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19 aprile 2023

 

I concetti fondamentali della filosofia aristotelica di M. Heidegger.

 

Ciò che abbiamo letto ultimamente ci porta ad alcune considerazioni. La prima, che potremmo mettere quasi come esergo a ciò che stiamo facendo da qualche tempo, potrebbe formularsi così: ciascuno, parlando, parla sempre e soltanto di parole. Potremmo dire che questa formulazione era già implicita in ciò che dicevamo già tempo fa, e cioè che non c’è uscita dal linguaggio. Non c’è uscita dal linguaggio in quanto il pensare di uscire dal linguaggio prevede l’esistenza del linguaggio. Ma, supponendo di essere usciti dal linguaggio, come faccio a sapere di essere fuori dal linguaggio se non ho il linguaggio per saperlo? Quindi, per sapere di essere fuori del linguaggio debbo essere nel linguaggio. Questa questione ci porta immediatamente su un’altra. Quando affermo una qualunque cosa, per es. che A è B, posso dimostrare questa cosa, e cioè che A è B? Naturalmente, verrebbe da dire di sì, in base a certe regole di dimostrazione che vengono accolte, ecc., ma queste regole chi le dimostra, da dove arrivano, chi le ha stabilite, in base a quali criteri? La cosa può diventare estremamente complicata, e cioè dimostrare che A è B. Ma, a questo punto, se la dimostrazione appare impossibile, allora dire che A è B significa propriamente questo: voglio che A sia B. E qui, ecco, la volontà di potenza: voglio che sia così, perché non posso dimostrarlo, nel senso che dovrei poi dimostrare la dimostrazione. Era il problema di Wittgenstein, che chiedeva: chi dimostrerà la dimostrazione? Quindi, parlando, ciascuno parla di parole, non è possibile parlare della cosa, perché non abbiamo accesso a ciò che chiamiamo la cosa, anche perché quella cosa, alla quale vorremmo avere accesso, è lei stessa un discorso, è fatta di parole, ogni ente è fatto di parole. Cercando la cosa mi trovo a volerla determinare, definire, stabilire, ma tutte queste cose prevedono le parole; quindi, cercando la cosa ciò che trovo sono parole, sempre e soltanto parole. Ecco perché vi dicevo che ciascuno parlando parla di parole, non parla mai di quella cosa che immagina che faccia da supporto, da referente alle parole, perché anche questo supporto, questo referente sono altre parole. Naturalmente, qui si pone una questione, che ci occuperà per i prossimi vent’anni, e cioè quali sono le implicazioni di questa formulazione, che ciascuno parlando parla sempre e soltanto di parole. Cosa implica, cosa comporta esattamente per ciascuno, in ciò che dice, in ciò che fa, in ciò che pensa, in qualunque circostanza? Sono implicazioni che per il momento sono ancora difficilmente immaginabili, però meritano di essere indagate, esplorate, articolate, pensate. Ecco allora l’esergo rispetto a ciò che stiamo facendo: ciascuno parlando parla solo di parole. Heidegger qui arriva quasi a dirlo. Pag. 209, Heidegger riflette ancora sulla questione del πάθος, delle emozioni, ecc., ma questo πάθος è ciò che lo condurrà poi al pensiero, perché il πάθος, le emozioni sono fatte di racconti, di pensieri. Senza il linguaggio non ci sono passioni, non ci sono emozioni. La paura, per esempio, per noi è un’emozione, ma per l’animale no, è una reazione, reagisce a delle cose, non sa niente della paura. Etica Nicomachea, libro II, capitoli 1-5: solo le cose più importanti per dimostrarvi la ἓξις (l’essere pronto per ciò che sta per accadere) e per chiarirvi nel contempo un concetto fondamentale dell’Etica Nicomachea, la μεσότης. Μεσότης non significa “mediocrità”, non è una determinazione dell’agire umano, dove ne andrebbe, appunto, della modestia del vivere, non è una cosiddetta “morale borghese”, un principio di “gerarchie di valori”; al contrario, essa è fondamentalmente riferita alla ἓξις, quindi all’esserci dell’uomo, alla πρᾶξις, dunque al καιρός. All’agire, che è sempre riferito al tempo: agisco in questo momento o tra un quarto d’ora? Devo decidere il momento giusto per agire. L’Etica Nicomachea è tutt’altro che l’etica di una medietà mediocre e del vivere convenzionale. Dalla comprensione del nesso tra ἓξις e άρετή emergono quattro elementi fondamentali dell’esserci:… Tenete sempre conto che quando Heidegger parla di esserci parla dell’uomo. 1. Che l’“agire”, la πρᾶξις, il prendersi cura, è in se stesso prendersi cura dell’esserci che si prende cura. Potremmo facilmente riportare tutto ciò a ciò che diceva Gentile: il pensiero che pensa se stesso, è questo il prendersi cura del proprio prendersi cura, cioè, pensare il proprio prendersi cura. Nel darsi d’attorno nel mondo, nell’avere a che fare con altri uomini e nel dedicarsi a essi, l’esserci che agisce così si prende cura di se stesso, del suo essere. Prendendosi cura di altri, che sono parole, si prende naturalmente cura di sé, cioè del suo discorso, perché questi altri, a cui si riferisce, sono necessariamente il suo discorso, sennò non potrebbe averne alcun accesso. Questo fenomeno fondamentale è celato nel concetto della ἓξιςἓξις intesa come avere qualcosa –, quindi nell’avere in quanto modo dell’essere, dell’essere-posto nei confronti dell’avuto. 