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19 giugno 2019

 

Fenomenologia dello spirito di G.W.F. Hegel

 

Siamo a pag. 54, punto 65. In effetto anche il pensare non speculativo ha il suo diritto che è bensì valido… Il pensiero non speculativo sarebbe il pensare non filosofico. …ma non può venir preso in considerazione in sede di proposizione speculativa. Se si vuole fare filosofia occorre un pensare speculativo e non il pensare comune. Il superamento della forma della proposizione non può avvenire in guisa immediata, né in forza del suo mero contenuto. Il superamento della forma della proposizione, quindi, andare al di là della forma per intenderne il contenuto, non avviene in modo immediato, così come spesso si immagina: la proposizione non dice come le cose stanno. Questa sarebbe la forma immediata. No, dice, la cosa è più complicata. Infatti, dice Deve, anzi, esprimersi il movimento opposto… Opposto all’immediato; l’opposto di immediato è mediato, naturalmente. …esso non ha da essere solamente quell’interiore freno; devesi invece presentare quel ritornare in sé del concetto. È sempre questa la questione: il ritornare in sé del concetto, cioè questo movimento dialettico dove l’in sé è l’inizio del movimento verso il per sé, per sé che deve ritornare all’in sé. Per farla più semplice, è come dire che il significante deve andare al significato e dal significato deve ritornare al significante perché il significante sia un significante. In questo movimento ambedue rimangono, come direbbe Hegel, delle figure; significante e significato non scompaiono, non è che uno trapassa dileguandosi nell’altro, ma permangono come figure; ma, restando come figure, diventano momenti del segno, cioè dell’intero; non sono più disgiungibili ma esistono entrambi in quanto momenti del segno. Questo movimento tra significate e significato è quel qualcosa che, per usare le parole di Hegel, dà contezza della relazione inscindibile tra i due, cioè, non c’è l’uno senza l’altro. Questo movimento, costituente il compito della dimostrazione, è il movimento dialettico della proposizione stessa. Solo esso è l’elemento effettualmente speculativo;… Quando lui parla di speculativo intende questo movimento. …e solo l’enunciazione del movimento medesimo è rappresentazione speculativa. Come proposizione lo speculativo è solamente il freno interiore; è il ritorno dell’essenza in se stessa, privo di esistenza determinata. Dice che come proposizione lo speculativo è solamente un freno, nel senso che impedisce il precipitarsi a stabilire la verità, la verità come predicato del soggetto. …è il ritorno dell’essenza in se stessa, privo di esistenza determinata. Speculativo, in effetti, non è altro che il ritorno dell’in sé al per sé; privo di esistenza determinata, cioè un qualche cosa che non è ancora determinato in sé. Spesso perciò noi ci vediamo rinviati dalle esposizioni filosofiche a questa interiore intuizione, venendoci così rifiutata l’esposizione, da noi richiesta, del movimento dialettico della proposizione. Sta facendo una critica alle filosofie che lo hanno preceduto dove, anziché esserci questo movimento speculativo, di fatto, riscontra una intuizione interiore, un intuito, per cui: è così! La proposizione deve esprimere ciò che il vero è; ma esso è essenzialmente Soggetto, è solo il movimento dialettico, ritmo autoproducentesi che si spinge oltre e ritorna in se stesso. Non ci sta dicendo altro che cos’è il vero: il vero è questo movimento, movimento dell’in sé che si spinge verso il per sé e, diventato il per sé, ritorna sull’in sé e fa dell’in sé il Sé. Punto 66. A questo proposito si può rammentare come anche esso il movimento dialettico abbia a sue parti o elementi delle proposizioni; sembra quindi che la segnalata difficoltà non faccia che ritornare, e sia una difficoltà della cosa stessa. Anche il movimento dialettico è fatto di proposizioni, non può ovviamente non esserlo; quindi, ogni proposizione presenta la stessa difficoltà, quella di dover essere portata al concetto. Ciò assomiglia a quel che succede nella dimostrazione usuale, quando i fondamenti dei quali essa si vale abbisognano ancora di una fondazione, e così all’infinito. Peraltro una tal forma della ricerca del fondamento e della condizione appartiene a quel dimostrare da cui differisce il movimento