha detto delle cose incredibili, alle quali nessuno prima di Heidegger ha posto l’attenzione, e cioè questo insistere di Aristotele sul fatto che ciascuna cosa è quella che è in relazione ad altro. Soltanto essendo in relazione ad altro è quella che è, sennò non è. Per Platone è e basta, è così. Questo potrebbe essere interessante dal momento che, come dicevo all’inizio, tutto il pensiero che è seguito dal Medioevo fino ad oggi è fondamentalmente platonico, cioè si è fatta teoria ma non si è più fatta teoresi, tranne rarissime eccezioni, come Hegel o lo stesso Heidegger. Tutto il pensiero, basti pensare all’empirismo che ha avuto un grandissimo seguito… L’empirismo muove dall’idea che la percezione colga le cose come stanno, come sono, e questo è platonismo. Non c’è nessuna interrogazione sulla percezione: la percezione percepisce davvero? Cosa, ammesso che ci sia, percepisce? È data per acquisita: percepisco e basta. In fondo, anche il movimento, di cui sta parlando qui Heidegger leggendo Aristotele, ha avuto la stessa sorte: nessuno si è interrogato sul movimento in quanto tale, ci si è interrogati sulla misurabilità del movimento. Aristotele, invece, coglie il movimento non nella successione di punti ma nel λόγος, è lì che lo trova. Come sappiamo, lui pone tre momenti: δύναμις, ἐνέργεια e έντελέχειᾳ. In questi tre momenti Aristotele ci mostra l’autentico movimento, arrivando a dire che il movimento non è nient’altro che relazione, l’essere qualcosa necessariamente in relazione con qualche cos’altro. A pag. 326. Qui si pone la questione del δύναμει, il poter essere qualcosa. Per Aristotele emerge ora la questione: come va inteso ciò che abbiamo chiamato δύναμει, ciò a partire da cui qualcosa muta repentinamente in qualcos’altro – come lo si può concepire in quanto contribuente a costituire l’essere di ciò che ne deriva? Quando il legno muta repentinamente nell’esserci del cofanetto, in che modo il legno, l’essere-legno, contribuisce a costituire l’essere dell’esserci del cofanetto? A questa domanda né Platone né alcuno degli antichi era in grado di dare risposta, poiché il terreno non era sicuro. Aristotele si chiede che cos’è ciò di cui diciamo che “ci” è. Il cofanetto non è il legno, la statua non è il bronzo. Il cofanetto non è il legno nel senso del τόδε τί (questo qui). Platone dice: il cofanetto ha legno; legno è un’idea, dunque il cofanetto ha parte al legno. Il cofanetto non è legno, nella misura in cui al suo essere-qualcosa ci si rivolge come a un “essere attualmente presente”, un “avere questo e quell’aspetto”. Il cofanetto non è τόδεNon è questo, non è legno, ciò di cui è fatto. Il cofanetto non è legno, τόδε τί, non è legno e inoltre un cofanetto. L’essere di legno non si aggiunge. Vedete già come introduce la questione della relazione. Quando ci sono due elementi in relazione non è che uno si aggiunge all’altro, sono due momenti dello stesso. In relazione al legno il cofanetto non è έκεῖνο, bensì έκείνινον. Non è qualcosa che ha legno ma è qualcosa che è fatto di legno. Con έκείνινον si intende rinviare a qualcosa di più lontano: έκείνινον, “fatto di quello” – primariamente, nell’attualità più immediata, il cofanetto non è legno. “Il cofanetto non è legno, bensì è di legno”, è “fatto di quello”. L’“essere di legno” è un modo