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19 maggio 2021

 

L’essenza della verità di M. Heidegger.

 

L’essenza della verità per i greci, Heidegger ce lo ha detto in mille modi, è la svelatezza. C’è una questione importante però che mi ha interrogato in questi giorni: che cosa è accaduto nella Grecia antica, fra il VII e il V secolo avanti Cristo? Cosa è successo nel pensiero? Cosa ha consentito il passaggio dal mito al pensiero argomentativo, logico, razionale? Non che prima non argomentassero, se si parla si argomenta, ovviamente. Ma ciò che è intervenuto è qualcosa di specifico, e cioè l’idea che l’argomentazione potesse condurre alla verità, cosa che mancava nel mito. Il mito è un racconto, racconta delle cose – gli dei fanno questo, la natura fa questo, e noi ci comportiamo di conseguenza – ma non c’è una domanda intorno al perché avvengano queste cose. Perché ci sia questa domanda è necessario che ci siano degli strumenti per dare una risposta a questa domanda, altrimenti non viene neanche in mente di porsi la domanda. Gli strumenti per rispondere alla domanda sono appunto strumenti argomentativi, come la logica, i sillogismi. Il passaggio dal mito alla filosofia, cioè un pensiero che si interroga. Il mito non si interroga, non interroga per esempio ciò che fanno gli dei, non c’è una domanda, non c’è un “perché lo fanno?”, non c’è un principio di ragione. Dunque, dicevo, che occorreva un elemento e questo elemento lo ha fornito Parmenide. Ecco perché è così importante Parmenide, segna un punto di svolta: dopo Parmenide tutto è cambiato, nulla è stato più come prima. Cosa ha fatto Parmenide? Ha fornito quell’elemento che consente di costruire un’argomentazione valida, vera, stabilendo la certezza della premessa: l’essere è. Parmenide ha detto che quello che è è necessariamente quello che è per se stesso, cioè, l’essere è non per volere degli dei ma è necessariamente quello che è per sé. E questo è l’elemento che mancava, un qualche cosa che ponesse le condizioni per potere pensare la validità di una premessa su cui costruire un’argomentazione. Qual è questa premessa? È l’essere, cioè la verità, l’λήθεια. Lo dice qui Heidegger continuamente: l’λήθεια è l’essere, essere e verità sono lo stesso. Solo a partire da Parmenide è stato possibile costruire un’argomentazione valida, vera, quando cioè la premessa ha avuto la possibilità di potersi affermare con certezza: l’essere è. Da qui una serie di conseguenze, la prima delle quali è che il non essere non è. Parmenide ha posto la condizione perché il pensiero potesse operare una svolta radicale e, infatti, da allora non si è più tornati indietro. Ha posto le condizioni per la tecnica, per la logica, pur non parlando né dell’una né dell’altra cosa, ha posto le condizioni perché queste cose potessero essere pensate. Prima di lui, il pensiero mitico non poteva pensare un’argomentazione che raggiungesse la verità, l’essenza della cosa, perché non c’era l’idea di una premessa, cioè di un punto da cui si parte e che è necessariamente quello che è. A noi sembra una banalità, ma allora non lo era affatto, c’è voluto Parmenide che lo stabilisse. Parmenide ha dato l’avvio al pensiero, a tutto il pensiero occidentale, che non ci sarebbe potuto essere senza di lui. Per questo motivo, dopo Heidegger torneremo a leggere il Poema della natura di Parmenide perché lì dobbiamo reperire, e possiamo reperirlo solo lì, quegli elementi che hanno consentito di prendere il potere sulle cose. Questo perché lo stabilire la pensabilità di un’argomentazione corretta è anche quella di potere stabilire il potere sulle cose. Prima, nel pensiero mitico, il potere era degli dei, quindi, si poteva soltanto ingraziarseli sacrificando ora questo ora quello, ma non c’era una presa sulle cose, perché non c’era la possibilità di stabilire se le cose erano così oppure no. Quindi, è come se Parmenide avesse fornito uno strumento potente alla volontà di potenza. Non che prima la volontà di potenza non ci fosse, naturalmente, c’è sempre stata, però ha fornito l’arma alla volontà di potenza per potersi esercitare su tutto, attraverso il λόγος. Per potere esercitare un potere sulle cose occorre che queste cose siano quelle che sono, occorre poterle determinare, poterle misurare, poterle conoscere. Soltanto