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19 luglio 2017

 

M. Heidegger, Essere e Tempo 

 

Siamo a pag. 243, § 43, Esserci, mondità e realtà. Il problema del senso dell’essere è possibile, in generale, solo a patto che ci sia qualcosa come la comprensione dell’essere. Sembra una banalità, però, per Heidegger non lo è. La comprensione dell’essere è propria del modo di essere di quell’ente che noi chiamiamo Esserci. È l’Esserci che comprende l’essere, cosa che ha detta continuamente, è l’Esserci, l’uomo, che si domanda dell’essere e può domandarselo perché c’è l’essere dell’Esserci, cioè, c’è l’apertura, il significato. È questo che lui intende con l’andare in avanti tenendo conto, però, anche di ciò che si lascia indietro, che non è mai propriamente lasciato indietro. Quanto più adeguata e originaria sarà potuta essere l’esplicazione di questo ente, tanto più sicuramente il processo ulteriore di elaborazione del problema ontologico fondamentale raggiungerà la sua meta. (pagg. 243-244) Più avanti dice L’interpretazione della comprensione mostrò inoltre che quest’ultima, innanzi tutto e per lo più, si è già fuorviata nella comprensione del “mondo” secondo il modo di essere della deiezione. Per Heidegger la comprensione è l’apertura dell’orizzonte, che è ciò che consente l’interpretazione, contrariamente a quanto generalmente si suppone per cui prima si interpreta e poi si comprende. No, dice Heidegger, se non c’è la comprensione non c’è nessuna possibilità di interpretare. Questa interpretazione della comprensione, nel momento in cui si fa, è già “viziata” dalla deiezione. Come abbiamo visto la volta scorsa, si parte sempre dalla deiezione, non è possibile non partire dalla doxa. La doxa prima di tutto, poi, eventualmente, l’πιστήμη. Anche là dove non si tratta soltanto di una semplice esperienza ontica, bensì di una comprensione ontologica, l’interpretazione dell’essere si orienta innanzi tutto nell’essere dell’ente intramondano. Come potete vedere, è sempre da qui che si parte, cioè dall’ente intramondano, dalle cose, dalle cose che ci sono perché, ovviamente, rientrano all’interno del progetto dell’Esserci; questo è sempre fondamentale, perché il dire che ci sarebbero lo stesso non significa nulla. In tal modo l’essere dell’ente immediatamente utilizzabile viene saltato di pari passo e l’ente è dapprima concepito come insieme di cose (res). Dice che l’interpretazione dell’essere intramondano compare prima come un qualche cosa e subito dopo come un qualche cosa di utilizzabile, il che è problematico. L’insieme di cose, potremmo dirla così, come l’insieme di cose non utilizzabili, però, badate bene, questo insieme di cose, la res, viene colto come insieme di cose perché c’è la possibilità di utilizzarle, questo rimane sempre fondamentale in Heidegger. L’essere assume il senso della realtà. Le cose diventano la realtà, cioè, una possibilità, ossia la possibilità di utilizzare le cose che compaiono. La sostanzialità diventa la determinazione fondamentale dell’essere. Per effetto di questo traviamento della comprensione dell’essere, anche la comprensione ontologica dell’Esserci cade dentro l’orizzonte di questo concetto di essere. Il traviamento è il rifarsi alla doxa, cosa che peraltro non può non accadere, però, dice lui, queste cose non sono ancora colte come utilizzabili ma come cose apparentemente semplicemente presenti ed è questo coglierle come semplici presenze il traviamento, nel senso che in questo caso non è ancora possibile coglierle come degli utilizzabili determinati, sono cose in generale, non ancora colte come utilizzabili. Questo ha delle implicazioni? Sì e no. Potremmo dire che cogliere delle cose come degli utilizzabili, sicuramente rientra all’interno di un progetto, però in questo caso, come ne sta parlando Heidegger, quando dice che l’essere dell’ente immediatamente utilizzabile viene saltato di pari passo, sta dicendo una cosa abbastanza impegnativa perché se