19 aprile 2017
Siamo a pag. 110. Si sta avvicinandosi a questioni che ci interessano, perché riguarderanno anche la scienza. Ciò che ci interessa non è la scienza in quanto tale ma il fatto che il discorso della scienza è il discorso comune, cioè quello che ritiene di parlare della verità, dell’episteme. Lasciare “essere”, preliminarmente, non significa produrre o portare qualcosa nel suo essere, ma scoprire, nella sua utilizzabilità, qualcosa di “essente” già da sempre, e lasciar così incontrare l’ente che ha un tale essere. Continua a ripetere cose che ha già detto e ribadito ma che in ogni caso sono importanti. Lasciar essere, ci sta dicendo, non significa il lasciare che un essere qualunque sia, oppure portare qualcosa al suo essere, no, non è questo, ma semplicemente lasciar incontrare la sua utilizzabilità. Qui sta ponendo una questione, che più avanti sarà più chiara e che Heidegger non affronta nei termini in cui l’affronteremo noi, e cioè la questione della tecnica, perché non sta facendo altro in queste pagine che parlare della tecnica, dell’utilizzabilità, di ciò che utile, di qualche cosa che è “per” qualche cos’altro. La stessa questione del segno, del rinvio, del rimandare sempre qualcosa a qualcos’altro, questa è la tecnica, l’essenza della tecnica. Poi, prosegue. L’appagatività stessa, come essere dell’utilizzabile… qualcosa è appagato quando trova il suo utilizzo, l’essere dell’utilizzabile è la sua appagatività, cioè il fatto di servire a qualcosa. … è scoperta sempre esclusivamente sul fondamento della prescoperta di una totalità di appagatività. (pagg. 100-101) Cioè, io sono in un mondo in cui le cose sono in quanto utilizzabili, quindi, in quanto utilizzabili hanno una loro appagatività. Nell’appagatività scoperta, cioè nell’incontro dell’utilizzabile, è quindi pre-scoperto ciò che noi chiamammo la conformità al mondo propria dell’utilizzabile. Noi incontriamo un qualche cosa in quanto utilizzabile e in quanto inserito in un mondo fatto di cose utilizzabili, perché il mondo è fatto di questo. Per questo vi dicevo prima della questione della tecnica: il mondo, di cui parla Heidegger, è la tecnica, sono tutte cose che sono quelle che sono in quanto utilizzabili per qualche cosa. Questa pre-scoperta totalità di appagatività cela in sé un riferimento ontologico al mondo. Chiaramente, si rivolge al mondo, cioè, trova la sua ragione di essere all’interno del mondo, fuori del mondo non c’è nessuna appagatività, nessuna utilizzabilità. Il lasciar appagare, che rilascia l’ente alla totalità di appagatività, deve aver già sempre aperto, in qualche modo, ciò rispetto-a-cui esso rilascia. Questo ente non è che scopre all’improvviso che serve a qualche cosa ma la sua utilizzabilità è già presente in quanto io mi rapporto a qualche cosa e rapportandomi a qualche cosa mi rapporto in quanto utile a qualche cosa, in quanto serve a qualche cosa, è questa la questione fondamentale in Heidegger. Ciò rispetto-a-cui l’utilizzabile intramondano è rilasciato, in modo tale da rendersi innanzi tutto accessibile come ente intramondano, non può essere inteso a sua volta come un ente avente il modo di essere dell’ente scoperto. Esso è, per essenza, non scopribile, se d’ora in poi teniamo ferma l’espressione stato di scoprimento come termine per indicare una possibilità d’essere dell’ente non conforme all’Esserci. Sta dicendo semplicemente che non è che io scopra a un certo punto la cosa, ma dal momento che sono nel mondo questa cosa è già presa nella sua appagatività, è già in qualche modo presa nell’Esserci, presa nella parola, perché l’Esserci è la parola, è il parlare. M che significa l’affermazione che ciò rispetto-a-cui l’ente intramondano è innanzi tutto rilasciato deve essere preliminarmente aperto? Questo ente intramondano deve essere già aperto, deve essere già disponibile, cioè, deve essere già nel mondo, deve essere già in relazione con me o, per dirla in modo più spiccio, deve essere già nel linguaggio, più propriamente ancora, è già da sempre nel linguaggio. La comprensione ha il suo essere in un comprendere. Se all’Esserci è proprio, in linea essenziale, il modo di essere dell’essere-nel-mondo, ne