Parmenide ha fornito per primo questo strumento dicendo “l’essere è”. “L’essere è” non per volere degli dei, anche se nel suo poema parla di λήθεια, certo… Sì, certo, la dea λήθεια lo aiuta ma poi è lui a scoprire che l’essere è in quanto causa sui, non per virtù degli dei, ma per virtù propria, vale a dire, è possibile stabilire qualcosa di fermo, di stabile, di sicuro, di certo, di incontrovertibile. Parmenide ha posto la condizione per la pensabilità della verità così come la concepiamo oggi, non come qualcosa che appartiene agli dei ma come qualche cosa che appartiene all’ente. Lo dirà poi qui Heidegger. A un certo punto dice, lo leggeremo, che per il greco l’λήθεια non appartiene al discorso ma appartiene all’ente. Ma cosa vuol dire che appartiene all’ente? Non sono le cose che sono vere. Se io chiedessi a Gabriele “quel tavolo è vero o falso?”, lui mi guarderebbe e penserebbe  ma che razza di domanda mi sta facendo? Non significa niente questa domanda, perché per il greco l’ente è vero nel senso che “è”, che è quello che è. Per questo lui accosta giustamente l’λήθεια all’essere, perché sono la stessa cosa. In questo senso la verità appartiene all’ente, perché la verità dell’ente è il fatto di esistere, di essere ciò che è. Poi, certo, non avendo gli strumenti, i greci non si accorgevano che tutto questo era nel dire. A questo punto si apre nel pensiero greco una faglia. Qui occorre fare un piccolo riferimento alla strana vicenda di Democrito di Abdera, allievo di Leucippo. Democrito ha pensato a un certo punto che le cose non siano ordinate, ma fatte di atomi che si muovono in uno spazio vuoto, in un modo assolutamente casuale. A seconda del modo in cui gli atomi si aggregano o si disgregano tra loro, compaiono e scompaiono le cose. Vita e morte sono soltanto modi differenti di aggregazione degli atomi. Questi atomi, come dicevo, non hanno nessuna causa, nessun motivo, accadono. Se si pensa all’epoca, a quel tempo esistevano varie cosmogonie, l’idea era che il cosmo avesse un suo equilibrio e un suo ordine. C’è un ordine nelle cose, c’è un ordine perché al giorno segue la notte, alla notte segue il giorno, le stagioni si susseguono, la vita e la morte si alternano. Da qui l’idea del giusnaturalismo: c’è un ordine nelle cose, quindi, noi, che facciamo parte delle cose, della natura, siamo governati da qualcosa che ha un suo ordine. Ora, perché mai debba esserci questo ordine non si è mai saputo, ma è stato preso per buono. Il diritto naturale si è fondato sul fatto che la natura avesse un suo ordine, che non si deve mettere in discussione. A questo punto capite immediatamente che la posizione di Democrito, il quale diceva che non c’è nessun ordine, che non c’è mai stato e non ci sarà mai in quanto le cose si aggregano e si disgregano casualmente in modo totalmente arbitrario – di fatto, non c’è nemmeno l’arbitrio, non c’è nulla – questa posizione di Democrito era devastante, tanto che nell’Accademia di Platone c’era il divieto di pronunciare il nome di Democrito. Aristotele ne parla, certo, ma accusandolo pesantemente. Perché? L’accusa che Aristotele rivolge a Democrito è di non avere colto i principi primi, di non avere dato risposte alla domanda “perché?”. Il fatto è che lui, Democrito, non poteva rispondere, non poteva spiegare qualcosa che non ha nessuna spiegazione, per cui l’accusa che Aristotele gli rivolgeva è vana: voleva che Democrito spiegasse come stanno le cose quando lui stesso diceva che non c’è nessuna spiegazione. L’opera di Democrito fu totalmente cancellata, non è rimasta traccia da nessuna parte, non è rimasto un solo frammento, tutto è stato cancellato dalla faccia della terra. Non si sarebbe saputo nulla di lui se non fosse comparso nel Rinascimento il testo di un latino, di un romano, Tito Lucrezio Caro. Lucrezio, scrivendo il De rerum natura, ha riportato la posizione di Democrito, e quindi di Epicuro, come se Epicuro avesse costruito un’etica a partire dalla posizione teoretica di Democrito. Questa era naturalmente una posizione totalmente atea, contro ogni possibile organizzazione: tutto è casuale, gli atomi si aggregano e si disgregano come pare a loro, quindi, non c’è nulla da temere, perché non c’è nulla. Se non ci fosse stato questo testo di Lucrezio non avremmo saputo niente di Democrito, perché è stato cancellato dalla faccia della terra.  