2. Nella ἓξις l’esserci si mostra in modo più preciso nel suo essere di volta in volta. L’essere dell’uomo, la vita umana in quanto esserci, è di volta in volta, nell’attimo: la ἓξις è un essere-pronto dell’esserci, orientato sull’attimo. L’essere pronto di fronte a ciò che accade, naturalmente. 3. Questo stesso essere-pronto, l’essere-orientato sull’attimo, è una possibilità tale che l’esserci stesso ha afferrato dalla sua situazione di volta in volta data. Io mi sento orientato di volta in volta in base alla situazione che è data. L’esserci si trattiene mediamente e per lo più in oscillazioni, nel “più o meno”, nel troppo o troppo poco. 4. Da questa terza struttura fondamentale emerge nel contempo anche il fatto che la ἓξις è una determinazione fondamentale dell’esserci, e che la γένεσις di tale ἓξις, ovvero il modo peculiare in cui l’esserci perviene a un essere-pronto nei confronti di se stesso, le circostanze e la modalità della sua formazione, possono aversi a loro volta soltanto nell’esserci stesso. In altri termini, soltanto nel parlante possono accadere tutte queste cose. Ora fa un discorso sulla γένεσις dell’άρετή, sulla genesi dell’άρετή, generalmente tradotto con virtù, ma per Heidegger, lo dirà poi, questa virtù scivola verso la ἓξις, come l’essere pronto per qualche cosa, avere a disposizione i mezzi e i termini per potere affrontare ciò che accade. Che cosa accade? Parole, continuamente parole. Nesso tra la ἓξις e l’άρετή: cominciamo con la γένεσις dell’άρετή. Ci occupiamo della ἓξις al solo scopo di mettere meglio a fuoco i πάθη (emozioni, sensazioni, i modi dell’essere). Già nelle pagine precedenti aveva detto chiaramente che il πάθος è un modo dell’essere: l’essere è fatto di questo, del modo in cui ciascuno si trova di volta in volta situato nel mondo, di cui è fatto. L’άρετή in quanto ἓξις non è una proprietà, un possesso arrecato all’esserci dall’esterno, ma un modo dell’esserci stesso. Ci imbattiamo sempre di nuovo nella peculiare categoria del “come”. Si tratta sempre di un “come” ciascuno si trova situato in ciò che sta avvenendo. L’άρετή è un come dell’esserci, non però in quanto proprietà stabile, bensì in quanto come dell’esserci determinato dal suo essere, caratterizzato dalla temporalità, dall’estensione nel tempo. Badate bene. Qui dice dell’esserci determinato dal suo essere, che è caratterizzato dalla temporalità, cioè questo essere è qualche cosa che muta continuamente. Qui verrebbe da riflettere sul fatto che Heidegger, nella sua opera fondamentale Essere e tempo, poneva l’essere come l’apertura che consente all’ente di esistere. Qui, invece, l’essere mostra già degli altri aspetti, come un qualche cosa che dipende dal momento, quindi mutevole. L’insistenza che ha lui sul “come” dell’essere ci mostra che l’essere può essere in tanti modi: ciascuno può esserci in tanti modi, a seconda della situazione in cui si trova. È per questo che l’άρετή è, e diviene, διθους, “attraverso l’abitudine”. Le possibilità dell’essere-pronto nei confronti delle diverse situatività, caratterizzate dal fatto che sono fuori di me (cioè ho perso il controllo), possono essere afferrate solo perché differenti situazioni, circostanze pericolose, vengono sopportate. Qui si tratta di essere pronti alla perdita di controllo. La ἓξις in fondo è soltanto questo: essere pronti alla perdita di controllo. Ma cosa significa essere pronti alla perdita di controllo, se non essere pronti a riprenderselo questo controllo, immediatamente, il prima possibile? Solo perché la vita non arretra di fronte alle sue possibilità e ai suoi pericoli si offre l’occasione di formare il “come” dell’esserci stesso. È nel modo peculiare in cui, corrispondendo al nostro essere, siamo presenti nella compiuta attualità di una specifica situazione, che afferriamo la ἓξις. Il modo, cioè, con cui affrontiamo la situazione, il modo in cui siamo