viene saltato di pari passo vuol dire che non c’è un’attenzione per qualche cosa, o meglio, è come se il qualche cosa non fosse un qualche cosa “per” ma fosse una semplice presenza, non utilizzabile. Per effetto di questo traviamento della comprensione dell’essere, anche la comprensione ontologica dell’Esserci cade dentro l’orizzonte di questo concetto di essere. L’Esserci, al pari di ogni altro ente, è inteso come un reale semplicemente-presente. E così l’essere in generale assume il senso della realtà. Nel momento in cui c’è questa deiezione, anche se lui parla di traviamento, che cosa accade? Accade che non riesco a cogliere che ciascuna cosa è quella che è in quanto “in vista di”, in quanto “per” qualche altra cosa, quindi, immagino che sia per sé e allora, a questo punto, diventa un reale semplicemente presente, come se fosse fuori del progetto, cioè, vedo le cose come se fossero semplici cose, non tenendo conto che le cose che vedo sono quelle che sono, per me, perché sono nel progetto. Quindi, è come se questo senso dell’essere, di cui lui parla e che si riferisce all’Esserci, in questo caso fosse semplicemente la sostanza delle cose, che quindi vivono di vita propria e non più che sono quelle che sono per via del fatto che si trovano all’interno del progetto dell’Esserci. Occorre dire che qui Heidegger sta facendo una critica ai vari modi di intendere la comprensione che per lui non sono autentici. Diciamo che sono le modalità attraverso le quali ci si allontana da un’autentica comprensione. Però, come avviene questo, cosa fa sì che io mi rivolga alle cose immaginandole semplicemente presenti? Beh, è la volontà di potenza, la chiacchiera, l’idea che facendo in questo modo io so come stanno le cose, perché sono quelle che sono, e, quindi, si ritorna a ciò che lui indicava come la situazione tranquillizzante, di quiete, in cui le cose sono quelle che sono perché “si dice” che sono quelle che sono. Il primo approccio è quello della deiezione, della chiacchiera, che si trova di fronte non tanto alla semplice presenza ma all’idea che ci sia una semplice presenza. Tutta la filosofia di Heidegger, almeno in buona parte, è volta a mostrare che non c’è di fatto una semplice presenza, che qualunque semplice presenza ci appare perché esiste una comprensione che appartiene all’Esserci, altrimenti non potrebbe apparire nessuna semplice presenza. Infatti, dice, proseguendo, Il concetto di realtà… che sarebbe questo pensare che le cose siano semplici presenze al di fuori del progetto e che quindi, sono quelle che sono per virtù propria. Il concetto di realtà acquista pertanto un primato caratteristico in seno alla problematica ontologica. Tale primato sbarra la strada a una genuina analitica esistenziale dell’Esserci, anzi impedisce già di vedere l’essere dell’utilizzabile che per primo si incontra nel mondo. (pagg. 244-245) Pensare che le cose siano quelle che sono sbarra, dice lui, impedisce di vedere l’essere dell’utilizzabile che è ciò che per primo che si incontra, cioè, io vedo qualche cosa perché è utilizzabile, perché penso già di cosa farmene, so a che cosa serve e se non lo so voglio saperlo, ma so che può servire a qualcosa. Questo, secondo lui, è il primo modo di approcciare le cose, non quello della semplice presenza, di cui parlava prima a proposito del traviamento. E così l’intera problematica dell’essere in generale è avviata su una falsa strada. Tutti i restanti modi di essere vengono determinati negativamente, o privativamente, in riferimento a quello di realtà. La realtà diventa il metro di giudizio: questo è reale, questo non è reale, ecc. È necessario dimostrare che la “realtà” non solo è un modo di essere fra altri, ma dipende ontologicamente da altri modi di essere, come l’Esserci, il mondo e l’utilizzabilità. Qui dice una cosa importante e anche impegnativa. Dice che la realtà è un modo di essere fra altri, uno dei modi dell’essere, uno dei modi in cui l’Esserci, in quanto