La posizione di Democrito manda all’aria ogni idea di diritto naturale, perché non c’è nessun ordine. L’ordine è ciò che è numerabile, è ciò che è disponibile in una successione determinata. Tutta la filosofia presocratica, e poi greca, non ha mai tenuto conto di Democrito. Come dicevo, lo ha cancellato, e questo perché andava contro il pensiero dominante, che era quello della cosmogonia, che diceva che tutto il cosmo era ordinato in un certo modo, con tutti cieli, i vari cerchietti concentrici, ecc., come riporta ancora Dante. Quindi, c’è un ordine e solo con questo ordine è possibile stabilire un diritto e, quindi, governare i popoli. Il pensiero di Democrito rendeva impossibile il governo e anche per questo è stato eliminato. Questo ci riporta al nostro Parmenide, il quale invece ha fatto esattamente il contrario di Democrito. Ha detto che “l’essere è”, c’è qualche cosa che è quello che è. Ovviamente, non si tratta di stabilire se abbia ragione Democrito oppure Parmenide, Hegel direbbe che sono momenti dello stesso, ma sono due posizioni totalmente differenti. Nessuna logica si sarebbe potuta costruire a partire da Democrito. A partire da Parmenide, sì, perché lui stabilisce che l’essere è e, quindi, abbiamo in mano uno strumento con cui costruire argomentazioni vere. Ecco, quindi, la domanda che ponevo all’inizio: che cosa è successo? È successo che Parmenide per qualche motivo ha inserito questo elemento che mancava nel pensiero mitico e senza il quale elemento (l’essere è) non sarebbe stata possibile né la tecnica né la logica, né la scienza. Perché se non c’è un punto di partenza fermo, stabile, sicuro da cui muovere, non costruisco niente. Parmenide lo ha fornito, lo ha fornito utilizzando ovviamente un’argomentazione, il linguaggio. Dire che “l’essere è e non può non essere” è come dire che se dico qualche cosa sto ponendo ciò che dico ed è falso affermare che non lo sto ponendo. In qualche modo ha già intuito il funzionamento, l’agire del linguaggio. Chiaramente, siamo ancora lontani dall’articolarlo, però ha poste le basi. Come dire: per partire occorre partire da qualcosa che è stabile. Che cosa è stabile? Il significante, ciò che si dice, l’immanente, ciò che io sento, che è quello che è e non può non essere quello che è perché se non lo fosse non sarebbe più un significante. Tutto ciò che stiamo ora leggendo rispetto a Platone è qualche cosa che è venuto dopo, nel momento in cui era già dato per acquisito ciò che ha posto Parmenide, non era più un problema affermare che l’essere è. Potrebbe porsi come problema, come qualcosa che è da pensare, non come qualcosa da dare per buono. Infatti, è ciò di cui Heidegger “accusa” Platone, e di conseguenza Aristotele, e cioè di considerare l’λήθεια, la verità, come qualcosa ormai di acquisito, senza porlo più come problema, cioè, senza più interrogarlo. In questo senso si era già perso il pensiero più autentico, quello che domanda, perché intorno all’λήθεια non c’era più nessuna domanda. Già con Platone, già con Aristotele la cosa non questionava più. Il problema era stato trasformato in un utilizzabile: la verità ha cessato di essere problema, l’essere di Parmenide ha cessato di essere un problema ed è diventato un utilizzabile. Questo è anche uno dei motivi perché Nietzsche ce l’aveva così tanto con Platone. Dopo Platone ogni concetto è diventato un utilizzabile, necessariamente, perché non era più un problema, semplicemente è un utilizzato. Che è esattamente ciò che fa la tecnica: la tecnica non interroga niente, non sa neanche cosa voglia dire interrogare qualcosa, la tecnica usa. Ricordate la famosa definizione di tecnica da parte di Heidegger: la costruzione di strumenti in vista di scopi, quindi, qualcosa che deve essere utilizzato per altre cose. Non c’è più il domandare autentico, ma le cose diventano strumenti utilizzabili, e si utilizzano. Da allora è sempre stato così, non si è più tornati indietro, nel senso che oramai non era più da pensare, la cosa che importava era utilizzare: era partita la tecnica e da allora non si è più fermata. Partendo la tecnica si è arrestato il pensiero, nessuno ha pensato più nulla, tranne rarissime eccezioni. Ciascun concetto, anche filosofico, veniva utilizzato