pronti ad affrontare la situazione. Di fatto, poi, la situazione è sempre la stessa: è una situazione in cui perdo il controllo, per cui devo darmi immediatamente da fare per ritrovare il controllo, il giusto mezzo. Solo e anzitutto se facciamo uso delle possibilità dell’agire, del prenderci cura nella modalità specifica del sentirci-situati – solo allora ci appropriamo della ἓξις: non è che prima la possediamo e poi la utilizziamo, bensì al contrario χρησάμενοι ἓσχομεν. Questa ἓξις, questo essere pronto, è qualche cosa che ci chiama direttamente. Non è qualche cosa che a un certo punto afferriamo dall’esterno, ma è qualcosa che riguarda l’esserci. Questo sopportare, “cogliere – o cercare – l’occasione”, è un avere a che fare: solo perché abbiamo a che fare, l’uno con l’altro, con altri uomini, diventiamo posati e avveduti: solo perché ci mettiamo in situazioni pericolose abbiamo la possibilità di imparare il coraggio e di perdere la viltà, non già, quindi, in una riflessione immaginaria sull’esserci, ma nell’arrischiarci nell’esserci a seconda delle possibilità della nostra specifica esistenza. Qui sembrerebbe prendere da Marx, dall’idea di prassi. È la prassi, diceva Marx, che determina l’idea, e non viceversa. È in base all’agire che io posso farmi delle idee, solo dopo che ho agito, e qui sembra riprendere qualcosa del genere. Questa determinazione, infatti, non può essere intesa come se, per cogliere l’occasione e arrischiarsi nei δεινά (pericoli) si desse una τέχνη. Andiamo a pag. 213. La ἓξις non è nient’altro che un come del πάθος, l’“essere fuori di sé” ovvero “essere-pronto per…”. Se saremo in grado di determinare la ἓξις nella sua struttura fondamentale, chiariremo simultaneamente la possibile struttura dei πάθη. /…/ La ἓξις va compresa in riferimento al concreto essere dell’uomo. Il termine ἓξις, infatti, ha anche un ulteriore significato, identico alla δύναμις (potenza) di un ente qualsiasi. Ciò che qualunque cosa può essere. È qui che la ἓξις è riferita alla ζωή πρακτκή μετά λόγου (vita pratica secondo il linguaggio), ovvero a un “essere nel mondo” in cui il mondo ci si fa incontro nel carattere del συμφέρον (utile), βλαβερόν (dannoso), ήδύ (piacere) e λυπηρόν (dispiacere). Il nostro “essere nel mondo” è sempre caratterizzato dalla situatività dell’essere sollevati o depressi,… Lo diceva anche prima da qualche parte: l’essere dell’uomo è sempre un essere soddisfatto o insoddisfatto. Noi aggiungevamo che è soddisfatto quando ha o pensa di avere il controllo su qualcosa, e insoddisfatto quando perde il controllo; quindi, ecco la ἓξις, l’essere pronto a recuperare questo controllo. All’interno dell’essere così caratterizzato la ἓξις costituisce lo specifico essere-pronto. /…/ Qui è Aristotele che parla. “In ogni cosa in sé coerente e costante si possono distinguere il più, il meno e quindi l’uguale”. E queste differenze: 1. “in riferimento alla cosa stessa”… Μέσον è quell’uguale che concepiamo come l’“essere ugualmente distante” dagli estremi. Il giusto mezzo. “Chiamo μέσον della cosa stessa ciò che è ugualmente distante da ciascuno dei due estremi”. È così che si può determinare – geometricamente – il punto mediano di una cosa. Sì, certo, anche, ma è così che posso controllare la cosa, è così che posso dominarla, posso misurarla, quindi, calcolarla, quindi, controllarla. Tuttavia, nella misura in cui deve presentare un’affinità con l’interpretazione dell’essere dell’uomo, il μέσον non riguarda un πρᾶγμα in sé, ma solo in quanto esso è πρός ήμᾶς, cioè in quanto ci poniamo nei suoi confronti, in quanto il suo riguardarci è tale che la cosa non “agisce su di noi né per eccesso né per difetto”. Cioè, la dominiamo. L’eccesso e il difetto sono cose che comportano che la cosa sfugga a un controllo: se eccede va oltre ciò che io voglio che sia. Invero nel caso della μεσότης si ha a che fare anche con il mondo, non però solo con esso, poiché tramite la μεσότης si determina piuttosto il modo dell’“essere nel mondo” in quanto tale. Cioè, un modo che vuole avere tutto sotto controllo, e cioè evitare tutti gli eccessi, tutto ciò che sfugge al controllo. Per il nostro essere, caratterizzato dall’“essere di volta in volta”, non si dà alcuna norma unica e assoluta. Ciò che importa è formare l’essere dell’uomo in modo tale che esso acquisisca la capacità di tenere il giusto mezzo. È questo ciò di cui si tratta: tenere il giusto mezzo. Come dicevano i latini: in medio stat virtus. Ma il giusto mezzo è potere controllare le cose, nient’altro che questo.