dell’esserci differente dall’“essere legno”. Il “di che cosa” dell’essere-fatto di un cofanetto, il “di che cosa” del suo consistere, non è lì presente esso stesso in se stesso, ἐνέργεια. ‘Ενέργεια è essere lì presente in se stesso, anche se non finito. È l’έντελέχειᾳ che sarà l’ultimo momento. L’attualità della sua presenza viene determinata dal suo essere presente sottomano, dal suo essere-cofanetto, in cui il “di che cosa” del suo consistere in questo modo peculiare è soppresso. Io vedo il cofanetto e non penso al legno, non dico cioè che questo è legno. Non dico che questo è vetro, dico che è un posacenere: è fatto di vetro, non è il vetro. Queste considerazioni sono fondamentali poiché forniscono una chiave importante per la concezione di un ente di cui diciamo che è un κινούμενον: κινούμενον, ὠς τό έκείνινον. Κινούμενον è l’ente in movimento, ma movimento in quanto ὠς τό έκείνινον, in quanto “fatto di qualcosa”. È questo il movimento: in quanto fatto di qualcosa. Il modo dell’esserci che fissiamo con l’asserzione del κινούμενον va sempre ontologicamente concepito in quanto έκείνινον. Sta dicendo che il κινούμενον, l’ente in movimento, potremmo generalizzare dicendo movimento, non è altro che έκείνινον, cioè l’essere fatto in un certo modo, l’essere fatto di qualche cosa. Si incomincia a vedere qui come l’essere in movimento sia in strettissima relazione con il suo essere un rinvio a qualche altra cosa. In ciò che è mosso è sempre anzitutto presente l’essente-mosso stesso; in termini corrispondenti, nell’esserci del cofanetto, non il legno, bensì il cofanetto stesso. Una pietra che cade, una pianta che cresce: nell’avere questo aspetto è in certo qual modo presente la κίνησις. Il cofanetto non è cofanetto e, oltre a ciò, legno; la pietra non è pietra e, oltre a ciò, movimento. Questa era la posizione di Platone. La pietra non ha parte al movimento, che è esso stesso un essere (Platone), poiché il movimento è nell’ente che “ci” è, nel senso che tale ente è caratterizzato in quanto έκείνινον: la pietra è mobile così come il cofanetto è ligneo. Invece la κίνησις non è, come il legno, un ente, non “ci” è nella modalità della ὕλη (materia). Ciò fornisce il filo conduttore fondamentale per il fatto che il fenomeno del movimento può essere messo a fuoco solo considerando l’essente-mosso. Non posso cioè considerare il movimento senza considerarlo come un movimento di qualcosa. Qui, di nuovo, la differenza con Platone, per il quale il movimento è un’idea, che poi si applica alle varie cose. Per Aristotele il movimento è sempre movimento di qualcosa. Sta dicendo in questo modo che non c’è il movimento in quanto tale, di per sé, ma il movimento è sempre relativo a… Poi arriverà a dire che il movimento è propriamente questo: l’essere relativo a… L’essere nel senso delle categorie. In effetti, ciascuna cosa è quella che è in virtù di un’altra. Il qualcosa, l’ούσία, la sostanza – che Heidegger traduce anche con essere, a seconda dei casi – è quella che è per via di qualche cos’altro, per via, per esempio, della sua quantità, della sua qualità, della sua relazione, ecc. Di questo ente, quindi, che può trovarsi in entrambe le condizioni, nella stabilità e nella δύναμις – “caratteri dell’esserci” della significatività –, Aristotele dice a questo punto: “Ora, a