semplicemente per costruire altri concetti, come un mattone viene utilizzato per costruire una casa. La domanda autentica, quella che chiede in che cosa consiste questa cosa, di che cosa è fatta, perché è quella che è, è scomparsa del tutto e non è mai più riapparsa. Non è più ricomparsa perché non serve alla tecnica. Come abbiamo detto mille volte, al fisico non interessa sapere che cos’è il movimento, lo misura in tutte le maniere possibili e immaginabili, ma che cosa sia perché mai dovrebbe chiederselo? Ecco, quindi, che cosa è successo fra il VII e il V secolo avanti Cristo: Parmenide ha fornito quell’elemento alla volontà di potenza, da cui è scaturito tutto il pensiero occidentale. Come dice giustamente Heidegger, il pensiero occidentale è la tecnica. Poi, con Platone e con Aristotele, come abbiamo visto, non c’era più un domandare autentico ma un utilizzare dei concetti. La verità a questo punto interviene come nelle tavole di verità, vero/falso… Ma che cos’è vero? Perché dico che una cosa è vera? Fondamentalmente, il concetto è questo: una fantasia. E una fantasia è vera se collima con un’altra fantasia: in questo caso è vera. Se non collima, allora potrebbe essere falsa. Quello che ci dice, che lamenta qui Heidegger ne L’essenza della verità circa l’interrogazione della verità, è che non è già più un’interrogazione ma oramai solo più un utilizzo del concetto di verità. Dopo questo lungo preambolo, proseguiamo nella lettura. Qui siamo ancora a parlare della caverna. La caverna oramai è già nella tecnica, vale a dire, il sapere di quel tizio, che va fuori e poi torna dentro, è già uno strumento, uno strumento da diffondere, da utilizzare per persuadere altri. L’uomo, che va fuori dalla caverna, non si interroga sulle cose che vede, che pensa quello che sta accadendo; no, ma si precipita nella caverna per dire “guardate che io so come stanno le cose, e voi no!”. È questo che fa, cioè, il sapere è diventato una tecnica, non è più un domandare. A pag. 111. Il modo in cui egli libera non è un colloquio nel linguaggio, nelle intenzioni e nelle prospettive della caverna, ossia degli abitanti della caverna, ma un afferrare e uno strappar via con violenza. Non in modo tale da affrontare un discorso con gli incatenati nel loro linguaggio, cercando di convincerli attraverso il ricorso ai loro criteri, alle loro motivazioni e dimostrazioni. Questo lo si farà poi con il cristianesimo. Così facendo egli potrebbe rendersi, come dice Platone, tutt’al più ridicolo. Gli si direbbe infatti nella caverna che ciò che egli prospetta non corrisponde affatto a ciò che laggiù tutti quanti all’unanimità ritengono giusto. Gli si direbbe che egli è unilaterale e che, venendo da chissà dove, ha un punto di vista che ai loro occhi appare fortuito e arbitrario; e presumibilmente, anzi certamente, essi avranno laggiù una cosiddetta “sociologia del sapere”, con l’ausilio della quale gli si farà capire che egli procede secondo quelli che vengono chiamati presupposti ideologici, cosa che disturba sensibilmente, com’è naturale, la comunanza dell’opinione comune nella caverna e che va dunque respinta. Qui nella caverna conta soltanto (come risulta anche dalla descrizione di Platone) chi è il più furbo e il più scaltro, chi indovina più velocemente – secondo il loro punto di vista – a che cosa appartengono tutte le ombre che compaiono e che presentano ogni sorta di cose, e fra le altre anche la filosofia, e cioè chi indovina a quale disciplina, a quale tipo appartenga questa filosofia venuta da chissà dove. Qui non si vuol sapere di filosofia, ad esempio di Kant, m ci si interessa, al massimo, della Kant-Gesellschaft (del kantismo, della moda di Kant). Il filosofo non attaccherà direttamente questa chiacchiera della caverna troppo vincolante, ma la abbandonerà a se stessa e afferrerà invece subito uno (o pochi), lo terrà ben stretto e cercherà di trascinarlo fuori e di condurlo, attraverso una lunga storia, fuori dalla caverna. Il filosofo deve restare solitario, perché lo è nella sua essenza. La sua solitudine non può essere discussa. L’isolamento non è qualcosa che si può volere. Proprio per questo egli deve esserci sempre nei momenti decisivi e non può farsi da parte. Egli non fraintenderà la solitudine interpretandola nel senso esteriore di un