Intervento: Controlla gli estremi.

Gli estremi sono quelli che potenzialmente non controlla. Sarebbe una sorta, evocando Foucault, di Panopticon. A pag. 216. Aristotele definisce l’άρετή: essa “ha come scopo” tenere il giusto mezzo, essere orientati sulla giusta ripartizione, sul giusto coglimento dell’attimo. Μεσότης: l’“essere-pronto che vede” la situazione ed è aperto nei suoi confronti. In tal senso il mezzo va inteso in base al carattere ontologico di ciò per cui esso è in questione in quanto mezzo: nel nostro senso esso è riferito all’essere dell’uomo in quanto essere orientato su qualcosa. L’uomo è orientato a mantenere il giusto mezzo, cioè, a mantenere il controllo sulle cose. A pag. 217. Che cosa significa, propriamente, pervenire a una determinata ἓξις? Le ἓξις non sono proprietà che possediamo per natura, poiché hanno piuttosto una γένεσις determinata: διἓθους (secondo l’abitudine). L’“abitudine” è la via che ci conduce alla ἓξις, all’άρετή. In apertura del libro II Aristotele opera una distinzione essenziale entro la molteplicità delle άρεται: “Le possibilità del comportamento, che formano anche il διανοεῖν (capacità di pensare) derivano per la maggior parte dalla comunicazione, quindi necessitano di esperienza e di tempo”. “Invece l’essere-pronti nei confronti di una determinata passione ci è fornito dall’abitudine”. È importante avere le idee chiare circa il carattere della γένεσις dell’άρετή dall’abitudine. Εθίζειν: il portarsi in una determinata possibilità mediante la frequente sopportazione. Dove peraltro la possibilità è di volta in volta una possibilità determinata, ad esempio per una ποίησιςAdesso arriviamo alla questione che ci interessa di più. Dopo averci detto che l’uomo è sempre orientato verso il mantenere il giusto mezzo per evitare gli eccessi, adesso ci dice che questo essere orientati in questo modo è propriamente l’emozione, la passione. È tutto ciò di cui l’uomo è fatto, perché è fatto di questo, è fatto di passioni, che sono il modo del suo essere di volta in volta. Non è altrimenti che così, se non come di volta in volta si orienta il suo esserci. E come si orienta? Sempre verso il controllo, verso il giusto mezzo. A pag. 221. Parla dell’όρίζεσθαι. …rivolgere lo sguardo – un rivolgere lo sguardo che porta a distinguere gli stati di fatto –, bensì un vedere il mondo che è circospezione, un guardarsi intorno al suo interno, da intendersi primariamente come circospezione nel prendere una decisione. Tutti questi sono modi dell’essere. Ciascuno si muove in modo circospetto in alcune situazioni sempre per essere pronto a ciò che può accadere, per potere ricondurre l’eccesso al giusto mezzo, potremmo dire anche, l’ignoto al noto. Il “darsi cura” per l’esserci ha nella φρόνησις (pensiero) la modalità della sua visione. È per questo che il λέγειν è tale da corrispondere alla φρόνησις,… Sta dicendo che il dire e il pensare sono lo stesso. …ed è μετά (rivolto, verso) in riferimento a essa. Se si considera così l’άρετή la si caratterizza in quanto ούσία, nella misura in cui il suo essere costituisce l’esserci dell’uomo. In riferimento alla possibilità dell’agire, del comportarsi, che trova espressione nell’άρετή, l’άρετή non è una μεσότης, ma un culmine, la vetta suprema, άκρότης. Intesa in termini puramente ontologici, cioè nell’ούσία, l’άρετή è μεσότης se riferita alla sua intrinseca possibilità, mentre è άκρότης se riferita all’εὗ (riuscita, ciò a cui si rivolge). Questa virtù, questa capacità di fare, di esserci, è μεσότης, è nel giusto mezzo, se riferita alla sua intrinseca possibilità, se