sua volta, d’altra parte, questo ente è un “questo qui”, o un “quanto”, o un “tale”, oppure, parimenti, un qualcosa d’altro relativo alle categorie dell’essere”. È sempre qualche cos’altro, “questo qui” è sempre qualche cos’altro. È come se dicesse che la cosa in quanto tale, nel determinarsi attraverso le categorie, dilegua. Vi faccio un esempio. Fredegiso di Tours, monaco vissuto nel IX secolo, scrisse un libello noto come De nihilo et tenebris, Del nulla e delle tenebre. Lui voleva determinare il nulla e non senza una certa meraviglia si accorse che per determinare il nulla devo porlo come qualcosa. Parlo del nulla, ma se ne parlo, parlo di qualcosa, quindi il nulla è qualcosa. Quindi, il nulla, essendo qualcosa, non è nulla, il nulla è dunque non-nulla, cioè non posso parlare del nulla. Quindi, quando parlo del nulla di che cosa parlo? Parlo di una rappresentazione, che rappresenta un qualcosa che non c’è. Questi caratteri sono definiti “categorie”. Colpisce peraltro il fatto che qui le categorie vengano introdotte semplicemente come ovvie. Nessuna discussione circa un sistema delle categorie! Ovunque negli scritti che ci sono stati tramandati il discorso cada su di esse, se ne parla in questo modo. Perciò le categorie di Aristotele sono state criticate come vuote: si è detto che egli non ha stabilito alcun principio della loro deduzione, che non ne possiede un numero preciso, che non svolge un lavoro impeccabile. Si è però evitato di chiedere che cosa siano, in senso proprio, le categorie stesse. Nelle considerazioni precedenti non è stato casuale, ovviamente, il fatto che, nell’interpretazione dell’esserci e del concettuale, si sia posto fin da principio l’accento sul λόγος: λόγος inteso come il modo dell’“essere nel mondo”… Anche qui bisogna leggere con un po’ di attenzione, perché dicendo il λόγος inteso come il modo dell’“essere nel mondo” ci sta dicendo che io sono nel mondo in quanto sono nel λόγος, in quanto parlo; senza λόγος non c’è neanche il mondo, non c’è niente. …nel senso che tale modo costituisce l’“essere svelato”, l’“essere scoperto”, l’“essere attualmente presente” del mondo. Solo il λόγος consente a qualcosa di essere presente. Ciò che qui viene definito con il termine “categoria” è definito tale mediante un’espressione legata da una profonda affinità con il λόγος, giacché tra κατηγορεῖν e λέγειν sussiste un’intima connessione. ‘Αγορεύειν non significa semplicemente “parlare di qualcosa”, “asserire”, bensì “parlare al mercato”, “parlare in pubblico”, là dove cioè si svolge l’“essere uno con l’altro”, dove chiunque lo capisce. Κατηγορεῖν significa: “Dire pubblicamente in faccia qualcosa a qualcuno”, dirgli che è questo e quest’altro, “accusarlo”, “incolparlo” di una determinata azione. Questo è ciò che significa κατηγορεῖν nell’accezione più antica del termine, forse la più autentica. La κατηγορία – da intendersi qui come κατηγορία τοῡ ὄντος – è un parlare che, per così dire, si rivolge all’ente guardandolo in faccia, nel senso che dice di esso che è questo e quest’altro, ossia che esso è. Questo è il modo di Heidegger che abbiamo imparato a conoscere: cercare di restituirci il senso delle parole greche nella loro accezione più antica, più autentica, quella da cui sono sorti i vari significati, le varie connotazioni.