ritirarsi e di una lasciar-correre le cose. A pag. 112. Non si tratta unicamente della ricomparsa nella caverna dell’uomo che già in precedenza vi era stato, ma del ritorno di colui che è divenuto libero nel ruolo di liberatore. Si tratta dell’accadere della libertà e della liberazione stessa, e questa storia è appunto il contenuto del mito della caverna. Come dire che tutta la storia dell’umanità è una storia di liberazione da ideologie, dalla chiacchiera. Ma liberazione qui è volontà di potenza, perché l’omino torna giù per far valere la sua verità. A pag. 114. …possiamo concludere, dal fatto che nel quarto stadio non si tratta più espressamente di άλήθεια, luce, ente, idee, che perciò l’άλήθεια non sia più il tema e l’elemento centrale dell’accadimento? Di essa non si para; tuttavia non abbiamo ancora esaminato questa sezione in vista di ciò. … Che cosa succede infatti? Colui che è divenuto libero ritorna, con l’occhio per l’essere, nella caverna. Egli deve essere nella caverna; vale a dire: l’uomo che è colmo dello spiraglio di luce che gli fa vedere l’essere dell’ente deve esprimere con e per gli abitanti della caverna le sue opinioni su ciò che è svelato loro colà, ossia su ciò che per loro è l’ente. Egli può farlo solo nel caso che rimanga fedele a se stesso, cioè in forza dell’atteggiamento di chi è libero. Egli dirà ciò che vede nella caverna con la sua visione dell’essenza. Ha visto come stanno veramente le cose. Che cosa scorge in anticipo in base alla sua visione dell’essenza? Egli comprende l’essere dell’ente; scorgendo l’idea egli sa dunque che cosa appartiene a un ente e alla sua svelatezza. Per questo può discernere se qualcosa è un ente… Sì, tutto questo va bene, ma rimane la questione, che è poi la domanda che ci ponevamo la volta scorsa, e cioè: perché torna indietro? A che scopo? A pag. 115. Egli cercherà di render loro comprensibile che, sì, sulla parete si mostra qualcosa che ha un aspetto, ma che esso ha soltanto l’aspetto dell’ente, senza però esserlo; che pertanto sulla parete ha luogo un costante velamento dell’ente e che essi stessi, gli incatenati, sono trascinati e irretiti da questo occultamento che si ripete di continuo. Che cosa accade dunque? Un contrapporsi di differenti posizioni fondamentali, ciascuna di diversa provenienza storica. In questo confronto entrano in gioco l’ente e la parvenza, il manifesto e l’occultante. Ma l’ente e l’apparente non entrano in gioco come se stessero l’uno accanto all’altro, bensì l’uno contro l’altro, poiché entrambi avanzano, potendo farlo, la pretesa di svelatezza. Ciascuno dei due, quelli incatenati e quello che è liberato, dice la sua verità e vuole imporla all’altro. A pag. 125. Le idee sono ciò che è massimamente ente perché danno a comprendere l’essere “nella cui luce” soltanto (come noi diciamo ancora oggi) il singolo ente, ed è quell’ente che è. Si parte dall’ente, certo, ma se si ascolta l’ente ci si accorge che l’ente è tale perché è nel concreto, è nel linguaggio, è nel tutto. Abbiamo visto che le idee non sono altro che linguaggio. Le idee sono al tempo stesso ciò che è massimamente svelato (in cui scaturisce la svelatezza), nella misura in cui soltanto per loro mezzo (in quanto sono ciò che è scorto) l’ente può mostrarsi. Soltanto nel linguaggio le cose si possono mostrare. Se ora però c’è un’idea somma, che si rende visibile ancora al di sopra di tutte le idee, allora essa deve stare al di sopra e al di là dell’essere… Che cos’è questa idea? È l’idea del bene, cioè, quella cosa che rappresenta il fine, il τέλος, il fine ultimo delle cose, perché è questa idea di bene che dà alle cose il loro essere. A pag. 126. …il compito dell’idea: contribuire a far scaturire la svelatezza dell’ente e, essendo ciò che è scorto, offrire alla comprensione l’essere dell’ente. A pag. 130. “Questo dunque, ciò che concede la svelatezza all’ente conoscibile, e che conferisce al conoscente la facoltà di conoscere, di’ che è l’idea del bene”. Questa è l’idea del bene. È ovviamente un’idea differente da quella che abbiamo oggi, e cioè come una sequenza di norme morali: questo è bene, questo no, ecc. Qui il bene è invece ciò che concede la svelatezza. Che cos’è che concede, che dà alle cose la loro svelatezza, che mi fa avvicinare le cose, che mi dice di andare verso