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19-6-2013

 

Peirce dice in modo esplicito che la questione del significato va posta in termini semiotici, cosa che non è così nuova, dicevamo la volta scorsa che è una questione antica, già gli stoici avevano posta la questione del segno tripartito. Il significato è sempre stato posto come un segno, come un rinvio, da qui l’affermazione di Peirce che diceva in un suo brevissimo scritto sul significato, che va posto in termini semiotici, cioè il significato è il rinvio da una parola alla cosa, metafisicamente. L’interesse di tutto ciò è che tutti coloro che ne hanno parlato si sono trovati di fronte al problema sul quale ha posto l’accento Wittgenstein, e cioè il fatto che parlando di significato, anche come uso, rimane sempre il fatto che questo significato, anche come uso appunto, dice che il rinvio dalla parola alla “cosa” è determinato non univocamente da qualche ghiribizzo di un dio beffardo, ma è dato semplicemente dall’uso. Qual è il significato del termine “orologio”? È l’uso che ne faccio, ci guardo l’ora, ci faccio delle cose, però è sempre comunque un rinvio, necessariamente, ché se non rinvii si blocca tutto e scompare ogni cosa. Il problema, dicevo, che Wittgenstein ha sottolineato più o meno direttamente, è che comunque questo rinvio è sempre al “mondo”, cioè alla totalità dei fatti, ma questi fatti per Wittgenstein hanno sempre comunque un rinvio a un qualche cosa, a un qualche cosa che è la realtà, poi che questa realtà non si possa che descrivere, non si possa che dirne qualche cosa, ipotizzarla, supporla eccetera, questo è un altro paio di maniche, resta il fatto che comunque, perché un segno sia segno, occorre che rinvii a qualche cosa. Ma a nessuno è venuto in mente che questo qualche cosa non è altro che un altro rinvio, la semiotica c’è andata vicino, ma lo stesso Greimas e tutti coloro che hanno riflettuto intorno al segno e alla teoria del segno, quindi al significato, pongono il rinvio, in qualunque modo lo si veda, si ponga, è sempre un rinvio necessariamente alla “realtà”. Tutta la filosofia analitica poggia sull’idea che il discorso scientifico sia l’unico in condizioni di dire, di formulare proposizioni corrette quindi vere, sulla scia in parte del primo Wittgenstein. Ma se noi, Eleonora, connettiamo tutte le teorie del segno, quindi del significato, a partire dagli stoici fino a Wittgenstein, con i risultati ottenuti dalle riflessioni di in prima istanza di De Saussure poi Hjelmslev e Greimas e Peirce, allora ti accorgerai che il passaggio dal significato come rinvio da una parola, adesso la diciamo nel modo più rozzo possibile, all’oggetto si “problematizza”; perché? L’oggetto che dovrebbe essere il garante della veridicità della parola, la realtà come garanzia che stai dicendo il vero, la nozione di verità per i greci, l’orthotes, allora ti accorgerai che questo passaggio problematizzato comporta una domanda intorno alla cosa, all’oggetto. Qui potrai avvalerti di nuovo di Wittgenstein, del secondo Wittgenstein, allora questo oggetto di cui parla il designans, scivola verso un’altra parola, e cioè ciò che dovrebbe garantire il segno, garantire nel senso che questo segno, questo rapporto, questo rinvio, questa relazione è vera, è adeguata, diventa complicato, perché se ciò a cui rinvia è un’altra parola, cioè un altro segno, allora che cosa garantisce questa adeguatezza se non c’è più qualche cosa, che per Peirce era l’interpretante logico finale, quello che dà un senso a tutta la catena? Se non lo trovi allora c’è un passaggio dalla parola all’oggetto che è un’altra parola, rinvia a un’altra parola, che rinvia a un’altra parola, e cioè si produce quella che Hjelmslev chiamava una “cascata di semiotiche” una cascata di segni, segni inarrestabili. Questo ti porterebbe abbastanza rapidamente a una sorta, mettiamolo tra virgolette, a una sorta di “scetticismo”, cioè non è possibile affermare la verità di nessuna proposizione, però qual è l’obiezione che viene fatta agli scettici da chiunque? Che per la loro stessa affermazione non è possibile affermare la verità, non è possibile perché anche questa non è una verità, proprio per ciò che loro stessi affermano. Ma l’obiezione che potrebbe venire da un filosofo analitico è che è necessario che ci sia il “dato”, occorre qualche cosa da cui partire, quindi deve esserci qualche cosa, il dato, il dato dell’esperienza, ciò che incontri, il mondo che ci circonda. Se non avessimo il linguaggio probabilmente non avremmo la percezione del mondo, tuttavia se non ci fosse il dato il linguaggio sarebbe linguaggio che dice che cosa? Parte da che cosa? Ci vuole un dato. Tu cosa obietti immediatamente Eleonora? La contro obiezione a un’affermazione