Intervento: …

Platone interroga. Si dice, per esempio, che Socrate non facesse altro che domandare, ma domandava a partire da che cosa? Da cose che lui riteneva acquisite. Infatti, metteva continuamente in difficoltà il proprio interlocutore perché questi muoveva dalla chiacchiera e lui mostrava come la chiacchiera non avesse fondamento. Ma lui questo fondamento lo cercava, pensava che esistesse. Le categorie sono quindi i modi fondamentali in cui l’“ente che “ci” è” è lì scoperto in riferimento a determinate possibilità e modalità di esserci. Le categorie sono i modi in cui le cose si dicono. Ciò non significa che le categorie siano già esplicite per il parlare naturale, il λόγος della quotidianità; al contrario, ogni λέγειν, di fatto, si muove ed è guidato già entro determinate categorie. Esse non rappresentano un qualche genere di forma che posso far rientrare in un sistema, e non sono nemmeno principi di classificazione delle proposizioni: coerentemente con il significato del loro nome, esse vanno intese invece in base a ciò che il λόγος stesso è nel suo modo eccellente: ciò che costituisce l’essere-scoperto del mondo in modo tale che questo essere-scoperto mostri il mondo nelle sue prospettive fondamentali. Vedete come per Aristotele tutto si svolge nel λόγος, non nell’idea. È tutto nel λόγος, tutte queste cose che descrive accadono nel λόγος, nel λέγειν, nel dire, nel λεγόμενον, nel detto. In base alla preparazione della definizione, tramite il riferimento a diversi elementi dell’ente riguardo al suo essere, risulta già evidente che il movimento è un modo dell’esserci del mondo. Prima definizione di movimento: il movimento è modo dell’esserci del mondo, le cose sono in quanto sono in movimento. Tra poco dirà che solo per questo motivo sono comprensibili: perché c’è movimento, perché c’è rinvio, ogni cosa rinvia a un’altra, che è il suo significato. Heidegger usava termini come essere ed ente – gli stessi termini che usava anche Aristotele – ma potete pensare al significante e al significato: il significante è l’ente, l’immanente, l’essere è il suo significato. Infatti, parlare di essere dell’ente significa dire che cos’è l’ente, e che cos’è il significante? È il suo significato, è questo il che cos’è del significante. Se è così, il movimento diventerà il mezzo con il cui ausilio l’essere del mondo risulterà comprensibile in un senso definitivo. La comprensibilità viene da questo movimento, che non è altro che rinvio, il rinviare di qualcosa a qualche cos’altro per potere essere. In effetti, poiché il movimento è un modo dell’esserci dell’ente, ne deriva la possibilità di determinare compiutamente ciò che, in un senso totalmente usurato, intendiamo per “realtà”. Sta dicendo che, in effetti, la realtà non è altro che questo: il movimento che c’è nel λόγος, questo movimento di rinvio. Dice in un senso totalmente usurato perché con realtà oggi si intende tutt’altro, si intende la “dura realtà”, quella alla quale ciascuno deve sottostare. A dire il vero, ciò che viene designato con la parola “movimento” dovrebbe terminologicamente suonare κίνησια. In effetti anche Aristotele utilizza l’espressione άκίνησια = ήρεμία, “quiete”. Invece il termine κίνησια non risulta attestato nella sua opera, benché nella raccolta di frammento si dica che egli suddivide la κίνησια in questo e quel modo. Ai fini della comprensione oggettiva non bisogna dimenticare che con κίνησις si intende l’essere-mosso in quanto modo dell’essere. Se proviamo, come dicevo prima, a intendere l’essere come il significato, allora possiamo dire che il movimento non è altro che il modo del significare – se non c’è rinvio non significa niente. Rinviare è determinare e ogni determinazione è un rinvio a qualche cos’altro. Probabilmente dovremo riuscire a cogliere la spiegazione dell’essere dell’essere-mosso nel contesto dell’essere di cui abbiamo finora ripetutamente trattato. Le prime e fondamentali determinazioni – quelle su cui si basa la scoperta di Aristotele – sono le determinazioni έντελέχειᾳ e δύναμις. Cioè: la δύναμις, l’essere