le cose, che mi fa parlare? È la volontà di potenza. È questo il bene, e cioè il fine verso cui le cose tendono. A pag. 131. Certo, la comprensione dell’essere e la svelatezza rendono accessibile l’ente. Esse rendono possibile qualcosa. Ma questo loro rendere possibile è a sua volta consentito da qualcosa di più alto. A ciò si riferisce Platone quando dice “Ciò che è capace del bene va stimato ancora più alto” rispetto alla facoltà delle idee stesse. Con ciò è detto chiaramente che le idee sono ciò che sono, vale a dire ciò che è massimamente ente e ciò che è massimamente svelato nel senso che si è chiarito di “ciò che lascia passare attraverso”, solo in forza di un potere oro conferito che supera entrambi … nella loro unità. Un potere conferito. Chi è che conferisce un potere alle idee? La volontà che queste idee siano quelle che sono. Questo qualcosa che conferisce loro il potere di essere è l’idea somma. L’idea è, come sappiamo, qualcosa che può essere scorto, a che non sussiste di per sé, bensì è esso stesso quell’ente che è, all’interno di uno scorgere, di un preformarsi che dà forma. L’idea è legata essenzialmente alo scorgere, e non è niente al di fuori di questo scorgere. Questo scorgere è un atto di volontà, è quell’atto che consente di approcciare le cose, quella cosa che mi spinge verso l’approcciare le cose, che mi spinge a continuare a parlare. Siamo a pag. 135. Passiamo ora all’interpretazione dell’immagine relativamente all’ambito del conoscere. Ciò che viene conosciuto è l’ente in generale. Analogamente, come l’ente non possiede solo l’essere-visto ma anche l’essere, così anche al νοούμενον non spetta solo l’άλήθεια ma al tempo stesso l’ούσία. Non spetta soltanto la verità ma anche l’apparire. Sappiamo che l’etimo interessante che ci ha proposto di ούσία è la forma abbreviata di παρούσία, che è il manifestarsi di qualcosa; quindi, l’ούσία va inteso come il manifestarsi, il presentificarsi di ciò che è presente. Con ciò viene in chiaro che il bene è, sì, δύναμις (potenza), e dunque ha ancora il carattere di idea (il carattere di ciò che rende possibile, che conferisce potere), anzi ce l’ha nel senso più alto; ύπέκείνου, sotto la sua potenza soltanto, che conferisce il potere di essere, ci sono sia l’essere sia la svelatezza. C’è la δύναμις, che conferisce questo potere alle cose di disvelarsi. Qui, certo, occorrerebbe riflettere perché, in effetti, ciò che indichiamo come volontà di potenza è certamente la volontà di dominare, ma di fare sì che le cose siano quelle che sono. È la volontà di potenza che dà la sua potenza all’άλήθεια, alla verità, che la fa essere l’essere. Senza la volontà di potenza tutto questo lavorare intorno a questi concetti non avrebbe nessun senso, non importerebbe a nessuno. Ma dopo Parmenide è diventato fondamentale il potere affermare qualcosa con certezza: l’essere è. È diventato necessario per poterne esercitare il controllo, perché se qualcosa non è determinato, non è quello che è, non è immobile, fermo, non è manipolabile – come voleva Democrito – allora non controllo niente, non domino niente, la volontà di potenza fallisce. Questo conferire potere che sovrasta è diretto proprio alla possibilità delle idee, a rendere possibile ciò che le idee sono… Potremmo dire che è la volontà di potenza che rende possibili le idee, che rende possibili le cose, che le pone. …vale a dire ciò stesso che rende accessibile l’ente nella sua svelatezza e quindi in quanto ente, cioè nel suo essere. Il bene, l’άγαθόν, è quindi ciò che rende possibile essere e svelatezza in quanto tali. Il fine. Qual è il mio fine? Dominare le cose, averne il controllo. È questo che rende possibile l’essere e la svelatezza. Ma perché questo sia possibile, o anche soltanto pensabile, occorreva il gesto di Parmenide: l’essere è. O meglio: ciò che conferisce sia all’essere sia alla svelatezza il potere di pervenire alla loro propri essenza viene chiamato da Platone il bene (άγαθόν), cioè ciò che importa più di tutto il resto e per tutto il resto. Solo in questo senso può essere compreso l’άγαθόν: ciò che conferisce il potere di essere; esso non è un “bene” che è (un “valore”), ma ciò di cui ne va prima che di ogni essere, per ogni essere e per ogni verità. Decisivo non è il nome άγαθόν o magari la nostra traduzione, che