dialettico; appartiene quindi alla conoscenza esteriore. Cioè, l’idea che la conoscenza venga da fuori dalla coscienza. Quanto a quel movimento, il suo elemento è il concetto puro; così esso ha un contenuto che, in lui stesso, è già in tutto e per tutto soggetto. Cioè, l’intero. Questo contenuto, che è nel movimento, diventa soggetto, cioè qualche cosa che agisce e agisce nel senso che muove l’in sé verso il per sé e che ritorna all’in sé. È in questo senso che è soggetto, nel senso che agisce, che fa, che opera, nel senso dell’ργον , il fare; quando parla di soggetto è colui che fa. Non si dà quindi contenuto alcuno comportantesi come quel soggetto che starebbe a fondamento e al quale converrebbe il suo significato come un predicato; presa nella sua immediatezza, la proposizione è una forma soltanto vuota. Se non portiamo questa proposizione al concetto, è una forma vuota, non dice niente. Ma per portarla al concetto è necessario che ci facciamo carico di questo movimento, cioè del muoversi del mio dire verso il ciò di cui dico, del significante verso il significato, e viceversa. Hegel dice che questo movimento non avveniva prima di lui. Il problema era, sempre riprendendo i termini di de Saussure, che il significante ha un significato ed è quel significato il ciò di cui si dice; si perdeva, quindi, la relazione inscindibile tra i due, nel senso che il significante è quello che è per il significato, ma anche il significato è quello che è perché c’è un significante, cioè il mio dire è tale perché c’è un ciò di cui sto dicendo, è viceversa. Punto 67. Non meno del comportamento raziocinante, allo studio della filosofia è d’impaccio la non raziocinante presunzione di verità fatte. Chi le possiede pensa che non sia più necessario ritornare su di esse; anzi, postele a fondamento, stima non solo di poterle esprimere, ma anche di potere con esse sentenziare e condannare. Qui sta parlando del modo di pensare comune; ancora oggi, non è cambiato niente. Per questo verso, urge che con la filosofia si ricominci a fare sul serio. Punto 68. Quanto alla filosofia genuina, noi vediamo come l’immediata rivelazione del divino e il buon senso, che non si è mai curato di coltivarsi né con la filosofia né con altra forma del sapere, si considerino senz’altro quale perfetto equivalente e ottimo surrogato della lunga via della cultura, di quel ricco e profondo movimento per cui lo spirito giunge al sapere, quasi come si decanta la cicoria quale surrogato del caffè. È penoso notare come l’insipienza e il pacchianismo senza gusto né linea, incapace di fermare il pensiero su proposizioni astratte singolarmente prese, e ancor meno sul loro nesso, si atteggino ora a libertà e tolleranza del pensiero, ora a genialità. Punto 69. Viceversa, scorrendo tra i facili argini del buon senso, il natural filosofare riesce tutt’al più a fornire una retorica di verità banali: se gli si mostra che queste non dicono nulla, esso assicura per contro di averne in cuore il senso e il contenuto, e che altrettanto deve avvenire negli altri, mentre presume di essere giunto, mercé l’innocenza del cuore e la purezza della coscienza e simili, a dire l’ultima parola, su cui non si possa sollevare eccezione, e oltre la quale non possa esigersi progresso alcuno. Si trattava peraltro di far sì che ogni miglior valore non rimanesse nei precordi, anzi, da questo pozzo, venisse tratto alla luce del giorno. Ci si sarebbe potuto da un pezzo risparmiar la fatica di mettere in mostra delle verità di questo genere; esse, infatti, si trovano da secoli nel catechismo, nei proverbi popolari, ecc. – Di tali verità è facile cogliere l’indeterminatezza e la stortura; come è facile mostrare alla loro e nella loro coscienza una verità opposta. Mentre una coscienza così ridotta tenta di sottrarsi alla confusione, ricadrà in una nuova e protesterà che e cose stanno indiscutibilmente così e così, e che il resto sono sofisticherie; espressione corrente del senso comune contro la ragione coltivata; allo stesso modo che l’insipienza filosofica pretende di definire una volta per sempre con la parola fantasticherie la filosofia. Poiché il senso comune fa appello all’oracolo interiore del sentimento, rompe ogni contatto con chi non è del suo parere; esso è costretto a dichiarare di non aver altro da dire a colui che non trovi e non senta in se stesso