in relazione con qualcosa e l’έντελέχειᾳ, l’essere finito, compiuto, la relazione si è compiuta. Invece, l’ente che “ci” è in quanto attualmente presente viene spiegato in una diversa direzione, e questi modi dell’esserci del mondo vengono definiti da Aristotele “categorie”. Lui dice che viene spiegato in modo diverso. No, nel senso che parlando di δύναμις e έντελέχειᾳ lui già parla delle categorie, perché qualche cosa è in relazione a… ma questa relazione a… vuole dire che si riferisce a un altro termine, a un altro modo di dire, e i modi di dire sono le categorie. Abbiamo iniziato a mettere maggiormente a fuoco tali caratteri ontologici. Κατηγορία: una particolare specie del parlare. Le categorie sono modi del parlare mostrante implicitamente presenti in ogni λόγος concreto. Le categorie dicono come si parla, quali sono i modi in cui possiamo determinare qualcosa. Per determinare questo aggeggio posso farlo con la quantità, con la qualità, con il luogo, con il tempo, ecc. Λόγος in quanto λέγεινλόγος in quanto λεγόμενον. Λόγος in quanto dire e λόγος in quanto detto. Anche la κατηγορία va intesa in questo duplice significato. Per κατηγορίαι c’è anche l’espressione κατηγορήματα, dove l’altro lato del significato è esplicito. Per la precisione, le categorie sono modi del mostrare che si rivolge all’ente inteso come l’ente del mondo circostante: il mondo così com’è nella ζωή πρακτική (il vivere quotidiano). Le categorie sono i modi in cui determino qualcosa nel dire quotidiano, perché devo farlo, devo determinare qualcosa per poterlo usare. La ζωή πρακτική è μετά λόγου (avviene nel λόγος): in questo μετά λόγου sono contenuti i λόγοι eccellenti, le categorie. La ζωή πρακτική è, in quanto πρᾶξις (agire), un ente tale da avere di volta in volta la sua fine nel πρακτόν (agito)… Qui dice che è rivolta all’άγαθόν, al bene, ma il bene come lo intendevano gli antichi, come fine, come il compiuto. E, infatti, dice che l’άγαθόν è πέρας (limite) della πρᾶξις, l’άγαθόν κατά τόν καιρόν (bene di volta in volta efficace), “di volta in volta nella situazione particolare”. I λόγοι delle categorie sono quindi tali da rivolgersi all’ente del mondo circostante in riferimento alla possibilità del suo esserci, nella misura in cui questo esserci viene inteso in quanto mondo del prendersi cura. In altre parole: le categorie sono anzitutto i modi dell’esserci del mondo in quanto συμφέρον (utilizzabile). Le categorie sono i modi dell’esserci nel mondo in quanto utilizzabili, in quanto finiti. In precedenza abbiamo detto che le cose del mondo ci sono nel carattere dell’“essere utili per…”. È questo il modo in cui ci sono le cose, e cioè in quanto utilizzabili, non ci sono altri modi. Avremo modo di vedere che, in effetti, l’elemento dell’“utilizzabile per…” – in base al quale le categorie rinviano a qualcosa,… Qui già sottolinea che le categorie sono dei rinvii: il rinviare di qualcosa a qualche cos’altro perché il qualcosa sia qualcosa. …l’“a… per…” riferito all’ente il cui essere è espresso dalle categorie – è costitutivo,… L’essere per qualche cos’altro è costitutivo dell’ente, non è qualcosa che si aggiunge, che può esserci oppure no. …e lo è perché nell’esserci del mondo è implicita la determinazione ontologica del “da… a…”. Per determinarlo deve essere necessariamente in relazione a… Questo ente implica cioè la possibilità di subire una trasformazione, di passare da questo a quello, di mutare repentinamente. Comincia a vedere il movimento. L’ente subisce una trasformazione. Che tipo di trasformazione? Potremmo anche azzardare una risposta a questa domanda. Chi ci viene in aiuto qui? Eraclito con il suo famoso frammento n. 3: φύσις κρύπτεσθαι φιλεῖ, che non è “la natura ama nascondersi”, ma il qualcosa, ciò che sorge, sorgendo, dilegua, ed è questo il mutamento. Quindi, ciò che sorge, nel momento in cui sorge, dilegua, non è più.

Intervento: Verrebbe quasi da dire che Aristotele ha completato l’idea di Eraclito, perché ciò che sorge dobbiamo utilizzarlo, gli attribuiamo le categorie e non è più quello che è.