del genere non è difficile, perché se io dico che ci vuole un dato da cui partire che cosa sto facendo dicendo questo? Sto affermando una verità assoluta? Sto affermando una necessità incontrovertibile? Oppure ciò che sto dicendo è controvertibile? Intanto dovremo sapere che cos’è un dato, e allora il dato o è qualcosa che procede dall’esperienza e allora in questo caso poniamo l’esperienza come il giudice assoluto dell’esistenza di qualunque cosa, giudice supremo e inappellabile. Il problema è che se non si pone il dato come prodotto dell’esperienza allora questo dato da dove arriva? È un bel problema, un problema che la filosofia analitica non solo non risolve ma neppure si pone in linea di massima però…

Intervento: qualcuno se lo sarà posto…

Si limitano a valutare quali sono le proposizioni corrette all’interno di un certo sistema, ma alla base di tutto, e cioè se qualche cosa garantisce ciò che stanno facendo o se ciò che stanno facendo sia fondabile oppure no, questo è un altro paio di maniche. Ma al di là di questo ecco, il dato dell’esperienza; abbiamo detto che l’esperienza non possiamo porla come fondamento, come garanzia assoluta dell’esistenza del dato, e quindi da qualche parte deve arrivare ma nessuno si è mai occupato di sapere da dove arriva, lo stesso Wittgenstein non conclude la questione, la lascia lì “c’è il mondo, c’è e basta, noi ci occupiamo di ciò che c’è”, la seconda obiezione è “come so che c’è qualcosa?” non tanto “perché c’è anziché non esserci?”, la famosa domanda leibniziana ripresa da Heidegger, il problema è da dove arriva questo dato. È una questione non facile da approcciare però è fondamentale. Se il dato arriva dall’esperienza, cosa molto discutibile, questa esperienza è universale? È soggettiva, è condivisa? Non è condivisa? Ha un valore di verità? Non ce l’ha? Oppure come dice Wittgenstein che quando si è in mezzo alle persone, le persone pensano così, che non è un granché come ipotesi teorica. Siccome ne parliamo di questi dati, sono la condizione perché ci sia un significato, ché senza un dato non c’è un significato, perché una parola deve rinviare a un qualche, cosa perché se non rinvia a niente, che segno è? Se non è un segno non è neanche un significato; a questo punto, se abbiamo detto “la parola rinvia alla cosa, ma la “cosa” è un’altra parola che rinvia a un’altra senza possibilità di arrestarsi”, l’obiezione della filosofia analitica è che comunque c’è il dato da cui si parte. Ma la filosofia analitica non sa dire che cosa sia, in cosa consista esattamente questo dato, semplicemente c’è, è ciò che c’è, ciò che incontriamo. A questo punto immaginare che le cose si diano così, teoricamente è un’ipotesi abbastanza azzardata, anche perché c’è l’eventualità che le cose si diano perché esiste un qualche cosa che letteralmente le costruisce, quindi non c’è più il mondo ma il mondo è una costruzione, una invenzione. Per intendere questo passaggio, che è arduo, occorre considerare la questione del linguaggio, non tanto come l’ha considerata Wittgenstein ma piuttosto come l’hanno considerata Turing, Von Neumann, Boole, e altri e poi McCallum e Pitts, uno un logico, l’altro un neurofisiologo. Questi due signori hanno fatto un lavoro interessante, naturalmente prima c’era già stato Turing, c’era già stato Von Neumann, e Boole, senza il quale non si sarebbe potuto fare un granché, questi due tizi, dicevo si sono resi conto che il lavoro di una macchina, di un computer di fatto è il lavoro che compie il sistema nervoso e che di conseguenza studiando il sistema nervoso è possibile collegarlo concettualmente al lavoro di una macchina, fili elettrici e interruttori. Questo lavoro ha portato a un modo di considerare il linguaggio molto differente da tutto ciò che era stato fatto e detto prima, perché a questo punto “linguaggio” non è più quella cosa che consente di descrivere le cose, rapportarci al mondo, dire se una certa cosa è vera o falsa, attraverso la sua grammatica. Wittgenstein c’è andato vicino quando diceva che è soltanto questione di regole, sì però le regole sono quelle che costituiscono il linguaggio il quale comunque ha un referente che è fuori dal linguaggio stesso, appunto il dato, la cosa che c’è. Turing e tutti coloro che hanno costruito i computer, hanno dovuto direttamente o indirettamente costruire una nuova definizione di linguaggio, quindi non più come qualcosa che costruisce delle descrizioni di qualche cosa, ma come un sistema chiuso di informazioni e di istruzioni. A questo punto accade che la questione del dato non si pone più. Da dove viene il dato dall’esperienza? Il dato non è altro che un’informazione che viene trasmessa, trasmettendo questa cosa che chiamiamo linguaggio, cosa che rivoluziona