essere nel mondo, incontra l’utilizzabile. Ma in questo modo sta dicendo che la “realtà” segue l’Esserci, non è prima dell’Esserci. Occorre che ci sia il progetto attraverso il quale le cose mi appaiono in quanto utilizzabili e solo a questa condizione posso fare altre cose e pensare anche a una realtà. Tenete sempre conto che Heidegger, anche se non lo dice direttamente, punta sempre a una questione, che io ritengo molto importante, e cioè questa: ciò che importa è cogliere ciò che, in ciò che si dice, è da pensare. Cosa significa questo? Significa che in ciò che si dice ciò che è o rimane da pensare ha a che fare con tutto ciò che ha consentito a ciò che si dice di dirsi, quindi, l’aspetto storico, quindi, il progetto in cui mi trovo, quindi, il mondo che mi circonda e di cui sono fatto. Ciò che è da pensare è che ciò che sto pensando ha come condizione di pensabilità tutte queste altre cose. Ma anche in un’analisi si potrebbe dire, molto appropriatamente, che l’ascolto non è nient’altro che il cogliere in ciò che si dice resta da pensare, alla quale cosa il parlante non pensa affatto, anzi, non sa nemmeno che ci sia ancora da pensare, pensa che quello che dice sia tutto lì, non immagina che ci sia ancora qualcosa da pensare intorno a ciò che sta dicendo. Per dimostrarlo bisogna esaminare a fondo il problema della realtà, le sue condizioni e i suoi limiti. A quali condizioni noi possiamo pensare la realtà? Sotto il titolo di “problema della realtà” si nascondono varie questioni: 1) Se ci sia, in generale, un ente “trascendente la coscienza”. 2)Se la realtà del “mondo esterno” possa essere sufficientemente dimostrata. 3) Fino a qual punto questo ente, ammesso che sia reale, risulta conoscibile nel suo essere-in-sé. 4) Che cosa significa, in generale, il senso di questo ente, la realtà. Quando parliamo di realtà, di che cosa stiamo parlando? La seguente discussione del problema della realtà tratterà tre questioni, con riferimento al problema ontologico fondamentale: a) la realtà come problema dell’essere e della dimostrabilità del “mondo esterno”… È dimostrabile che esiste un mondo esterno? Se sì, come? b) la realtà come problema ontologico; c) realtà e Cura. Queste sono le cose che lui vuole affrontare. Adesso vediamo cosa ci dice della dimostrabilità del mondo esterno. La prima e più importante tra le questioni elencate intorno alla realtà è quella ontologica riguardante il significato della realtà in generale. Cioè, di che cosa parliamo quando parliamo di realtà. In mancanza di una problematica ontologica pura e di una corrispondente metodica… Sta dicendo che prima di lui nessuno ha fatto nulla a questo riguardo. …questo problema, anche quando fu posto esplicitamente, finì per confondersi con la discussione intorno al “problema del mondo esterno”; l’analisi della realtà è infatti possibile solo sul fondamento di un accesso adeguato al reale. La conoscenza intuitiva è da sempre il modo specifico di cogliere il reale. Tale coglimento “è” un comportamento della psiche, della coscienza. La coscienza intuitiva, la realtà la si intuisce, cioè, è un processo psichico. Ma poiché la realtà ha il carattere dell’in-sé e dell’indipendenza… (pagg. 245-246) La realtà non si può modificare, la realtà è quella che è e non si può fare niente. …il problema del senso della realtà si connette a quello dell’indipendenza possibile del reale “dalla coscienza” e della trascendenza possibile della coscienza verso la “sfera” del reale. Sta dicendo che questa indipendenza della realtà, potremmo tranquillamente dire indipendenza dal linguaggio, e aggiunge e della trascendenza possibile della coscienza verso la “sfera” del reale, quindi, indipendente dalla coscienza. Sta dicendo che questa realtà deve essere indipendente anche dalla mia coscienza, da ciò che io percepisco, che conosco, del reale. La realtà deve essere indipendente da tutto, deve essere fuori del linguaggio, quindi, che io la conosca o non la conosca