Esattamente. Questo nonostante Aristotele se la sia presa con gli eleati, con i presocratici, colpendo duramente Protagora, attribuendogli cose che non ha mai dette. Poiché, quindi, è l’άγαθόν stesso, in quanto πέρας (limite) della πρᾶξις (agire), a caratterizzare l’essere del mondo in quanto di volta in volta essente-ci in questo e quel modo, parlare di un άγαθόν καθόλου – un “bene assoluto” – non ha alcun senso. Tutto è riferito alla πρᾶξις, all’agire, al fare quotidiano, quindi, continuamente mutevole. Non solo il termine άγαθόν non significa qualcosa come “valore” (se se ne è compreso il senso autentico, non lo si può intendere come un essere ideale di valori e rapporti di valore)… Mentre il bene è sempre stato ritenuto il valore assoluto. …ma indica anzi un modo particolare dell’esserci di quell’ente con cui abbiamo a che fare direttamente nella πρᾶξις, orientato sul καιρός (momento opportuno). Καιρός è letteralmente il momento opportuno, quindi, è qualcosa che non può essere predefinito, si presenta come opportuno di volta in volta. Perciò è del tutto ovvio che Aristotele, nella discussione dell’άγαθόν καθόλου svolta nell’Etica Nicomachea (critica a Platone), si richiami alle categorie. Certo, perché le categorie sono i modi in cui le cose si dicono, e si dicono di volta in volta. Le categorie non hanno la caratteristica di essere delle cose definitive, definitorie, sono modi – questa è una mia estrapolazione– da accostare alla retorica, sono cioè modi di dire, modi più convenienti di dire qualcosa. La retorica ci aggiunge anche la necessità di persuadere qualcuno, ma anche le categorie, tutto sommato: quando determino qualcosa, questa determinazione, che io metto in atto, non è mai del tutto innocente. Dato che l’άγαθόν è una determinazione ontologica del mondo-ambiente, se davvero si vuole chiarire il carattere ontologico dell’άγαθόν bisogna necessariamente chiamare in causa, nelle categorie, il modo dell’essere del mondo che caratterizza primariamente il mondo come tale. Richiamandosi alle categorie, Aristotele dice: non v’è alcun άγαθόν καθόλου, l’άγαθόν è ciò che è sempre in quanto πρακτόν (pratica). Il πρακτόν è contraddistinto dalle categorie del τόδε τί (sostanza, qualcosa), del ποςόν (quantità), del πρός τί (in relazione a)/…/ Non vi è alcun bene che si libra sull’essere, nella misura in cui “bene” è la determinazione dell’esserci del mondo – del mondo con cui ho a che fare. L’άγαθόν καθόλου sarebbe quindi un bene che non ha assolutamente alcun essere. Perché se ha un essere questo essere ha a che fare con il πρακτόν, con l’agire pratico. L’essere è il modo in cui le cose si dicono. Tutta l’elaborazione intorno alle categorie potrebbe riassumersi in questo modo: l’essere è il modo in cui si dice qualcosa. Il ragionamento svolto da Aristotele nel libro I, capitolo 4, dell’Etica Nicomachea è il seguente: non v’è alcun bene in assoluto, dato che l’άγαθόν è πέρας (limite), il πέρας è πέρας della πρᾶξις, e la πρᾶξις è sempre “questa qui” in quanto essente di volta in volta. Nemmeno l’άγαθόν καθαύτό (bene in sé), che non ha il carattere dell’utilità, il “bene in sé” presso cui ci soffermiamo, può essere inteso in quanto l’άγαθόν καθόλου. Aristotele solleva qui un’obiezione a se stesso. Si potrebbe dire infatti: non vi è un άγαθόν καθόλου finché a essere presi in considerazione sono συμφέροντα (utilizzabili). Forse però le cose stanno diversamente nel caso degli άγαθα καθαύτά (beni per sé)… Qualcosa che è bene per sé. Ad esempio, come si dice oggi, la vita è un bene per sé, la vita è sacra, Deus vult. …ad esempio il φρόνεῖν, lo όρᾶν, ήδοναι τινες, τιμαί, ciò di cui ci