è ancora una possibilità. Io cerco il giusto mezzo se questo è possibile, mentre è άκρότης, il culmine, se riferito all’εὗ, che letteralmente è “buono”. In altri termini, potremmo dire che c’è una sorta di differenza: io voglio ottenere il giusto mezzo, ma lo voglio ottenere per il benessere, per stare bene, per la soddisfazione, è questo l’obiettivo. A pag. 223. Per la definizione di πάθος ripercorriamo attentamente le definizioni di Metafisica Δ 21: 1. La prima e più ovvia definizione di πάθος è condizione, ποιότης, in relazione alla quale qualcosa può subire un’alterazione (quindi non una qualsiasi dotazione in quanto tale, ma una dotazione così caratterizzata, una condizione tale da offrire di per se stessa, a ciò che ne è costituito, la possibilità di mutare repentinamente), bianco-nero, dolce-amaro…”. Il πάθος è in prima istanza la possibilità di cambiare repentinamente situazione e condizione. Succede. Una persona che si conosce, che è simpatica, ecc., a un certo punto fa una cosa, magari insignificante per altri, ma per te da quel momento cambia, quella persona non la vedi più come la vedevi prima ma la vedi in un altro modo, per cui diventa insopportabile. A un ente così inteso qualcosa può accadere, passieren. Passieren, “accadere”, coglie in senso proprio ciò che si intende con πάσχειν (subire) e πάθος. Nel πάθος Aristotele coglie al tempo stesso il dato di fatto del movimento, meno l’aspetto passivo, quanto piuttosto il fatto che qualcosa mi accade. Qui pone la questione in modo interessante. Non è tanto che subisco ma è qualcosa che mi accade, nella quale io sono partecipe. Io non subisco niente, sono sempre partecipe di qualche cosa che mi accade. Non subisco in quanto qualunque cosa possa accadere ciò che mi accade per me è un discorso, sono parole, sono racconti, in questo senso mi riguardano, in questo senso io partecipo di ciò che accade. 2. Un ente caratterizzato dal fatto di recare in sé la possibilità che gli accada qualcosa nell’ambito della sua condizione, per esempio riguardo a un colore; assunto adesso nella misura in cui l’accadere stesso viene inteso come πάθος nel suo stesso esserci. L’ἐνέργεια (atto): l’“esserci” di un siffatto “accadere a qualcuno” tale da mutarlo repentinamente. 3. La definizione di πάθος va via via restringendosi: il πάθος è ciò che “accade a qualcuno” tale da avere il carattere dello spiacevole, del βλαβερόν. Ciò che mi accade, nel suo accadere mi è nocivo: non è forse così che utilizziamo il verbo passieren? Ma il πάθος viene definito in modo ancora più preciso: si tratta per lo più di un essere nocivo che fa riferimento alla λύπη (dispiacere), nel senso che ciò che mi accade colpisce il mio stato d’animo; un essere riguardato da qualcosa che mira al mio stato d’animo, un mutare nel senso del diventare depresso. Quindi, il πάθος è un mutamento d’umore, ma un mutamento negativo, qualcosa che mi deprime, qualcosa che non vorrei. 4. Infine, in un senso ancora più specifico, πάθος sta a indicare la “grandezza”, la “dimensione” di ciò che mi accade, che patisco per mia sventura. Anche per questo abbiamo l’espressione corrispondente: “Questo e quello è un colpo per me”. Quindi, il πάθος ha a che fare con un mutamento repentino del mio stato d’animo prevalentemente negativo. Cosa ci fa pensare questo? Che il πάθος è la perdita di controllo. Pensavo che qualcosa fosse così e, invece, all’improvviso mi si mostra in tutt’altro modo, come una canaglia, mentre prima pensavo che fosse una persona per bene.

Intervento: Sembra quasi una interferenza che interviene nel mio discorso.