è irrilevante, quella c’è e tanto basta. La possibilità di un’analisi ontologica esauriente della realtà dipende dalla misura in cui è stato chiarito nel suo essere anche ciò rispetto a cui deve sussistere l’indipendenza, ciò che deve essere trasceso. Questa realtà deve essere indipendente, però, a questo punto non è chiarissimo da che cosa deve essere indipendente: deve essere indipendente da me, dalle persone, da che cosa o da chi, in definitiva? Solo in questo modo sarà possibile cogliere ontologicamente anche il modo di essere del trascendere stesso. E infine, la via d’accesso primaria al reale deve essere garantita nel senso di una soluzione del problema dell’idoneità o meno del conoscere a svolgere questa funzione. Quindi, non soltanto ci sono tutti questi problemi, e cioè il fatto di sapere da che cosa dovrebbe essere indipendente, quindi, prima sapere che è indipendente e poi sapere da chi o che cosa è indipendente e alla fine occorre anche sapere chi ci garantisce della soluzione di questo problema. Supponiamo di risolverlo, una volta che l’abbiamo risolto chi ci garantisce che il metodo, che abbiamo utilizzato per risolvere il problema, sia stato idoneo a svolgere questa funzione. Dice poco dopo Il conoscere ci è apparso come un modo subordinato di accesso al reale. Il reale è per essenza accessibile solo come ente intramondano. Ogni accesso a tale ente è fondato ontologicamente nella costituzione fondamentale dell’Esserci, nell’essere-nel-mondo. Qui è come se avesse fatto un salto, però, dice Ogni accesso a tale ente è fondato ontologicamente nella costituzione fondamentale dell’Esserci, cioè del progetto. l’essere-nel-mondo ha la costituzione ontologica più originaria della Cura (avanti-a-sé esser-già-in-un-mondo in quanto esser-presso l’ente intramondano). Vuole dire che questo ente, questa cosa che noi chiamiamo reale, di fatto, come dicevo prima, ha come condizione, potremmo dire, la Cura, cioè, l’essere presso questa cosa. E sappiamo anche il modo di essere presso questa cosa, è il modo dell’utilizzabile. Il problema se in generale sussista un mondo, e se il suo essere possa essere dimostrato, è senza senso come problema posto dall’Esserci in quanto essere-nel-mondo; e chi altro, d’altronde, potrebbe porlo? Questo è interessante. Domanda: esiste un mondo? Dice Heidegger: che razza di domanda è? Non ha nessun senso. Io, Esserci, mi sto ponendo questa domanda. Io, in quanto esserci, in quanto essere nel mondo, per chiedermi se esiste il mondo, devo già essere nel mondo. Ecco l’assurdità della domanda per Heidegger. Tale problema è inoltre affetto da una equivocità. Manca infatti la distinzione fra mondo nel senso di in-che dell’in-essere e “mondo” nel senso dell’ente intramondano, cioè del presso-che dell’immedesimazione prendente cura. Fa una distinzione tra mondo, nel senso dell’in-che e dell’in-essere, cioè, dell’essere nel mondo, e il senso dell’intramondano, cioè, ciò presso cui io sempre mi trovo. Ma il mondo è già essenzialmente aperto con l’apertura dell’essere dell’Esserci; il “mondo” è già sempre scoperto con l’apertura del mondo. Sta dicendo che questa domanda se esista oppure no la realtà, di fatto, è una domanda senza senso. È giunto a dire che la realtà è il mondo ma perché io possa… se io mi faccio questa domanda vuol dire che io, in quanto ente, sono quell’Esserci che può porsi la domanda, e se mi posso porre la domanda, in quanto Esserci sono già quel mondo del quale mi sto chiedendo se esiste oppure no. A pag. 247. L’aggrovigliarsi dei problemi, la confusione fra ciò che si vuol dimostrare, ciò che è dimostrato e ciò con cui la dimostrazione è condotta si rivela nella “Confutazione dell’idealismo” di Kant. Kant definisce uno “scandalo della filosofia e della ragione umana in generale” la mancanza a tutt’oggi di una prova dell’“esistenza delle cose fuori di noi”… Uno scandalo del pensiero: come è possibile che non riusciamo a provare l’esistenza delle cose? …tale