preoccupiamo in vista di esso stesso. Aristotele si chiede: se questi sono in effetti άγαθα καθαύτά, ciò significa già che non vi è contenuto nient’altro che un’idea? Questi beni per se stessi non sono nient’altro che idee. Καθαύτά significa già καθόλου? Se così fosse, “l’aspetto sarebbe vuoto”. Se infatti l’άγαθόν καθαύτό fosse un essere in sé nel senso dell’idea, un γένος, un “universale”, allora per la πρᾶξις non vi sarebbe nulla di cui prendersi cura… Ciascuno si prende cura del suo agire per un “bene” – tra virgolette perché Aristotele lo intende in modo differente da noi. Se c’è un bene assoluto di che cosa devo preoccuparmi? C’è già, quindi non devo preoccuparmene. …mentre lo sguardo della πρᾶξις si dirige proprio verso l’“estremo”, l’σκατον, il καιρός, il “qui e ora”… Gli umani si occupano di questo, del qui e ora. …in queste e quest’altre circostanze: la πρᾶξις ha bisogno di qualcosa di determinato. Come dire che per agire abbiamo bisogno di cose determinate, finite. Il carattere ontologico dell’άγαθόν è orientato sul καιρός (momento opportuno), determinato dalla sua posizione. L’άγαθόν καθαύτό in quanto idea sarebbe vuoto, non avrebbe alcun εἶδος (forma). Aristotele, come si vede, contrappone in modo nettissimo ίδέα ed εἶδος. Che molto spesso sono sovrapposte; talvolta, anche εἶδος viene tradotto con idea. Con εἶδος egli intende il “presentarsi” di un ente del mondo qui e ora in quanto πρακτόν. Questo è l’εἶδος, la forma mi si mostra così com’è, qui e in questo momento. Se dunque l’άγαθόν è un’idea, allora il senso del suo essere è inadeguato proprio a quella πρᾶξις che ce l’ha come τέλος (fine). È inoltre evidente che i differenti άγαθά – la φρόνησις è άγαθόν in un senso differente dalla ήδονή – non si lasciano collocare in un γένος universale. È vero che il linguaggio possiede un certo κοινόν (comunanza), nel senso che si rivolge a enti differenti con lo stesso contenuto semantico, tuttavia il carattere semantico del κοινόν non è universale, non è γένος, bensì κατά άναλογίαν (secondo analogia). Questo è il carattere della comunanza semantica dei termini: l’analogia, non c’è mai nient’altro che questo. Quando si arriva al fondo si trova l’analogia. Oltre a ciò Aristotele non ci ha lasciato nulla sull’analogia. Dopo avere detto, anche se non esplicitamente, nella Metafisica che l’analogia è alla base di tutto, cioè, di quello che si pensa, si dice, che sembra, quello che i più, ciò che lἄριστος, il migliore, dice, quello è il vero e non dobbiamo indagare oltre. Heidegger dice che non ha più parlato dell’analogia. Lo si può anche capire, quella cosa gli procurava un certo fastidio. Nello stesso modo in cui descrive l’άγαθόν come una determinazione ontologica del mondo-ambiente, Aristotele determina dall’inizio anche l’essere dell’ente-mosso in riferimento al suo carattere ontologico. Qui ci sarebbe da fare una precisazione, non tanto su quello che dice qui Aristotele quanto sulla questione dell’ontologia. Sapete che ci sono la metafisica e l’ontologia: tradizionalmente in filosofia ci sono queste due istanze. La metafisica si occupa dell’ente, non di un ente in particolare ma dell’essere dell’ente, ci si chiede che cos’è l’ente, non questo ente ma l’ente: questa è la domanda fondamentale della metafisica. La metafisica ha in seguito estrapolato – difatti, l’ontologia sorge dopo la metafisica – un’altra domanda: parliamo dell’essere dell’ente, ma l’essere, lui in quanto tale, che cos’è? E questa è la domanda ontologica. Ma c’è l’essere in quanto tale? Qui Heidegger, con la sua differenza ontologica, pone quanto meno un’obiezione, cioè, certamente non c’è ente senza