viene che, in linea egualmente essenziale, è proprio della sua comprensione dell’essere il comprendere l’essere-nel-mondo. Se l’essenza della comprensione è il comprendere allora è evidente che all’Esserci è propria la possibilità di comprendere se stesso, perché se non si comprendesse non si accorgerebbe di esistere. A pag. 112. L’Esserci è originariamente familiare con ciò in-cui esso già da sempre si comprende. Cioè, il parlante è già da sempre familiare con il linguaggio. Questa familiarità col mondo non richiede necessariamente una trasparenza teoretica dei rapporti che costituiscono il mondo in quanto mondo. Questa familiarità non ha a che fare con il descrivere le cose, la descrittività viene dopo, ha invece a che fare con questo, con il fatto che tutte le cose che sono nel mio mondo sono io, io sono tutte queste cose. Nella familiarità con questi rapporti, l’Esserci “significa” a se stesso che si dà originariamente da comprendere il suo essere e il suo poter essere a partire dal suo essere-nel-mondo. È per via del suo essere-nel-mondo che l’esserci è in grado di comprendere, è perché è già nel mondo, cioè, è già nella tecnica. Se non fosse nella tecnica, se non fosse all’interno di rimandi, di rinvii, di segni, quindi, di una tecnica, non ci sarebbe alcuna comprensione perché comprendere è portare qualche cosa da dove si trova a un’altra parte, utilizzando altre proposizioni, e la comprensione si mostra, almeno per Heidegger, in un rinvio. Per Heidegger significare vuole dire questo: Il carattere di rapporto di questi rapporti, propri del rimandare, lo indichiamo con il termine di significare. Il rapporto di questi rapporti, cioè, l’essere tutti questi rapporti di cose in relazione tra loro, è una combinatoria segnica all’interno della quale avviene il significare. L’in-vista-di-cui significa un “per”, questo un a-che, l’a-che un presso che del lasciar appagare e quest’ultimo un con-che dell’appagatività. Tali rapporti sono fra loro connessi in una totalità originaria… che è la possibilità stessa del rapporto. Qual è la possibilità stessa del rapporto? Quella di trovarsi all’interno del mondo, cioè, trovarsi all’interno di una combinazione di segni, di una relazione segnica, cioè, trovarsi all’interno del linguaggio. …essi sono ciò che sono in quanto sono questo significare in cui l’Esserci… il parlante …dà preliminarmente a conoscere a se stesso il suo essere-nel-mondo. (pagg.112-113) Questi rapporti, dice, sono quello che sono in quanto l’Esserci… lui dice così, dà preliminarmente a conoscere a se stesso il suo essere-nel-mondo, cioè la prima cosa che riguarda l’Esserci, cioè il lasciarsi conoscere attraverso il mondo in cui esiste. Come sappiamo, non c’è l’Esserci senza il mondo, quindi, è la conoscenza del mondo che consente all’Esserci di conoscersi. Il che è importante, perché io a questo punto mi conosco non in base a un Io, a un soggetto, ma al mondo in cui mi trovo, è questo che mi dà l’opportunità di conoscermi in quanto Esserci. La totalità dei rapporti di questo significare è ciò che noi chiamiamo significatività. Essa è ciò che costituisce la struttura del mondo, ossia di ciò in-cui l’Esserci, in quanto tale, già sempre è. Non c’è un Esserci prima che esista il mondo, prima che esista il linguaggio, cioè, la tecnica, perché a questo punto il linguaggio non è altro che la tecnica, è la tecnica per eccellenza. L’Esserci, nella sua familiarità con la significatività, è la condizione ontica della possibilità della scopribilità dell’ente che si incontra nel mondo nel modo d’essere dell’appagatività (utilizzabilità)… Nella sua familiarità, cioè, nel suo modo di conoscere; è familiare con il mondo perché è il mondo stesso, è all’interno di questo mondo. Dice la condizione ontica perché l’Esserci è un ente, quindi, la condizione di questo ente, della possibilità della scopribilità dell’ente che si incontra nel mondo nel modo d’essere dell’appagatività, quindi, questa prossimità, questa familiarità che ha l’Esserci in quanto ente col mondo, è la condizione perché possa scoprire altri enti, possa vederli, possa conoscerli, e questo grazie a questa familiarità, grazie al fatto