da risultare inoppugnabile e al sicuro da ogni scetticismo. È questa dimostrazione che vuole Kant, una dimostrazione incontrovertibile, finale. Egli stesso offre questa prova, e precisamente sotto forma di dimostrazione della “tesi”: “La coscienza semplice ma empiricamente determinata della mia esistenza dimostra l’esistenza degli oggetti nello spazio fuori di me”. Questa è la dimostrazione di Kant. Secondo Kant l’esistenza delle cose fuori di me sarebbe dimostrato dal fatto che la mia coscienza semplice ma empiricamente determinata, cioè, io con l’esperienza colgo le cose… Ma da che cosa sarebbe determinata questa esperienza? Dalla mia esistenza. Quindi, dice Kant, a questo punto, la mia esistenza è provata, basta rivolgersi a Cartesio e al suo Cogito ergo sum: io ci sono, la mia esperienza mi fa vedere delle cose, quindi, se io ci sono e esperisco delle cose allora esistono anche quelle cose. Con questo per Kant sarebbe dimostrata l’esistenza delle cose fuori di me. Osserviamo esplicitamente in primo luogo che Kant usa il termine esistenza (Dasein) per designare quel modo di essere che noi abbiamo chiamato nella presente ricerca “semplice presenza”. Heidegger sta dicendo che Kant confonde la semplice presenza con l’esistenza, mentre per Heidegger c’è una differenza enorme: l’esistenza, per lui, è soltanto relativa all’Esserci, cioè l’uomo, è l’uomo che esiste; le altre cose sono semplici presenze ma. Come abbiamo visto, sono semplici presenze a condizione che ci sia l’Esserci. La prova dell’“esistenza delle cose fuori di me” riposa sul fatto che alla natura del tempo appartengono cooriginariamente permanenza e mutamento. La mia semplice-presenza, cioè la semplice-presenza di una molteplicità di rappresentazioni date nel senso interno, è un mutamento semplicemente-presente. Io esperisco qualche cosa ma per poterla esperire deve rimanere immutabile per un certo tempo, perché se scompare non posso più esperirla. Ma la determinazione del tempo presuppone qualcosa di semplicemente-presente che permanga. Siffatto permanente non può però essere “in noi”, “proprio perché la mia esistenza nel tempo non è determinata che in virtù di questo permanente”. C’è prima il tempo che permane e che mi consente di avere una coscienza, di sapere che sono io, lo so perché io rimango nel tempo quello che sono. Se anch’io cambiassi ininterrottamente, sarei in difficoltà. Questo permanente è la condizione della possibilità della semplice-presenza “in me” del mutamento. (pagg. 247-248) l’esperienza dell’essere-nel-tempo delle rappresentazioni implica, cooriginariamente, qualcosa che muta “in me” e qualcosa di permanente “fuori di me”. Dice qui: questa esperienza, cosa comporta? Qualcosa che muta in me, io vedo mutare le cose, però, perché io possa avvertire questo mutare delle cose, perché questo avvertire sia un avvertire qualche cosa, occorre che ci sia qualcosa di permanente fuori di me. Potremmo dire che se non ci fosse nulla di permanente fuori di me, allora questo cambiamento che avverto in me non avrebbe nessun termine di confronto, nessun parametro; quindi, occorre un qualche cosa che stia fermo affinché qualcosa possa mutare. Ricordate, dicevamo tempo fa che per parlare occorre che un elemento funzioni come se fosse quello che è necessariamente, solo a questa condizione posso da lì partire e aggiungere altre cose, perché se questo elemento fosse altro da sé, come taluni sostengono, non ci sarebbe questo elemento da cui partire e, quindi, non potrei parlare. Kant ci dà una sorta di “prova ontologica” desunta dall’idea dell’ente temporale. Un ente che dipende dal tempo, da qui la durata, la permanenza. A prima vista può sembrare che Kant si sia liberato dall’ammissione cartesiana di un soggetto isolato e precostituito. Per fare tutta questa operazione occorre che ci sia un soggetto isolato, precostituito, che si raffronta al mondo: soggetto e oggetto. Ma è soltanto un’apparenza. Il semplice fatto che Kant