Sì. Inserisce nel discorso, che pensavo di controllare, un elemento che lo sposta e che mi fa perdere il controllo sulla situazione, che devo immediatamente recuperare – ecco la ἓξις – convincendomi che quello è una canaglia. Magari non è nemmeno una canaglia, ma questo è il modo in cui io ristabilisco il mio ordine. Da questi quattro significati emerge ciò a cui è essenzialmente e propriamente riferito il πάθος: è riferito all’essere del vivente, caratterizzato da un sentirsi di volta in volta situato in un dato modo. Ciò che accade a qualcuno lo riguarda e lo colpisce in questo sentirsi-situato. Questo accadere implica di per sé il carattere del nocivo. Ma l’accadere stesso, in quanto passieren, non deve avere per forza il carattere della nocività, della φθορά (nocivo): Aristotele conosce infatti una μεταβολή (mutamento), κίνησις (movimento), άλλοίωσις (alterità) dove il πάσχειν ha il carattere della σωτηρία (salvezza). Σωτηρία da cui soteriologia, la dottrina della salvezza. Mi accade qualcosa tale che questa esperienza, o questo patimento, ha il carattere del σῴζειν (salvifico). Dal fatto che qualcosa mi si faccia incontro, mi accada, non vengo annientato, anzi, solo in virtù di tale accadere pervengo al mio vero e proprio stato, cioè solo adesso diviene effettivamente reale la possibilità che era in me. Con l’espressione Aufhebung Hegel non ha fatto che riprendere da Aristotele il fenomeno del σῴζειν. Questa mi sembra un po’ tirata, però… può anche passare. In effetti, l’Aufhebung, l’integrazione è qualcosa che salva i due termini dall’annientamento, se vogliamo metterla così, cioè, l’in sé e il per sé, anziché annullarsi, vengono salvati dall’Aufhebung, dall’integrazione. Il πάθος è quindi ciò che mi priva di qualcosa, e nel contempo un aufheben, un salvare – aufheben nel senso del conservare-innalzare al superiore essere autentico dell’ἐνέργεια. Il πάθος, riferito alla ζωή πρακτκή μετά λόγου (vivente che agisce secondo il linguaggio), è quindi un essere-coinvolto dell’esserci. Ma è coinvolto in che cosa? Come dicevamo all’inizio, ciascuno è sempre coinvolto, ovviamente, ma da quello che dice, non c’è altro che lo coinvolga. Viene difficile da pensare che possa esserci qualche cos’altro a coinvolgerlo se non ciò che riguarda il suo stesso discorso. L’esserci è coinvolto da ciò che “ci” è nel mondo insieme all’esserci stesso – cioè dall’esterno, ma dall’esterno inteso come quel mondo che è l’“in cui” del mio essere. Vedete che qui scompare già la divisione tra esterno e interno. Dice che, sì, sembra che venga dall’esterno, ma dall’esterno inteso come quel mondo che l’“in cui” io sono. È dunque dall’esserci stesso che traggono origine le possibilità e i modi del suo essere-coinvolto. Anche questa affermazione è importante, perché dice che è dall’esserci stesso che traggono origine le possibilità e i modi del suo essere-coinvolto. Io posso essere coinvolto soltanto a partire dal mio esserci, dal modo in cui mi trovo situato nelle cose. Non è che le cose mi accadono, potremmo dire che qualcosa mi accade, ma sono io che determino ciò che sta accadendo dando a ciò che sta accadendo il valore che io voglio che abbia, perché ciascuna cosa è ciò che io voglio che sia. L’essere-coinvolto dell’esserci in quanto “essere nel suo mondo” non concerne quindi qualcosa che potremmo designare come lo “psichico” – cosa a cui siamo indotti dalla concezione del πάθος in quanto affetto – bensì riguarda un essere-coinvolto dell’esserci come vivente in quanto tale. Su questo insiste continuamente, e cioè l’esserci è sempre nel suo mondo, senza il mondo non c’è l’esserci, e il mondo sappiamo, per dirla brevemente, che non è altro che il linguaggio in cui ciascuno è immerso. Detto in termini più precisi: non posso dire “l’anima spera, ha paura, prova compassione”, ma sempre solo “l’uomo spera, è coraggioso”.” Affermare che l’anima va in collera sarebbe come dire che l’anima costruisce una casa. Sarebbe meglio dire non che l’anima prova compassione, apprende, pensa, ma che l’uomo τῇ ψυχῇ” – “anima” concepita qui come ούσία, nella misura in cui nei πάθη si esprime l’essere-coinvolto dell’ente in quanto vivente. Qui ψυχῇ è da intendere come l’uomo stesso, cioè, l’uomo che agisce nel mondo secondo le modalità della sua passione, del modo in cui di volta in volta vede le cose, del modo in cui di volta in volta il suo discorso costruisce ciò che gli sta intorno. I πάθη non sono