che si trova nel linguaggio. La significatività stessa, con cui l’Esserci è già sempre familiare, cela in sé la condizione ontologica della possibilità che l’Esserci che comprende possa, interpretando, aprire qualcosa come i “significati”, i quali, a loro volta, fondano il possibile essere della parola e del linguaggio. Ovviamente, per Heidegger il linguaggio non è la condizione. Lui immagina che questo essere-nel-mondo, l’Esserci, sia la condizione del linguaggio, però, fa una nota, guarda caso, e dice Non vero. Il linguaggio non è costruito sopra, ma è l’essenza originaria della verità in quanto Ci… in quanto Esserci. Ha detto una cosa ma poi si è accorto che non poteva essere così. A pag. 114. Il complesso di rimandi che, in quanto significatività, costituisce l’essenza del mondo, può essere interpretato formalmente come un sistema di relazioni. Le cose significano perché sono inserite all’interno di una rete di relazioni di segni, cosa che la semiotica sa benissimo. Bisogna però tener presente che tali formalizzazioni livellano a tal punto i fenomeni da svuotarli del loro contenuto fenomenico autentico, particolarmente quando si tratta di rapporti così “semplici” come quelli che la significatività cela in sé. Sta dicendo: sì, certo, la significatività procede da una relazione di segni, però, tenete sempre conto che questa formalizzazione vale fino a un certo punto, perché se noi mettiamo questi segni come elementi fuori del mondo, allora la questione si fa complicata, diventano degli oggetti metafisici che, non facendo più parte del mondo, per Heidegger cessano di esistere, cessano comunque di far parte dell’Esserci. “Relazioni” e “relati” come il “per”, l’in-vista-di-cui, il “con” di un’appagatività contraddicono, nel loro contenuto fenomenico, a ogni funzionalizzazione matematica. Inoltre essi non qualcosa di pensato, qualcosa di posto in primo luogo dal “pensiero”, ma sono rapporti in cui si mantiene già da sempre come tale il commercio prendente cura. Queste relazioni, di cui stiamo parlando, non sono oggetti metafisici ma sono qualche cosa che già da sempre è presente nel linguaggio e, quindi, se li poniamo come oggetti metafisici li poniamo come qualche cosa fuori dal linguaggio. Questo “sistema di relazioni”, costitutivo della mondità del mondo, vanifica così poco l’essere dell’utilizzabile intramondano che, in base alla mondità del mondo, sorge la possibilità di scoprire questo ente nel suo “in sé sostanziale”. … Questo ente può essere determinato matematicamente in “concetti di funzione” relativamente alle sue “proprietà” solo sul fondamento del suo essere soltanto semplice-presenza. Sta dicendo e continua a dire che queste relazioni, questa significatività, ecc., non sono semplici presenze, non sono cose fuori dall’esistenza, tenendo conto che per lui l’esistenza è solo dell’Esserci. Io posso pensarli matematicamente soltanto come semplici presenze, cioè, come oggetti metafisici. Ma concetti di funzione di questo genere sono ontologicamente possibili solo rispetto a un ente il cui essere abbia il carattere della pura sostanzialità. I concetti di funzione sono sempre possibili solo come concetti di sostanza formalizzati. Badate bene, se io pongo una relazione, la significatività, quello che vi pare, come un oggetto metafisico, allora questo è ontologicamente possibile, cioè, può essere questa cosa, a condizione che l’essere di queste cose sia la sostanza. Soltanto se immagino che l’essere di questo aggeggio qui sia sostanza allora posso matematizzarlo, posso ricondurlo a funzioni, ecc. Soltanto se, in altri termini ancora, lo pongo come un oggetto rispettivamente a un soggetto che lo osserva, che lo manipola, ecc., perché se io pongo questo aggeggio qui all’interno del mondo, come Esserci, è chiaro che gli levo la sostanza, sostanza nel senso classico del termine, e cioè il suo fondamento dell’Esserci in quanto cosa che ha in sé, per virtù propria. A pag. 115. Paragrafo B – Contrapposizione dell’analisi della mondità all’interpretazione del mondo in Cartesio. Questo ci interessa perché qui Heidegger parla della scienza. Ne stava già parlando tra le righe, quando parlava della