senta il bisogno di una prova dell’“esistenza delle cose fuori di me” basta a dimostrare che egli ha posto il punto di appoggio della problematica nel soggetto, nell’“in me”. Questa è la questione fondamentale. Per potere parlare di qualche che è fuori di me, cioè, di una realtà esterna, è necessario che ci sia un soggetto, un qualche cosa, dice lui, di isolato, precostituito, da cui io posso affermare che esiste qualcosa fuori di me. Soltanto se io mi pongo come isolato da questa cosa, soltanto se io non sono, insieme a questo posacenere, in questo mondo, allora posso considerare l’oggetto come isolato, manipolabile, ecc. Dice, quindi, Heidegger che Kant, pur volendo, in parte, prendere le distanze da Cartesio ma comunque ci ricasca perché, per potere affermare che qualcosa esiste fuori di me, occorre che questo “in me” sia posto come soggetto isolate e precostituito. Precostituito non si sa bene da che cosa, ma precostituito indipendentemente dal mondo di cui, invece, secondo Heidegger, è fatto. E infatti la dimostrazione è condotta partendo dal mutamento empiricamente dato in me. Quindi, occorre un soggetto che si faccia carico di questo mutamento, che lo rilevi. Il “tempo” su cui si fonda la prova è sperimentato soltanto “in me”. Non appartiene alla cosa, sono io che faccio perdurare la cosa in me. Esso funge da pedana per il salto dimostrativo nel “fuori di me”. Inoltre Kant osserva: “L’idealismo problematico che si limita a sostenere l’incapacità di dimostrare mediante l’esperienza immediata un’esistenza fuori della nostra, è ragionevole e conforme a una ben fondata maniera filosofica di pensare; e precisamente che non si debba pronunciare un giudizio risolutivo prima che sia stata reperita una prova sufficiente”. A pag. 249. Lo “scandalo della filosofia” non consiste nel fatto che finora questa dimostrazione non è ancora stata data, ma nel fatto che tali dimostrazioni continuino a essere richieste e tentate. Quindi, lo scandalo non sta nel fatto che non si riesce a trovare una dimostrazione della realtà ma nel fatto che la si cerchi. Simili attese, richieste ed esigenze derivano da un’insufficiente posizione di ciò indipendentemente dal quale, e “a prescindere” dal quale, si dovrebbe dimostrare la semplice-presenza di un “mondo”. Dice che uno può farsi una domanda ma perché una domanda del genere, di dimostrare la realtà? Perché, dice, c’è una insufficiente posizione di ciò, indipendentemente dal quale e a prescindere da quale, si dovrebbe dimostrare la semplice-presenza di un mondo. Vale a dire, è impossibile immaginare di trovarsi in questa posizione fuori del mondo per trovare, quindi, un criterio per dimostrare la sua esistenza, perché fino a quando mi trovo dentro nel mondo non posso dimostrare un qualche cosa. Sembra evocare la questione posta da Tarski rispetto alla verità: non posso dimostrare la verità all’interno dello stesso sistema che la utilizza, devo uscire fuori, ma se esco fuori con che cosa farò tutte queste operazioni. Non sono le prove a essere insufficienti, ma è insufficiente la determinazione del modo di essere dell’ente che prova e esige le prove. Non sono, dice, le prove che mancano ma è chi le cerca che ha dei problemi, nel senso che vuole cercare la dimostrazione di un qualche cosa che, come dicevo prima, è già lì, è già in lui. È come volere a tutti i costi creare questa separazione cartesiana tra soggetto e oggetto. Ma perché questo? Per una volontà di potenza, perché solo a questa condizione, cioè se io creo questa separazione, posso avere il dominio sulle cose, posso averne il controllo totale. L’Esserci, rettamente inteso, si oppone a questo genere di prove, poiché esso, nel suo essere, è già sempre ciò che le dimostrazioni tardive ritengono necessario attribuirgli con una dimostrazione. E cioè, che esiste. È già lì che esiste, l’Esserci è l’esistenza stessa, perché è l’unico ente che si può porre questa domanda intorno all’essere. Vi ricordate quella