la medesima verità; - in atri termini, esso calpesta la radice dell’umanità. Come dire: se non lo senti anche tu non posso spiegartelo. Frase che si sente spesso dire in queste circostanze. Punto 70. Se si chiedesse di una via regia verso la scienza, nessuna se ne potrebbe indicare più comoda di quella che consiste nell’affidarsi al buon senso e nel leggere, per andar di pari passo con la propria età e con la filosofia, recensioni di scritti filosofici o, perché no?, le loro introduzioni e i primi paragrafi; questi forniscono infatti i principi generali dai quali tutto dipende, e le recensioni, oltre la notizia storica, danno anche un giudizio che, appunto perché tale, è già al di là della materia giudicata. Qui ce l’ha con quelli che, anziché leggere, pensare, riflettere sule cose, leggono la quarta di copertina e pensano di avere capito tutto. Questa via ordinaria si fa in maniche di camicia; il sentimento eccelso dell’Eterno, del Sacro, dell’Infinito, percorre invece in parametri sacerdotali un cammino che è piuttosto esso stesso l’immediato essere nel centro, la genialità d’idee profonde e originali e di sublimi lampi del pensiero. Come tuttavia una tale genialità non rivela ancora la scaturigine dell’essenza, similmente questi razzi non sono ancora l’empireo. Pensieri veri e penetrazione scientifica si possono guadagnare solo nel lavoro del concetto. Cioè, nel portare una proposizione al concetto. Soltanto esso può produrre l’universalità del sapere, la quale è non già la solita indeterminatezza e meschinità del senso comune, ma conoscenza coltivata e compiuta;… Punto 71. Io pongo dunque nell’automovimento del concetto ciò mediante cui la scienza esiste;… L’automovimento del concetto è ciò che fa esistere la scienza, il sapere. Senza questo automovimento non c’è sapere. …al qual proposito si potrà osservare che i già toccati ed anche altri aspetti esteriori si discostano dal modo col quale il nostro tempo si rappresenta la natura e il carattere della verità, e che, anzi, gli sono decisamente opposti; questa osservazione sembra non promettere favorevole accoglimento al tentativo di rappresentare il sistema della scienza in quella determinazione. Si rende conto che questo modo di porre le cose andrà incontro a una serie di ostacoli perché la gente non ha voglia di pensare al concetto, cioè di concettualizzare, di problematizzare, di interrogare, di chiedersi che cosa sta facendo; preferisce, come diceva prima, dire “la verità è questa”, e basta. Intanto io penso che se, per esempio, il miglior succo della filosofia di Platone si fece consistere talora in quei suoi miti che scientificamente sono privi di valore, vi sono poi stati dei tempi, detti perfino tempi della fantasticheria, nei quali la filosofia aristotelica fu altamente apprezzata in virtù della sua profondità speculativa, e il Parmenide di Platone, senza dubbio la sua più grande opera d’arte della dialettica antica, fu tenuto per una vera rivelazione e per la positiva espressione della vita divina; tempi nei quali, non ostante la torbida oscurità di tutto ciò che l’estasi produceva, quella pretesa estasi non doveva essere, in effetto, altro che il concetto puro. Gli antichi ci sono arrivati alla questione. Parla di Platone, della dialettica antica, antica ma dialettica, e cioè c’era già la volontà di giungere al concetto puro. Penso inoltre che quanto nella filosofia del nostro tempo v’ha di buono, pone il proprio valore nella scientificità; e se anche non tutti ne convengono, solo mercé la scientificità il buono si mette, di fatto, in valore. Questo è, sì, attualissimo. Soltanto la scienza oggi dice come stanno le cose. Questa è la bellezza, anche la virtù, di testi come questo e di altri che abbiamo letto, e cioè che le cose che dicono sono sempre presenti, non sono passate di moda, sono sempre qui. Affrontano problemi che sono presenti sempre perché, anche se non lo dicono, anche se non se ne accorgono, sono problemi legati al funzionamento del linguaggio e, quindi, sono sempre in atto.

Intervento: A mio avviso ciò che si ripete è questa dicotomia tra retorica e logica, dicotomia che può assumere varie configurazioni: Apollo e Dioniso, la razionalità e l’irrazionalità, la calcolabilità, la misurabilità delle cose, e di contro la ricerca di qualcosa che vada oltre la mera calcolabilità, ecc….