matematizzazione, della condizione di prendere la cosa come semplice presenza, cioè, come un oggetto metafisico. Cartesio vede nella extensio la determinazione ontologica fondamentale del mondo. È il principio fondamentale della scienza, che le cose abbiano un’estensione. Poiché l’estensione contribuisce a costituire la spazialità (e per Cartesio, anzi, si identifica con essa), e poiché la spazialità è in un certo senso costitutiva del mondo, la discussione dell’ontologia cartesiana del “mondo” offre nel contempo lo spunto negativo per l’esplicazione positiva della spazialità del mondo-ambiente e dell’Esserci stesso. Sta dicendo che dobbiamo affrontare questa cosa della spazialità in Cartesio, perché è lui l’inventore in un certo senso, e perché tutta la scienza si fonda su questo e se vogliamo porre delle obiezioni serie al discorso scientifico dobbiamo partire da qui, dal concetto di estensione, cioè, del mondo come estensione. Per Heidegger il mondo non è affatto un’estensione, il mondo è ciò che mi appare, ciò di cui io stesso sono fatto ma non è un’estensione. Perché ci sia l’estensione occorre, e qui torniamo a Cartesio, l’oggetto e il soggetto. A pag. 118. Ciò che quindi costituisce l’essere della res corporea è l’extensio, l’omnimodo divisibile, figurabile et mobile, ciò che può mutare secondo i modi della divisibilità, della figura e del moto, ciò che è capax mutationum e che in tutti questi mutamenti rimane tale, remanet. Ciò che in una cosa corporea è capace di questa permanenza costante costituisce in essa l’ente autentico, e così è caratterizzata la sostanzialità di questa sostanza. Qui ci dice che cos’è la sostanza: ciò che permane nonostante tutte le mutazioni. Infatti, faceva prima l’esempio della durezza, questa cosa, anche se le cambio forma, rimane dura, cioè, si oppone a me in qualche modo. Quindi, la sostanza è il permanere di qualche cosa comunque, anche mutandone la forma, anche se io la spacco in due, rimane sempre dura. Nel paragrafo 20 I fondamenti della determinazione ontologica del “mondo” sta cercando di dimostrare come la sua idea di mondo sia lontanissima da quella della scienza e da quella di Cartesio, perché l’idea della scienza e quella di Cartesio si fondano sull’idea di estensione e di sostanza. L’idea dell’essere su cui si fonda la caratterizzazione ontologica della res extensa è la sostanzialità. … Per sostanza non possiamo intendere altro che un ente il quale è tale che, per essere, non abbisogna di alcun altro ente. Tenete conto di questa definizione perché dice che per essere non ha bisogno di alcuna altro ente, quindi, è quello che è per virtù propria, ha in sé, come dicevano gli antichi, la causa e l’origine, aitìa e arché. L’essere di una sostanza è caratterizzato dall’autosufficienza. Quindi, non è nel mondo, è fuori, non è nel linguaggio, perché se fosse nel linguaggio la sua esistenza dipenderebbe dalle relazioni che lo fanno esistere in quanto tale. Ciò che nel suo essere non abbisogna assolutamente di alcun altro ente, è conforme in senso autentico all’idea della sostanza, è l’ens perfectissimum. Substantia quae nulla plane re indigeat, unica tantum potest intelligi, nempe Deus. L’unico che può comprendere questa cosa è Dio, la sostanza perfettissima. Qui Dio è un termine puramenente ontologico, poiché è inteso come l’ens perfectissimum. Cioè, non è inteso in senso teologico ma Dio come quell’ente che non ha bisogno di niente, la sostanza assoluta. Al tempo stesso ciò che nel concetto di Dio è fatto valere come “ovviamente” implicito rende possibile un’interpretazione ontologica del momento costitutivo della sostanzialità: il non-abbisognare. (pagg. 118-119) Cioè, mostra qual è la questione essenziale in tutto ciò, parlando di Dio: il non abbisognare di niente, Dio è perfetto e non ha bisogno di niente, che è esattamente il concetto di sostanza. Ogni ente, che non sia Dio, abbisogna di esser-fatto, nel senso più largo, nonché di esser-conservato. “Fattura” come conferimento della semplice-presenza e non-bisognosità di fattura costituiscono l’orizzonte nel quale è compreso l’“essere” dell’ente. Ogni ente che non sia Dio è ens creatum. Qui è importante