frasetta storica, ve la rileggo: L’Esserci è un ente per cui, nel suo essere, ne va di questo essere stesso. È quell’ente per cui ne va dello stesso essere per cui, senza questo esserci, non c’è nessun essere. Se dall’impossibilità di dimostrare la semplice-presenza delle cose fuori di me si volesse inferire che essa è “da accettare semplicemente per fede”… credo quia absurdum, tenete sempre conto che qualunque teoria, di qualunque tipo, è sempre fondata su un atto di fede, cioè, è sempre fondata sulla doxa, sulla chiacchiera, sull’opinione, sul “si dice”, mai su qualcosa che è necessariamente quello che è e non può non esserlo. …non si eliminerebbe l’incomprensione del problema. Infatti resterebbe sempre valido il pregiudizio che, in linea di diritto e su un piano ideale, si dovrebbe potere dare una dimostrazione. Quand’anche ci si limitasse alla “fede nella realtà del mondo esterno” non si eliminerebbe l’impostazione erronea del problema, anche nel caso in cui si riconoscesse esplicitamente a questa fede il suo “buon diritto”. L’esigenza della prova è mantenuta anche quando si tenta di soddisfarla per una via diversa da quella della prova dimostrativa. (pagg. 249-250) Non ha tutti i torti ma neanche tutte le ragioni. La realtà non può essere dimostrata perché questo mondo esterno non è esterno a me, io faccio parte di questo mondo di cui vorrei trovare una dimostrazione, senza ricordarmi, come dice Heidegger, che in un certo senso io sono già la dimostrazione, perché sono già io che mi interrogo sulla cosa, quindi, c’è, non il mondo esterno ma il mondo di cui io sono fatto. Però, questa dimostrazione, di cui lui sta parlando, manca comunque in tutta questa ricerca fatta dalla filosofia di dimostrare l’esistenza del mondo esterno. Dimentica, però, di chiedersi una cosa, e cioè, chi dimostrerà la validità di quella dimostrazione? Questo è un aspetto che manca e che, invece, noi possiamo tenere in conto perché noi ci muoviamo da molto tempo tendo sempre conto simultaneamente mentre procediamo, non soltanto di aspetti straordinari, come questi che ci sta proponendo Heidegger, ma anche dell’apporto della semiotica, della psicoanalisi, della linguistica, della retorica, della logica, della filosofia del linguaggio. Tutte queste cose sono simultaneamente presenti mentre stiamo leggendo Heidegger. Anche facendo appello al principio che il soggetto deve presupporre (e che già sempre inconsciamente presuppone) la semplice-presenza del “mondo esterno”, non si uscirebbe dall’ipotesi fittizia del soggetto isolato. Che cos’è il soggetto, pensato come è sempre stato pensato, come soggetto isolato? È un’ipotesi fittizia, un’ipotesi falsa, finta, costruita al solo scopo di potere immaginare, sempre in modo fittizio, una separazione fra me e le cose, all’unico scopo di credere, sempre in modo fittizio, di poterle controllare, di avere il dominio sulle cose. Credere nella realtà del “mondo esterno”, con diritto o no, provare questa realtà, sufficientemente o no, presupporla, esplicitamente o no, sono tutti tentativi che, all’oscuro come sono circa il terreno su cui si muovono, presuppongono un soggetto senza-mondo, un soggetto non sicuro del proprio mondo, un soggetto che deve perciò cominciare con l’assicurarsi del proprio mondo. Questo è interessante. Prima ha detto che il soggetto è un’ipotesi fittizia, ma allora questo soggetto che è presupposto deve trovare un qualche cosa che gli dia una maggiore consistenza. Ecco perché vuole dimostrare l’esistenza della realtà: dimostrando l’esistenza della realtà dimostra anche l’esistenza di se stesso, che è ciò che si contrappone alla realtà e che in qualche modo la coglie, la domina. Il soggetto deve perciò cominciare con l’assicurarsi del proprio mondo, deve essere sicuro del mondo, solo allora è sicuro di sé. Come dire, io sono sicuro di me se domino tutto, se ho tutto sotto controllo. Quindi, il mondo deve essere conosciuto, quindi, la realtà deve essere