Questa dicotomia tra retorica e logica mostra molto bene qual è il tentativo degli umani, dei parlanti: chiudere la distanza che si avvia con il linguaggio, distanza senza la quale non esisterebbe il linguaggio; però, l’idea è quella di chiudere questa distanza in modo da cogliere la cosa coì com’è realmente. Quindi, non si tiene affatto in conto che i fondamenti della logica sono retorici, non possono essere logici; il logico interviene dopo, ma prima occorre porre delle istanze che consentano di incominciare a pensare in modo logico, ma queste istanze sono retoriche. Anche Heidegger lo intende quando dice che veniamo dalla chiacchiera, che nasciamo nella chiacchiera… ma non dobbiamo necessariamente morirci, è possibile uscirne. Nasciamo nella chiacchiera, nasciamo in questo modo di parlare dove l’in sé non giunge mai al per sé ma rimane un in sé, ha sì coscienza delle cose che accadono ma senza alcuna speculazione, senza alcun pensiero. Io posso quindi sperare che questo tentativo di rivendicare la scienza al concetto e di rappresentarla in questo suo peculiare elemento si farà strada per l’intima verità della cosa. Dobbiamo persuaderci che la natura del vero è quella di farsi largo quando è arrivato il suo tempo, e che solo allora appare, quando il tempo è venuto; e che quindi non appare mai troppo presto, né trova un pubblico non maturo;… Qui c’è un pensiero che svilupperà più avanti nel testo, e cioè il venire a sapere dopo: solo adesso noi sappiamo perché è accaduta quella certa cosa, ma mentre stava accadendo non sapevano quali fossero le ragioni, non potevano saperlo; non si potevano sapere le ragioni che stavano mettendo in atto facendo quella certa cosa e dove avrebbero portato o che avrebbero condotto a fare; noi, oggi, guardando indietro, le vediamo queste cose. Quando Hegel parla dello Spirito… lo Spirito è il lavoro di tutti e di ciascuno, un lavoro che la comunità umana porta avanti, un lavoro che non è altro che il lavoro del concetto, questa fatica del concetto, e cioè di porre la proposizione e volgerla in quanto concetto. Il lavoro sta nel fare in modo che dal per sé torni all’in sé; quindi, nel senso hegeliano del termine, l’Aufhebung, cioè il superamento, il trapassare da una cosa all’altra, è questo il lavoro, che poi è il lavoro che fa il linguaggio. Torniamo a de Saussure: un significante che ha il suo significato e che dal significato trapassa al significante; questo il lavoro che viene compiuto. Qual è la portata geniale di Hegel? Generalmente, si suppone che soggetto e predicato di una proposizione costituiscano quegli elementi che indicano la cosa: A è B; quindi, la B non è niente altro che la A. Ma, se ci pensate bene, non c’è mai una considerazione che dalla B torni sulla A; si prende la B come vera e da lì si parte per fare altre cose, ma la A scompare. La posizione di Hegel, dice invece che il lavoro del concetto è di riflettere sul fatto che la B è, sì, la A ma, una volta che io dico che A è B, anche la A viene modificata, e non scompare, rimane in quanto modificata in quanto altro da quella A astratta, di cui parlavo prima. Questo lavoro è quello di ricondurre, quindi, tutto il “negativo” al positivo; sarebbe questo il compito ultimo della Fenomenologia dello Spirito, cioè, arrivare all’Assoluto. Per Hegel l’Assoluto non è nient’altro, per dirla in modo semplice, che la realtà. Ma noi sappiamo come ci ha indicato Hegel la realtà: è la coscienza, la co-scienza. Quindi, il bello di Hegel è che ci mostra in questo modo che non è che una volta che abbiamo detto A è B ci dimentichiamo della A; no, a questo punto la A non è più la A di prima, è diventata un’altra cosa: si traspone nella relazione A e B, non viene cancellata. Se A è B, della A non me ne faccio più nulla, perché so che è B e, quindi, tengo solo la B e elimino la A, che non serve più a nulla a questo punto. Per Hegel non è affatto così: non solo la A non viene tolta, ma permane, è la condizione della B. Potete tenere conto di Peirce rispetto alla questione del negativo: nella formula A è B, una volta che io ho stabilito che è B, la A è il suo negativo, cioè ciò che non serve più, che non ha più nessuna utilità. Invece, per Hegel non è così: non solo non la toglie di mezzo ma dice che il negativo di B, la A, è la condizione perché esista la B, per cui se la tolgo non esiste nemmeno la B. Entrambe esistono in virtù dell’altra. Questo movimento, che Hegel indicherà come il lavoro, Marx lo indicherà come superamento della figura del padrone nel proletariato, che a questo punto diventa lui il padrone dei propri mezzi di produzione. Il proletariato elimina il