ciò che dice, Dio non può essere ens creatum, non può essere creato da qualcun altro. Però, ci sono due cose che non abbisognano di alcun ente per Cartesio. Dice che Queste sostanze sono due: la res cogitans e la res extensa. Le sostanze che non abbisognano di altro sono due: la res cogitans e la res extensa. A pag. 120. Heidegger sta facendo tutti questi discorsi per mostrare come si è prodotto il discorso scientifico così come lo conosciamo oggi, cioè quali sono gli elementi che lo hanno non soltanto costruito ma che lo sostengono. Uno di questi è l’idea che ci siano due sostanze, la res extensa e la res cogitans, il soggetto e l’oggetto. L’”essere” come tale non ci procura affezioni e perciò non può essere appreso. L’essere non è qualche cosa che mi può offendere. “Essere non è un predicato reale”, dirà Kant, il quale non fa che ripetere l’affermazione di Cartesio. In tal modo si rinuncia in linea di principio alla possibilità di una problematica pura dell’essere e si ricorre a una scappatoia per raggiungere le suddette determinazioni delle sostanze. Dice Heidegger che l’essere non è un qualche cosa che mi fa del male, che mi può nuocere, che io posso toccare, poso lanciare, e quindi che facciamo? Lasciamo stare l’essere, non ce ne occupiamo. Poiché, in effetti, l’”essere” non è accessibile come ente, l’essere sarà espresso attraverso le determinazioni ontiche dei rispettivi enti, cioè mediante gli attributi. Sono le fanose dieci categorie di Aristotele. Non però attributi qualsiasi, ma quelli che corrispondono nel modo più puro al senso d’essere della sostanzialità implicitamente presupposto. (pagg. 120-121) Io devo presupporre una sostanza per poterle attribuire degli attributi, ovviamente, se no a chi glieli do? Nella substantia finita in quanto res corporea l’”attribuzione” prima e necessaria è l’extensio. Questo è il primo attributo. Prima stabilisco che c’è una sostanza dopodiché attribuisco a questa sostanza un’estensione. Però, tutte queste operazioni, che appaiono assolutamente naturali, per Heidegger non lo sono propriamente ma sono quelle che nelle pagine precedenti chiamava “assunzioni”. Dice poi che … la sostanzialità è separabile ratione tantum… soltanto dalla ragione, non è reale, non esiste realmente questa sostanzialità, è la ragione che dà corpo alla sostanza. A proposito della res extensa che si tratta dell’idea di sostanzialità non solo non chiarita nel senso del suo essere… perché l’essere è stato ridotto a una lista di attribuzioni. … ma dichiarata inchiaribile… non sappiamo nulla dell’essere e, quindi, dice Heidegger, non sapendone nulla, non ce ne occupiamo, è lui che sta accusando: avete voluto che l’essere sia una lista di attributi di una sostanza che vi siete inventati ma a questo punto è chiaro che dell’essere non possiamo più dire niente e, quindi, abbiamo semplicemente dimenticato l’essere, abbiamo dimenticato semplicemente che tutte queste cose esistono perché sono nel mondo e perché io ho familiarità con tutte queste cose. … e presentata, per via traversa, mediante il ricorso alla caratteristica più propriamente sostanziale della sostanza considerata. In questa determinazione della sostanza in base a un ente sostanziale sta la ragione del doppio significato del termine. Si mira alla sostanzialità e la si intende come una qualità ontica della sostanza. Come un ente, come per esempio, la durezza, non è l’essere di queste cose, è un ente, è una proprietà, una categoria. Quindi, si mira alla sostanzialità e la si intende come una qualità ontica della sostanza. Poiché l’ontico sottende l’ontologico… se c’è un ente c’è un essere, che fa dell’ente quell’ente che è … l’espressione substantia è intesa ora in senso ontologico, ora in senso ontico, ma per lo più in un senso confusamente ontico-ontologico. Ponendo la questione in questi termini, dice lui, cioè dicendo che l’essere è una serie di categorie, queste categorie, queste proprietà sono enti, ma siccome l’ente deve avere un essere da qualche parte, allora non si sa più se questa sostanza sia un essere o un ente. Deve essere un ente, perché è una serie di proprietà, ma deve anche essere un essere perché questi enti