totalmente ogni teoria del linguaggio precedente, il linguaggio non è altro che, come l’informatica ha rilevato, un programma che costruisce, in base a delle regole stabilite delle sequenze che sono quelle cose che noi chiamiamo parole, discorsi, racconti, storie, vita. Ciò a cui conduce una considerazione del genere è che non si tratta tanto di stabilire delle regole attraverso le quali costruisce sequenze, ma, e questa è la cosa importante, questa stessa teorizzazione del linguaggio è costruita da informazioni e istruzioni che non hanno bisogno di nessun dato, a meno che con “dato” si intenda ciò che si intende comunemente nella parola inglese “database” base di dati, cioè una base di informazioni che la macchina utilizzerà per costruire altre informazioni. Tutta la teoria del linguaggio a questo punto non è che venga ridotta all’informatica naturalmente, la prima obiezione che potrebbe essere fatta “ma come tutta la filosofia del linguaggio, la logica, la semiotica diranno pure qualcosa! Certo che dicono qualcosa, e hanno anche un senso ovviamente, ma di che cosa parlano? È una domanda che anche Wittgenstein si pose a un certo punto, di che cosa stiamo parlando? Russel poi disse che la logica è quella teoria che di fatto non parla di niente, che non è vero, voglio dire quando chiedo “di che cosa sta parlando?”, se si riferisce a qualche cosa che è esterno allo stesso gioco che si sta compiendo, sì, potrebbe essere esterno a quel gioco nel senso che si riferisce a un altro gioco ma la domanda è: può riferirsi a qualche cosa che non sia un altro qualunque gioco, se sì come? Ecco che qui non c’è più la domanda “da dove viene il dato?”, una domanda fatidica alla quale che io sappia nessuno ha dato una risposta che fosse per lo meno soddisfacente o di qualche interesse, tutte ruotano intorno all’unica cosa che disse Quine quella volta “la logica è così perché si ragiona così”. Lo stesso Wittgenstein dice la stessa cosa quando dice che i dati sono quello che c’è “noi parliamo, partiamo, ci muoviamo da quello che c’è, da quello che abbiamo”, che nel luogo comune è anche plausibile, verosimile, “non possiamo partire da ciò che non c’è, bisogna partire da quello che c’è” e questa è la tesi fondamentale di tutta la filosofia analitica. Quindi il problema del dato a questo punto non c’è più perché il dato viene semplicemente trasmesso trasmettendo un sistema operativo che è il linguaggio, insegnando il linguaggio, addestrando al linguaggio, esattamente così come si addestra una macchina a parlare e quindi a pensare, si passano, si trasmettono dei dati cioè delle informazioni, ma queste informazioni non si riferiscono a qualche cosa che è fuori della macchina, che è fuori dal linguaggio, questi dati sono soltanto degli elementi utili alla macchina per funzionare. Vi faccio un esempio, la corrente elettrica non è che dà un senso a ciò che fa la macchina, non dà nessun senso, né decide che cosa una macchina può fare o non può fare, semplicemente la fa funzionare, è ciò che consente alla macchina di avviarsi. I dati sono soltanto degli elementi che non hanno nessun riferimento di per sé a niente, cioè fuori dal sistema in cui sono inseriti e attraverso cui funziona il sistema, fuori da questo sistema questi dati non sono niente. Una parola fuori dal linguaggio non è niente, non è neanche una parola, perché per essere parola occorre che sia all’interno di un sistema che la definisce e dice che quella cosa è una parola. Quindi essa sia viene trasmessa da questo sistema ma non ha nessuna funzione, nessun riferimento, nessuna utilità, nessuna validità, nessuna esistenza fuori dal sistema entro il quale agisce, entro il quale produce delle altre cose che chiamiamo “significato” per esempio. Siamo noi che chiamiamo “significato” questo rinvio di questo qualche cosa a qualche altra cosa, lo chiamiamo “significato”, ma non è che il significato esista da qualche parte, come un quid. La parte più difficile è quella che riguarda la trasmissione, per questo ci siamo dovuti agganciare a quella operazione che hanno fatto alcuni per costruire un computer, una macchina: com’è che ad un certo punto un pezzo di ferro incomincia a produrre delle sequenze? Come fa? Certo i dati li abbiamo immessi noi, e a noi chi ce li ha immessi? Esattamente così come il programmatore fa funzionare la macchina, chi addestra il bambino fa funzionare il bambino, non è diverso. Posta la questione in questi termini allora il significato perde ogni connotazione magica o enigmatica, perché a questo punto non è altro che un’istruzione che fornisce a un rinvio un’identità, al solo scopo, non di dire che cos’è, che non significa niente, ma di poterlo utilizzare, cioè perché la macchina possa continuare a funzionare.