padrone e diventa lui il padrone; questo fatto corrisponde al raggiungimento del Sapere Assoluto, per cui non c’è più il negativo. In Hegel non c’è più il negativo nel momento in cui si raggiunge il Sapere Assoluto. Ciò che noi sappiamo oggi di ciò che è passato, delle ragioni che hanno condotto a una certa guerra, a un certo evento, per chi viveva allora le cose non erano così semplici, era un continuo conflitto tra il positivo e il negativo. Oggi, tutto ciò, sapendo come sono andate le cose, è trapassato, è diventata un’altra cosa, non ci sono più quel positivo e quel negativo, sono diventati ciò che noi sappiamo oggi. In questo senso Hegel immagina il Sapere Assoluto: quando alla fine non ha più da combattere contro il negativo perché lo ha accolto, assunto in sé. A questo punto, non è che finisce il pensiero, ovviamente, ma può muoversi in tutt’altro modo; non ha più modo di combattere contro il negativo, cioè il nemico: non c’è più il nemico; ciò che è pensato il nemico, l’ostacolo, è diventato parte integrante del positivo, totalmente. Ma qui bisogna spesso distinguere tra il pubblico e coloro che si atteggiano a suoi rappresentanti e interpreti. Quello si comporta in più di un rispetto diversamente da questi, e anzi in modo opposto. Cioè: le persone fanno tutt’altre cose da quello che immaginano coloro che si ritengono loro interpreti. Da qui le catastrofi economiche, per esempio: si pensa che le cose vadano in un certo modo e, invece, vanno in tutt’altra direzione. È accaduto qualcosa che gli interpreti del pubblico non avevano previsto. Se quello preferisce bonariamente far colpa a se stesso che un’opera filosofica non gli si addica, questi altri invece, certi della loro competenza, riversano la colpa sull’autore. Alcuni dicono: sarà così…però, non capisco bene; invece, quegli altri dicono no, è colpa dell’autore che non ha capito niente. Nel pubblico l’effetto è più discreto che non l’agitarsi di quei morti quando seppelliscono i loro morti. Questa è una frase famosa di Hegel. Se ora il generale discernimento è in media più elevato, la sua curiosità è più sollecita il suo giudizio più rapidamente si determina, così che già davanti all’uscio sono i piedi di coloro che ti porteranno al camposanto, bisogna tuttavia saper distinguere quel più lento effetto che, un po' alla volta, rettifica l’attenzione cattivata da asserzioni roboanti, e modera il biasimo della stroncatura. Naturalmente, qui allude sempre alla speculazione, il pensare alle cose. Cosicché questo lento effetto prepara agli uni, solo dopo qualche tempo, un mondo che è il loro, mentre gli altri, dopo il plauso dell’attimo fuggente, non avranno posterità alcuna. Del resto in un’età, nella quale l’universalità dello spirito è fortemente consolidata, e la singolarità, come si conviene, è divenuta di tanto più insignificante; in un’età in cui l’universalità fa gran conto di tutta la sua comprensione e dell’adunata ricchezza e la si esige; soltanto minima può essere la partecipazione all’itera opera dello spirito assegnata all’individuo;… Dei grandi movimenti si vede soltanto il movimento della massa ma quello che fa l’individuo non si vede. …così questo deve a maggior ragione obliare se stesso, - il che, del resto, è già una conseguenza della natura della scienza, - e divenire e fare quel che gli sarà possibile; ma da lui si deve pretendere tanto meno, quanto meno egli può aspettare da sé e può per sé esigere. Anche se l’individuo viene cancellato nella massa, tuttavia, l’individuo è ciò che rende la massa quello che è. È un invito, quindi, alla speculazione da parte di ciascuno, a pensare da parte di ciascuno, anche se a quel tempo il singolo sembrava obliato nella massa dove, in effetti, il singolo sembrava scomparire di fronte a tanti avvenimenti mondiali. Hegel, invece, dice no, il singolo deve pretendere da sé il pensare, e affrontare il proprio pensiero. E con questo abbiamo concluso la Prefazione. Nell’Introduzione si occuperà della questione del metodo, e ci dirà che in effetti non esiste un metodo della filosofia; esiste un metodo della trattazione della filosofia, ma non può esserci un metodo della filosofia. Il compito della filosofia è di giungere al vero, ma come faccio a sapere che il metodo è vero se ancora non so cos’è il vero? Questione banalissima ma sempre presente. Ciò che è importante è che sia chiaro questo progetto. In fondo, nella Prefazione è come se Hegel mostrasse qual è il suo progetto, che poi sviluppa per tutte le seicento pagine. Il metodo è questo: la verità non è il risultato di un giudizio. Io giudico che questa cosa è vera: non è qualcosa che procede