siano quello che sono. Dietro questa diversità minima di significati si nasconde l’impotenza di fronte al problema fondamentale dell’essere. La elaborazione di esso richiede che si “perseguano” nel giusto modo le equivocazioni. Chi conduce una ricerca del genere non si “occupa” di “semplici significati verbali”, ma deve avventurarsi nella problematica più originaria delle “cose stesse”, se vuol chiarire queste “sfumature”. La “cosa stessa” è il fenomeno, ciò che appare così come appare per via del fatto che appare in quanto inserito all’interno del progetto. A pag. 122. … dobbiamo perciò chiederci: quale modo di essere dell’Esserci è fissato come via d’accesso adeguata a quell’ente il cui essere, inteso come extensio, Cartesio identifica con l’essere del “mondo”? l’unica via d’accesso genuina a questo ente è il conoscere, l’intellectio, nel senso del conoscere fisico-matematico. Il conoscere matematico è l’unico modo di conoscere l’ente che sia sempre certo del sicuro possesso dell’essere dell’ente considerato. Questa è l’ambizione della scienza, cioè della conoscenza che punta alla verità intesa come episteme. Ciò che nel suo modo di essere è tale da risultare conforme all’essere accessibile nel conoscere matematico è in senso autentico. Questa è la scienza, soltanto attraverso la scienza è possibile conoscere in senso autentico l’essere delle cose, l’essere inteso, come diceva prima, come la serie di proprietà, di caratteristiche. Com’è questo ente della scienza? si chiede. Questo ente è caratterizzato dall’esser sempre ciò che è. Immutabile nel tempo, per essere sempre ciò che è, che è la condizione per essere conosciuto dalla scienza, dalla matematica. Questo essere, se è sempre quello che è, è chiaro che lo deve porre fuori del mondo, non può più essere all’interno di una serie di relazioni e non è più questa serie di relazioni a farlo essere quello che è. Ne deriva che si assumerà come essere autentico dell’ente che si esperisce nel mondo quello di cui si potrà dimostrare il carattere di permanenza costante, quello remanens capax mutationum. Quello che è capace di mutazioni ma che rimane quello che è. Questa è la mitologia della scienza: l’idea che l’essere dell’ente sia la sua stabilità, la sua immutabilità, nel senso che rimane quello che è, anche se lo divido la sostanza rimane sempre la stessa. E, infatti dice E’ autenticamente ciò che permane perennemente. È ciò che la matematica conosce. Ciò che in un ente si rende accessibile attraverso la matematica, ne costituisce l’essere. Sta descrivendo la scienza. E così, muovendo da una determinata idea dell’essere implicita nel concetto di sostanzialità e da un’idea del conoscere che conosce questo essere, vien imposto al “mondo” il suo essere. Cartesio non lascia che il modo di essere dell’ente intramondano sia esibito da questo ente stesso, ma, sul fondamento di un’idea dell’essere (essere = semplice-presenza costante) non provata e oscura nella sua origine, prescrive per così dire al mondo il suo essere “autentico”. Ciò che determina l’ontologia del mondo non è in primo luogo il ricorso a una scienza casualmente privilegiata, la matematica, ma l’assunto ontologico fondamentale dell’essere come semplice-presenza costante… Lo assumo, non lo posso provare, dimostrare, non posso fare niente, lo posso soltanto assumere. … la cui conoscenza è eminentemente soddisfatta dal conoscere matematico. Cartesio compie così esplicitamente il trapianto filosofico della eredità dell’ontologia tradizionale nella fisica matematica moderna e nei suoi fondamenti trascendentali. Il percorso si è compiuto. Un percorso che muove dall’idea di sostanza, cioè, ciò che rimane, dall’assunzione che l’essere di un qualche cosa sia il suo permanere costante in quello che è. Dopodiché si assume che questa idea di ente sia il mondo stesso, che il mondo si riveli così, cioè, come un ente che è quello che è, che il suo essere nel suo permanere costante. E così si è creata la scienza. A pag. 129 nel Capitolo C – paragrafo 22 – La spazialità dell’utilizzabile intramondano. Gli utilizzabili sono gli enti: l’ente è quello che è perché è all’interno della tecnica, cioè all’interno