essere e viceversa, ma l’essere è sempre essere di un ente, non lo possiamo separare dall’ente. È un po’ come l’infinito e il finito: non li posso separare, se tolgo uno tolgo anche l’altro. Così come il significante e il significato, non li posso separare; li distinguo, certo, perché l’uno non è l’altro, l’ente non è l’essere. E su questo Heidegger ha lavorato molto con la sua differenza ontologica; anzi, ha sempre accusato la filosofia prima di lui di non essersi accorta di parlare di ente e non di essere, cioè, parlava di essere ma in realtà stava parlando dell’ente. Un po’ come Fredegiso di Tours che voleva parlare del nulla ma in realtà parlava di qualcosa. Anche la κίνησις non è un γένοςNon è qualcosa di originario, qualcosa che è di per sé. … “non è παρά τά πράγματα” (non è indirizzata alle cose). Per Aristotele non c’è un’origine delle cose. Le cose sono sempre in movimento, sono sempre in relazione l’una all’altra, per cui non è possibile stabilire un’origine. Cosa che riprenderà Peirce, duemila anni dopo, quando dirà, rispetto al segno, che non c’è un primo segno, il primo segno è già un secondo segno. Lo dice anche Aristotele: la δύναμις c’è in quanto c’è l’ἐνέργεια, è con l’ἐνέργεια che a ritroso si determina la δύναμις. La κίνησις non è un essere che sia accanto all’“ente in movimento”. Come l’άγαθόν determina espressamente per la πρᾶξις l’ente del mondo-ambiente nel suo esserci, così anche la κίνησις è una determinazione ontologica dell’ente del mondo, nella misura in cui esso è sempre questo determinato mondo. Quando Heidegger parla di determinazione ontologica dell’ente parla dell’essere dell’ente. …le possibilità dell’essere-mosso sono determinate primariamente dall’esserci caratteristico del mondo. È l’essere del mondo che è movimento. È questo il ruolo svolto dalle categorie nella preparazione della definizione della κίνησις. Che ancora non ha dato ma che darà nelle pagine successive. Prenderò ora in considerazione alcuni aspetti delle categorie. Aristotele una volta le identifica tout court come διαίρεσις (divisione). Διαίρεῖνin quanto determinazione del λέγειν: parlare di qualcosa operando una scomposizione. Parlando scelgo delle cose, alcune le accolgo e altre le elimino. Infatti, tra poco parlerà della στέρησις, della mancanza, privazione. Parlare è sempre un parlare avendo-lì qualcosa, è sempre un parlare di un ente che “ci” è. Questo modo del “parlare di” è caratterizzato dalla διαίρεσις. Ogni parlare di qualcosa è anzitutto un parlarne in quanto questo e quello, λέγειν τί κατά τίνός, “rivolgersi a qualcosa in quanto qualcosa”. In questo “in quanto qualcosa” l’ente che “ci” è passa dal non essere esplicato all’essere esplicato in una determinata prospettiva. Qui dobbiamo rizzare le orecchie. Dice che In questo “in quanto qualcosa” l’ente che “ci” è passa dal non essere esplicato all’essere esplicato. Questo ci prepara a ciò che tra poco dirà Aristotele rispetto ai tre momenti della δύναμις, dell’ἐνέργεια e dell’έντελέχειᾳ. I primi due, senza l’έντελέχειᾳ, non esistono, ed è esattamente ciò che sta dicendo qui: questo ente che c’è passa dal non essere esplicato – esplicato vuole dire non essere detto, non essere compreso, non essere determinato – all’essere determinato in una determinata prospettiva, e solo allora c’è. Identificando tout court le categorie come διαίρεσεις. Aristotele le intende come quel parlare che rende visibile l’esserci del mondo nelle possibilità fondamentali in cui esso può mostrarsi “in quanto” qualcosa. Qualcosa si mostra sempre in quanto qualcosa. È quando è qualcosa, cioè quando è determinato dalle categorie che allora è qualcosa.