dall’esperienza, dall’autorità o da qualunque altra cosa. La verità è un percorso, è un processo, è questo lungo cammino dove passo dopo passo io affronto una proposizione, la porto al concetto, e cioè, affermando qualche cosa, tengo conto che ciò che affermo non è la verità ma una parte della verità perché, per poter essere la verità, occorre che contenga anche ciò che quella cosa non è, che è altro da sé. È tenendo conto di questo che la mia asserzione diventa vera, perché non è più un vero parziale. È come se, usando le parole di Severino, a questo punto io cogliessi l’intero, cioè, ciò che affermo è l’altro da ciò che affermo. Ciò che affermo, l’in sé, è come una proposizione vuota che attende di essere significata; così come il significante di per sé, in quanto tale, è vuoto senza il significato. Quindi, il lavoro, di cui parla Hegel, è questo tenere conto che ciò che affermo non è la verità a meno che non tenga conto dell’altro rispetto a ciò che io sto affermando, e cioè che ciò che sto affermando è soltanto una verità parziale. Il qualche cosa che ciò che affermo non è, è ciò che mi consente di cogliere, come dicevo, l’intero e, quindi, di incominciare il cammino verso la verità. La verità, a questo punto, è il movimento, è questo muoversi dall’in sé al per sé, e viceversa, dove un qualche cosa trova nel suo altro da sé ciò che lo fa esistere in sé. Ponendola nei termini di de Saussure, è molto più semplice; parlando di significante e significato è più evidente: il significante non è niente se non c’è un significato, e se questo significato non torna sul significante per renderlo significante, alla lettera, come qualcosa che significa qualcosa. Questo movimento è esattamente il movimento di cui parla Hegel, non è altro da questo: il significato è altro dal significante e, infatti, de Saussure ci mette una barra; rimangono due figure distinte ma, al tempo stesso, due momenti della stessa cosa, cioè il segno. Quindi, queste due figure restano, sono imprescindibili, ma sono imprescindibili in quanto momenti del segno – uno non c’è senza l’altro – ed è in questo movimento che il segno si produce, direbbe Hegel. Ovviamente, Hegel non parla di segno, non era una cosa di cui si occupava, ma indirettamente se ne sta occupando dicendoci che è questo movimento che fa del segno quello che è, questo movimento dal significante al significato e di ritorno dal significato al significante. Il significato sarebbe il per sé, sarebbe l’esplicito; il significante sarebbe l’in sé, il qualche cosa che muove verso un per sé, che è il suo significato, e dal quale per sé ricava il Sé e diventa il segno che è. Questo è il lavoro di cui parla Hegel. Certo, lui parla di moltissime altre cose, non solo di questo, ovviamente; comunque, il suo intendimento è sempre quello, e questo è il fondamento del suo pensiero, e cioè che affermare qualche cosa afferma sempre, comunque e necessariamente, una verità parziale. Non sto dicendo come stanno veramente le cose, perché le cose stanno ma stanno anche in altri modi. Io dico che le cose stanno così, che A è B. Bene, ma una volta che ho detto questo non mi accorgo che con questa affermazione io ho modificato anche la A. Quando affermo qualche cosa, il lavoro, di cui parla Hegel, è quello che mi porta ad intendere che ciò che affermo va al di là di ciò che io credo di affermare, c’è di più. Qui l’evocazione a Freud è inevitabile: c’è di più in ciò che sto dicendo. Si potrebbe fantasticare il per sé come l’altro, l’inconscio, quello che vi pare, ma sono analogie che lasciano il tempo che trovano.

Intervento: Io stesso vengo modificato…

Sì, è la coscienza, in effetti, che si modifica; la coscienza che si rivolge all’altro da sé, ponendo a questo punto l’altro da sé come parte di sé: ecco il movimento. Questo altro da sé è parte di sé. Ciò che escludo affermando una certa cosa non è che cessa di esistere. Come dicevamo tempo fa, è la condizione per potere affermare una certa cosa. È l’obiezione che ponevo a Severino: l’intero deve essere presente in ciascun atto di parola; se posso affermare ciò che affermo è perché l’intero c’è, è presente; quindi, non si dà la contraddizione C, anche perché se si desse, come dicevamo, tutto ciò che Severino ha scritto ne La struttura originaria sarebbe nulla; non ha risolto la contraddizione C e finché la contraddizione C non è risolta è autocontraddittoria. Per lui l’autocontraddittorio è nulla, quindi, La struttura originaria è nulla – per usare un sistema logico a lui molto caro. Quindi, questa Prefazione ci è servita per dare un’idea di qual è il progetto di Hegel, di cosa ci dirà nel prosieguo.