del linguaggio. Se, in un senso ancora da determinarsi, lo spazio costituisce il mondo… ricordate che prima c’era l’obiezione a Cartesio, il mondo come spazio, come estensione, cosa che lui critica. …lo spazio costituisce il mondo, non desterà meraviglia che già nella caratterizzazione ontologica preliminare dell’essere intramondano si sia dovuto considerare quest’ultimo anche come intraspaziale. Come tutto ciò che è nel mondo, come qualcosa di spaziale. Ma finora questa spazialità dell’utilizzabile non fu colta esplicitamente in base ai fenomeni e non fu chiarita nella sua connessione con la struttura dell’essere dell’utilizzabile. Questo è il compito che ora ci proponiamo.(pagg. 129-130) Sta dicendo che, assumendo che questi enti intramondani abbiano una spazialità, qual è a questo punto lo spazio dell’utilizzabile, perché ciascun ente è quello che è perché è utilizzabile, perché è un per qualche cosa e questo per qualche cosa ha uno spazio, è misurabile? È questa la domanda che sta ponendo. Infatti, dice In quale misura, già nella caratterizzazione dell’utilizzabile, ci imbattemmo nella sua spazialità? Si trattava dell’ente che è innanzi tutto utilizzabile. Ciò non significa soltanto l’ente che si incontra rispettivamente per primo rispetto agli altri, ma anche l’ente che è “nelle vicinanze”. E adesso si arriva alla questione della spazialità dell’utilizzabile. Qual è la sua spazialità? Qual è il suo spazio? Non è quello misurabile perché, dice Heidegger, non è un certo posto, non è più vicino di un altro perché i metri sono di meno. Ma qual è il più vicino? Quelli che viene dis-allontanato, dice lui, avvicinato. Lui dice dis-allontanamento nel senso che toglie la lontananza, cioè, toglie qualche cosa…, esattamente come faceva l’aletheia che toglie il nascondimento e lo avvicina. Questo è il concetto dello spazio dell’utilizzabile, è utilizzabile ciò che io dis-allontano utilizzandolo. L’ente “alla mano” ha sempre una vicinanza diversa, che non si fissa misurando le distanze. Questa vicinanza è stabilita dalla manipolazione e dall’uso che “calcolano” secondo la visione ambientale preveggente. Cioè, secondo il progetto. La visione ambientale preveggente, propria del prendersi cura, determina questa particolare vicinanza anche in riferimento alla direzione in cui il mezzo è accessibile in ogni momento. Questa vicinanza non ha nulla a che fare con il puro trovarsi in un luogo qualsiasi dello spazio, non è questo che importa, ma è il modo con cui mi relaziono a questo ente. Relazionandomi a un ente qualunque io o dis-allontano, cioè, lo faccio apparire e diventa vicino. È questo il concetto di spazio in Heidegger, che non ha nulla a che fare con la misurabilità ma ha a che fare con il dis-allontanamento. Infatti, poi dice a pag. 131, Questo orientamento della molteplicità di posti dell’utilizzabile fondato sulla prossimità definisce l’ambientalità… gli enti sono distribuiti in vari posti, ovviamente. …l’essere-attorno-a-noi dell’ente intramondano che si incontra per primo. Non è mai così, che prima ci sia una molteplicità tridimensionale di posti possibili, e poi venga occupata da cose semplicemente-presenti. Dice che non avviene mai così, che le cose siano in posti che prima erano vuoti, poi sono occupati da questo o da quello e che sono lì a disposizione. Non è così che funziona. Questa dimensionalità dello spazio è ancora celata nella spazialità dell’utilizzabile. Il “sopra” è “vicino al soffitto”, il “sotto” è “in terra”, il “dietro” è “vicino alla porta”. Tutti i “dove” sono scoperti in base alle direzioni e ai percorsi del commercio quotidiano e sono interpretati a opera della visione ambientale preveggente; non sono quindi stabiliti e catalogati da una misurazione contemplativa dello spazio. Non sono qui, là, questo è più vicino, quello è più lontano di questo, no, dice Heidegger, questa vicinanza, questa spazialità, di fatto, non esiste o, meglio, esiste ma è uno dei modi di relazionarmi alle cose. Se mi relaziono attraverso un metro allora sì, ma la mia vicinanza o lontananza, nel mio rapportarmi alle cose, sta a indicare semplicemente il modo in cui mi relaziono con un certo oggetto.