naturalmente è molto ingannevole, ma ciò che con questo nome viene nominato. E che cos’è? Proprio questo: ciò che noi cerchiamo di ottenere nella domanda sull’essere e sulla svelatezza – ciò che importa e a cui ritorniamo in tale domanda. In essa noi chiediamo che cosa concede essere e svelatezza. Che cosa dà all’essere il suo essere ciò che è se non il mio domandare? È il mio domandare che fa esistere tutte queste cose, e questo mio domandare in questo modo ha come condizione il gesto di Parmenide. Di nuovo vediamo che il bene è ciò che conferisce all’essere e alla svelatezza il potere di pervenire alla loro essenza unitaria, unità. Più di questo Platone non dice sull’idea somma. Ma è abbastanza, anzi più che abbastanza per chi comprende questo poco. Comprenderlo significa niente di meno che porre effettivamente la domanda sull’essenza dell’essere, capire e cogliere il compito che è implicito in questo domandare seguire questo domandare fin dove esso conduce, tenergli testa e non eluderlo con risposte spicciole. A pag. 137. E proprio laddove Platone, più tardi, si è spinto quanto più possibile in avanti nel domandare dell’essere e della verità, cioè nel Sofista, l’essenza dell’essere viene posta nella δύναμις (potenza, potere) – in ciò che è soltanto conferimento di potere, e nient’altro. Badate bene, l’essenza dell’essere viene posta … in ciò che è soltanto conferimento di potere, e nient’altro, cioè, il domandare intorno all’essere è un esercizio di potere. A pag. 146. Ciò che è originariamente vero, cioè svelato, non è affatto l’asserzione su un ente, ma l’ente stesso – una cosa. Un ente è vero, in senso greco, se si mostra per quello che è e in quello che è: oro vero. Al contrario, il finto oro si mostra come qualcosa che non è. Esso occulta, vela il suo “che cos’è”, si vela in quanto quell’ente che propriamente è. Vero è dunque primariamente un carattere dell’ente stesso. Ma nel senso che è, non è che la cosa sia vera o fala, la cosa non è niente. L’asserzione è vera nella misura in cui… Qui incomincia a prendere piede la nozione di ορθότης, di adeguamento. …si commisura ad alcunché di già vero, cioè all’ente in quanto ciò che è svelato nel suo essere. La verità, intesa come questa conformità, presuppone la svelatezza. Entrambi i significati di “vero” (cosa vera e asserzione vera), che sono d’uso corrente e da lungo tempo ovvi e logori, scaturiscono nella loro dualità, ciascuno in modo diverso, dall’άλήθεια. Solo perché “vero” significa originariamente “svelato”, è potuta sorgere e continuare a sussistere l’ambiguità della parola tedesca “wahr” (vero). E così nell’equivocità della nostra odierna comprensione quotidiana della verità (del vero) è ancora operante il significato fondamentale di άλήθεια, sebbene totalmente sbiadito e occultato. È vero in quanto si mostra essere ciò che è, non si nasconde. Questo nascondimento, questo inganno, è ciò che fa lo ψεύδος: è ciò che per i greci è il falso. A pag. 151. Allora la prima cosa che dobbiamo domandare, in riferimento al nostro modo di procedere, è la seguente: da che cosa desumiamo che già in Platone e Aristotele, dunque in un certo senso nel periodo (inteso ampiamente) in cui ha origine questa parola άλήθεια, svanisce l’esperienza fondamentale in base alla quale essa è pronunciata? È quello che vi dicevo prima: l’άλήθεια non viene più pensata, viene utilizzata. Adesso dobbiamo assicurarci di ciò che abbiamo osato affermare e che non doveva essere una mera constatazione storiografica. Ci sono indizi sicuri del fatto che il significato fondamentale di άλήθεια è diventato ininfluente. … Un chiaro indizio ci viene dal fatto che già Platone intende l’άλήθεια come qualcosa che inerisce all’ente – tanto che l’ente stesso viene detto svelato, e l’ente e lo svelato vengono identificati, cosicché la domanda sulla svelatezza in quanto tale non è più viva. Ne è prova il fatto che non si fa questione della velatezza, contro la quale la svelatezza, se è tale, deve cozzare. Più precisamente: il fatto che nel domandare sull’essenza della verità si domandi anche della non-verità solo in un senso ben determinato. Se l’essenza della verità è svelatezza, allora il metro per il fondamento, l’origine e la genuinità della domanda sulla svelatezza riposa nelle modalità della domanda sulla svelatezza. Sì, άλήθεια è svelatezza, certo, ma la velatezza in che cosa consiste?  