quindi “vissuti psichici”, non si collocano “nella coscienza”, ma costituiscono un essere-coinvolto dell’uomo nel suo pieno “essere nel mondo”. Ciò si esprime nel fatto che i πάθη implicano la totalità, il contesto completo di ciò che accade ed è presente nell’accadere, nel passieren, nell’essere-coinvolti. I cosiddetti “stati corporei” in caso di angoscia, gioia, e così via, non sono fenomeni concomitanti, ma sono impliciti nel caratteristico essere dell’ente, dell’uomo. Ancora, in più, ci dice non solo che non c’è interno ed esterno, ma che non c’è distinzione tra psichico e somatico: sono due momenti dello stesso, non c’è uno senza l’altro. Nel libro I, capitolo I, del De anima Aristotele discute quale sia propriamente l’oggetto di un’indagine Περί ψυχῇςIntorno alla ψυχῇ, sì, ma ψυχῇ come uomo. …e quale sia il ruolo che vi svolgono i πάθη. /…/ Riguardo ai πάθη Aristotele si chiede “se essi siano tutti comuni per colui che li ha, o se vi siano certi πάθη che si attagliano espressamente all’anima. Tale questione va necessariamente chiarita, cosa però non facile. La grande maggioranza è dell’opinione che in ogni avere coraggio, ecc., e in genere nel caso di ogni percezione, il corpo sia in qualche modo compartecipe. /…/ “avere coraggio per…”, “essere inclini a…”, ecc. – non è utilizzata nel senso stretto della percezione sensibile, ma nel senso dell’avere-lì il mondo; non si tratta quindi di un considerare teoretico, ma di un essere aperto per qualcosa che mi sta intorno. Ecco la differenza sostanziale: l’avere coraggio è il modo in cui quel qualcuno è nel mondo, in quel momento. È come se Heidegger ci richiamasse continuamente alla necessità antica dei presocratici di avere sempre presente il tutto, cioè, tenere conto che tutte queste cose avvengono in un tutto, non sono isolabili. Ecco la questione: non sono separabili. Sappiamo bene che ogni separazione conduce inesorabilmente alla religione. Per lo più sembra che anche il νοεῖν (pensiero) sia un ἳδιον (qualcosa di specifico) dell’anima. Se però anche il νοεῖνChe lui traduce così. …(il riflettere a fondo su una cosa anche se non ce l’ho presente in termini di percezione sensibile) è qualcosa come una φαντασία, ovvero non può sussistere senza φαντασία, allora nemmeno il pensiero potrebbe esistere senza essere connesso con ‘intera vita dell’uomo”. Pensiero come φαντασία, pensiero e φαντασία sono l’intera vita dell’uomo. L’accostamento di φαντασία e pensiero è importante, perché φαντασία è rappresentazione. Lo diceva prima: pensare a qualche cosa che non è qui immediatamente presente, che non ho sotto mano, e ciascuna cosa è rappresentazione. Ci sta dicendo questo: non possiamo pensare se non per rappresentazioni. Ma rappresentazioni che rappresentano cosa? Altre rappresentazioni.

Intervento: È come dire che ciascun pensiero dice dell’intera vita dell’uomo.

Esatto. In ciascun pensiero c’è tutta la vita dell’uomo, perché ciascun pensiero che io possa fare racchiude tutto me, tutta la mia storia, non solo la mia storia, ma dell’umanità intera. Pensare: non si fa ricorso qui a un processo cerebrale, ma alla φαντασία, cioè a quella capacità di “immaginare” il mondo nel cui caso ciò che è stato reso presente con l’immaginazione non è attualmente lì presente, ma lo è, per esempio, nel ricordo oppure nel mero sbiadito richiamare alla mente. Pensare non è un processo cerebrale ma è una φαντασία. Sta dicendo che pensare è rappresentare. Non è poco. Uno immagina di pensare le cose, no, penso rappresentazioni, cioè, come dicevamo fin dall’inizio, penso parole, dico parole. Anche nel pensare a qualcosa le cose sono presenti nell’immaginazione. Quando penso a qualcosa, queste cose a cui penso sono sempre presenti, ma nell’immaginazione. La φαντασία è il terreno per il νοεῖν (pensiero). Come dire che il pensiero è sorretto dalla φαντασία. Nella misura in cui la νόησις costituisce la possibilità suprema per l’essere dell’uomo, l’intero essere dell’uomo è determinato in modo tale da dover essere concepito come il corporeo “essere nel mondo” dell’uomo. Dice che la νόησις costituisce la possibilità suprema per l’essere dell’uomo. Cosa c’è di più alto del pensiero? Ma questa suprema possibilità dell’uomo è determinata in modo tale da dover essere concepita come il corporeo “essere nel mondo” dell’uomo. Questo corporeo “essere nel mondo” dell’uomo è sottolineato, ma per indicare, non tanto il corpo fisiologico, quanto per