dimostrata e finché non faccio questo è come se rimanesse una spina nel fianco. Se l’esistenza della realtà allora non sono così sicuro del mondo e allora, a questo punto, non lo posso dominare come voglio, non sono più sicuro neanche di me. Come faccio a dominare le cose, come faccio a mettere in atto la volontà di potenza? Devo essere assolutamente sicuro del mondo esterno. Il “problema della realtà” come problema della sussistenza e della dimostrabilità di un mondo esterno è un problema impossibile; non però perché conduca ad aporie insuperabili, ma perché l’ente stesso che funge da tema in questo problema contraddice a una impostazione del genere. Il problema non è quello di dimostrare che e come sussista un “mondo esterno”, ma di spiegare perché l’Esserci, in quanto essere-nel-mondo, abbia la tendenza a relegare nel nulla il “mondo esterno” mediante una riduzione “gnoseologica”, per doverlo poi dimostrare come sussistente. (pagg. 250-251) Dice che il problema non è tanto il provare l’esistenza della realtà esterna ma, dice, consiste in questo, che l’Esserci, in quanto essere nel mondo, ha questa tendenza, che potremmo ricondurre alla deiezione, e cioè di trovare qualcosa di rassicurante o, forse in modo più appropriato, alla volontà di potenza, questa tendenza, quindi, a relegare nel nulla il mondo esterno mediante una riduzione gnoseologica. Vale a dire, riduce il mondo esterno a nulla, perché lo fonda unicamente sulla coscienza, sulla conoscenza: se il soggetto può conoscere qualcosa allora questo qualcosa c’è. Noi non possiamo conoscere la realtà in quanto tale, però, ciò che possiamo conoscere sono i nostri modelli di pensiero, quelli che ci consentono di conoscere la realtà, di ordinarla e, quindi, di conoscerla e, pertanto, è ridotta a nulla la realtà perché, di fatto, non è conoscibile. Quindi, prima riduce a nulla questa realtà, poi, però, vuole dimostrare che esiste. È questo che fa o ha fatto la filosofia, secondo Heidegger. Perché dovrebbe avere fatto questo? Ce lo dice qui. La causa di tutto ciò sta nella deiezione dell’Esserci e nel conseguente smarrimento della comprensione primaria dell’essere mediante la sua interpretazione come semplice-presenza. Il problema, dice Heidegger, sta nel pensare l’essere come una semplice presenza, questa cosa è qui, la vedo, la tocco, quindi, l’essere come semplice presenza, come qualche cosa fuori del linguaggio. In questo modo, ponendolo fuori del mondo in cui mi trovo, è come se annullassi questa cosa. Potremmo dirla in un modo ancora diverso. Io interpreto qualche cosa come semplice presenza a condizione, dice Heidegger, della deiezione, e cioè della dimenticanza dell’essere dell’Esserci. Solo a questa condizione, che io mi dimentichi dell’Esserci, e cioè del fatto che questa cosa è quella che è perché è nel progetto, posso pensare all’essere come semplice presenza. È questa, secondo lui, la causa del fatto che si cerchi di dimostrarne l’esistenza, perché a questo punto è posta come una semplice presenza, una semplice presenza che deve dimostrare di sé di esistere. Da qui tutta la domanda della filosofia: dov’è l’essere dell’ente, in che cosa consiste l’essere dell’ente? Nella sua essenza, si è generalmente pensato, cioè, in qualcosa di più generale, qualcosa di universale. Facendo tutto questo si immagina che questo ente sia fuori dal linguaggio e, quindi, debba cercare altrove la garanzia della sua sussistenza. Se l’Esserci non è l’essere nel mondo a questo punto deve dimostrare di esistere, da solo, e come? deve dimostrare che c’è un qualche cosa che garantisce della sua sussistenza, altrimenti come faccio a dimostrare che esiste se non ricorrendo a ciò che garantisce la sua sussistenza? Ecco le idee di Platone, la sostanza di Aristotele, o dio, a seconda dei casi, cioè, un qualche cosa di trascendente che garantisce l’immanente. È qualche cosa che non è l’immanente ma che garantisce che è quello che è. Ovvio che questa cosa non si trova.