A pag. 153. Ma che cosa è ciò che si contrappone alla verità in quanto svelatezza e le è avverso? Appunto: la “non verità”! e così veniamo confrontati con il compito di domandare: come intendono Platone e i Greci del suo tempo la non verità? In che modo avviene la lotta contro essa? Ma intendiamoci bene: anche questa volta non poniamo una domanda storiografica sul concetto di non verità presente in Platone, bensì chiediamo se e come si faccia valere in esso la velatezza dell’ente, che è avversa alla svelatezza, cioè se e come la velatezza venga esperita appunto come ciò che dev’essere rapito e strappato via, affinché accada l’ά-λήθεια, affinché la velatezza diventi una svelatezza. A pag. 154. Ripetiamolo ancora una volta: la parola antica per indicare la verità è privativa; essa esprime un rimuovere, uno strappare, un lottare contro…, e quindi un’aggressione. Dov’è il nemico? Di che genere è la lotta? Soltanto se capiamo effettivamente queste due cose, presagiamo qualcosa dell’essenza dell’άλήθεια, cioè dell’origine di ciò che costituisce il fondamento intimo della possibilità del nostro esserci in quanto esistente. Se la verità è aggressione, allora il nemico dev’essere la non-verità. Se però verità significa: dis-velatezza, allora il nemico dev’essere la velatezza. Ma se è la “velatezza”, allora il nemico della verità non sono solo la falsità e l’inesattezza. Ma se è così, allora la stessa non-verità è ambigua, e proprio questa ambiguità della non verità nasconde alla fine in sé l’intera pericolosità del nemico della verità e di conseguenza la minaccia insita in ogni determinazione dell’essenza della verità. È come dire che l’άλήθεια dà l’opportunità del controllo, del dominio; la non verità lo toglie. In questo caso la non verità sarebbe come l’irruzione di Democrito in questo ordine perfetto. Per vedere chiaramente su questo punto in futuro, annotiamo esplicitamente che intendiamo “non-verità” nel senso di negazione della verità, cioè in un senso che non significa necessariamente “falsità”, ma che può e deve avere anche molti altri significati. Non-verità è non-dis-velatezza. Non-dis-velato è: 1. ciò che è non ancora svelato, 2. ciò che è non più svelato. /…/ Con il duplice concetto di non verità il compito di domandare dell’essenza della verità si è ora per noi trasformato. La non verità non è un termine opposto che si presenti “accanto” (alla verità) e che successivamente vada anch’esso preso in considerazione, ma la stessa domanda sull’essenza della verità è in sé la domanda sull’essenza della non-verità, poiché questa appartiene all’essenza della verità. Qui sembra di leggere Hegel. La non verità è qualcosa che appartiene alla verità, non è qualcosa che le sa accanto da qualche altra parte. Adesso qui c’è un suggerimento di Heidegger che può essere interessante. A pag. 157. Nello svolgimento pratico procederemo come nell’interpretazione del mito della caverna. Non è importante in primo luogo insegnare come procedere in genere nell’interpretazione di un testo filosofico (questo solo en passant), bensì risvegliare la domanda (predeterminata)sulla non verità come domanda fondamentale, correttamente intesa, sull’essenza della verità. Risvegliare la domanda: questo è ciò che invita sempre a fare Heidegger. Perciò per il fine immediato del corso non è necessario che voi padroneggiate da voi stessi il testo greco; anzi, dovete poter seguire il domandare anche senza il testo. Per vostra comodità è auspicabile che vi procuriate una edizione del testo greco o che teniate a fianco una traduzione. È sufficiente una traduzione, meglio se quella di Schleiermacher /…/ Infatti una traduzione è solo l’ultimo risultato di una interpretazione condotta effettivamente fino in fondo; il testo viene tra-dotto in una comprensione che è un interrogare autonomo. È così che Heidegger vede l’interpretazione: come un interrogare. Come non sono favorevole allo studio con semplici traduzioni, altresì vi metto in guardia dal credere che il dominio della lingua greca assicuri già la comprensione di Platone o di Aristotele. Sarebbe stupido, come se si dicesse che, per il fatto che capiamo il tedesco, capiamo già anche Kant o Hegel – e non è sicuramente così.