dire “io sono lì”, “io sono nel mondo”, io con i miei pensieri, quindi con le mie fantasie, quindi con le mie rappresentazioni. Fino a oggi non si è approfittato di quanto Aristotele offre qui. Solo nella Fenomenologia si è fatto qualche passo in tal senso. Nessuna separazione tra atti “psichici” e atti “fisici”. Questo lo si può vedere praticamente, per esempio, nel modo in cui muovo la mia mano, compio un movimento con essa. Bisogna convincersi del fatto che la primaria funzione d’esserci della corporeità si assicura il terreno per il compiuto essere dell’uomo. In Aristotele compaiono anche già i primi accenni di quell’errato orientamento verso il biologico che caratterizza l’intera tradizione (Descartes: res cogitans – res extensa). Divisione che invece Heidegger, leggendo Aristotele, dice che non è possibile, che non c’è. Il corpo e la mente, per usare questi termini rozzi, sono due momenti dello stesso, non sono separabili in nessun modo. Aristotele prende le mosse da quattro significati generali di πάθος: 1. condizione mutevole; 2. da qui a un significato specifico; 3. in quanto capace di deprimere la vita; 4. πάθος, in particolare, in quanto nocivo: disgrazia, colpo. Dobbiamo mostrare in che misura fenomeni come la paura, la collera, e così via, corrispondono a ciò che abbiamo rilevato nelle definizioni generali di πάθος, nonché i che senso anche i πάθη debbano perciò essere considerati quali γινόμενα τῆς ψυχῇς (ciò che genera la psiche). Psiche sempre in questa accezione, cioè come l’uomo che è situato nel mondo. Con ψυχή si intende tutto ciò che costituisce l’essere di un vivente, ciò che, in quanto costituente l’essere, è esso stesso qualcosa. La molteplicità di contesti ontologici sottostà quindi a una molteplicità determinata di categorie oggettuali stabilite. La domanda in base alla quale Aristotele discute i πάθη è la seguente: come può accadere qualcosa a un vivente, riguardo al suo essere? Domanda interessante: come può accadermi qualcosa? Cosa dico quando dico che mi sta accadendo qualcosa? Potrebbe non essere facilissimo rispondere a questa domanda. Inoltre: tutto ciò che può accadere a un vivente va inteso come appartenente a questo essere in quanto tale, o vi sono anche determinazioni del poter-accadere al vivente che si addicono in senso particolare a un essere del vivente stesso – cioè alla ψυχή e non all’ἄνθρωπος? Ha già risposto a questa domanda: non c’è nessuna possibile separazione tra ψυχή e ἄνθρωπος, anzi, sono lo stesso. Al fondo di questa domanda generale si pone il fenomeno che Aristotele designa con νούς (pensiero). La questione concreta (Aristotele la imposta nel libro III, capitoli 4-5, del De anima, ma non giunge ad alcuna decisione in merito) è la seguente: da che cosa è determinato, in senso proprio, l’essere dell’uomo in quanto “essere nel mondo”? L’essere dell’uomo, inteso come “avere-lì aperto il mondo”, essere-scoperto, essere-aperto dell’“essere nel mondo”, tutto ciò è determinato dal νούς? Cosa ci sta dicendo qui Heidegger? Sta dicendo una cosa che a tutt’oggi pochissimi hanno soltanto intravista. L’essere nel mondo è essere lì, avere aperto il mondo, cioè, potersi confrontare con il mondo, avere a che fare con il mondo, tutto questo è determinato dal νούς, cioè, dal pensiero? Ma allora questo mondo, se è determinato dal νούς, è il mio pensiero. Qui ci sarebbe da fare un piccolo accenno alla questione dell’idealismo, contro cui ogni tanto qualcuno si scaglia e che viene contrapposto al materialismo. Idealismo, idea, e le idee di che cosa sono fatte? Sono fatte di discorsi, di parole. L’idealismo non è altro che il porre la priorità del discorso. Il fatto che questo essere-aperto sia determinato dal νούς è da intendersi nel senso che il νούς apparterrebbe in quanto tale implicitamente all’essere dell’uomo, tanto da identificarsi completamente con l’essere dell’uomo? Oppure, viceversa, l’essere dell’uomo, il suo essere-aperto, sarebbe sì determinato dal νούς, ma in modo tale che il νούς penetrerebbe nell’uomo dall’esterno, sicché l’essere dell’uomo sarebbe solo una possibilità determinata dell’essere-aperto, garantita dal νούς in quanto tale? In definitiva, la domanda è: vi sono πάθη che, al di là del concreto essere dell’uomo, possiedono anche un essere caratteristico in se stessi? Evidentemente no. Tutti questi interrogativi diventano comprensibili se si pongono in luce alcune determinazioni fondamentali del νούς.