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19-3-2014

 

La questione da affrontare questa sera ha a che fare con l’identità e la differenza, questione che abbiamo articolata quando abbiamo considerato il testo di Severino dal titolo Tautótes. La questione della identità e differenza è importante, non tanto per sé ma perché mostra in modo più semplice, forse, il funzionamento del linguaggio. Con identità si intende generalmente la formulazione “a è uguale ad a”, con differenza “a differisce da a”. La questione interessante in tutto ciò, sulla quale la metafisica si è sbizzarrita nel corso dei secoli, è che per formulare questa identità “a = a” occorre che ci sia una “a”. La “a” qui è qualunque cosa, è rilevante che però questa cosa sia accolta come tale, dicendo che “a = a” o “a è identica ad a” ci riferiamo a qualche cosa ovviamente, in questo caso alla “a”, cosa non indifferente e importante da considerare. Per questo ciò che sto dicendo segue a ciò che abbiamo detto la volta scorsa. È che questa “a”, o è quello che è per virtù propria, oppure è quello che è perché è all’interno di un sistema che la definisce come “a”, e cioè è una “a” in quanto appartiene a un sistema linguistico, appartiene cioè a un sistema che è in condizione di affermarne l’esistenza e, dopo averne affermata l’esistenza, di affermarne l’identità. E questo, per quanto possa apparire banale, è ciò che fa la differenza tra ciò che andiamo dicendo e la metafisica. La metafisica ha cercato di verificare se questa “a” è veramente la stessa cosa di sé, e quindi di stabilire quali sono le condizioni per cui questa “a” è identica a sé, ovviamente dando per acquisito il fatto che questa “a” esista di per sé, e sta qui l’intoppo, perché se questa “a” non esiste di per sé ma esiste in quanto prodotto di un sistema linguistico, ed essendo questo sistema linguistico un sistema che produce elementi in quanto connessi con altri elementi, allora questa “a” posta come elemento linguistico è necessariamente connessa con altri elementi linguistici, non esiste di per sé, la sua stessa esistenza, cioè la possibilità di affermare che “a” esiste procede sempre dallo stesso sistema linguistico; dire che “a” esiste è la conclusione di una sequenza di inferenze, come dicevamo la volta scorsa, di inferenze e di derivazioni, di connessioni eccetera, ora se, come stiamo dicendo, questa “a” è il prodotto di un sistema linguistico e quindi di una connessione di altri elementi che connettendosi fra loro giungono ad affermare “a”, allora questa “a” dipende dalla connessione di elementi che la producono. Queste connessioni come sappiamo non sono fisse, immobili, sempiterne, ma mutano, tanto è vero che se si trova all’interno di un certo gioco linguistico questa “a” significa qualche cosa, posta all’interno di un altro gioco linguistico significa altro, e allora dire che “a è identica ad a” oppure dire che “a differisce da a” di per sé non significa niente, assolutamente niente. Per potere affermare che “a identica a sé o differisce da sé” devo avere già previamente stabilito in quale gioco linguistico faccio funzionare questa “a”, che come ho detto, di per sé non è niente finché non la inserisco in un gioco linguistico che darà, questo gioco linguistico, un significato alla “a”. Ora vi dicevo la “a” è la prima lettera dell’alfabeto italiano, ma può, come simbolo, rappresentare qualunque cosa, quando diciamo che se “a allora b” questa “a” può assumere qualunque valore, infatti si chiama variabile appunto per questo, perché varia a seconda dei modi e dei tempi, degli stati d’animo, delle fantasie del momento. A questo punto ciò che possiamo dire è che non c’è alcunché che sia identico a sé o che differisca da sé in quanto tale, che sia identico o differisca è una conseguenza del gioco linguistico in cui quel particolare elemento è inserito. Essendo “a” una variabile, potrebbe essere un termine, potrebbe essere una proposizione anche, perché no? Quindi qualunque termine intervenga in una sequenza trae il suo significato dalla sequenza all’interno della quale è inserito, che è una bella questione, che però rende ciò che stiamo dicendo ultimamente più semplice: qualunque sequenza, qualunque discorso, qualunque costruzione, qualunque teoria, essendo fatta di elementi, di termini che si compongono in proposizioni eccetera, questo teoria in quanto discorso, racconto, argomentazione trae il suo senso da quello dei termini che la compongono, cioè da una struttura composizionale. Questo ha come effetto immediato che qualunque teoria, qualunque discorso sia quello che è, nel modo in cui si manifesta, nel modo in cui appare per una sorta, da una parte, per una sorta di casualità, dall’altra di causalità. È casuale perché non è prevedibile, ma è causale perché comunque segue una direzione che è quella che il discorso impone di seguire. Saranno quelle affermazioni che consentono di potere affermare con maggiore forza e sicurezza ciò che si sta affermando, cioè inseguono il potere, per farla breve, quindi questa “a” di cui dicevo, acquisirà quel significato che è più opportuno perché il significato di quella “a” manifesti un potere, un potere all’interno del discorso in cui è inserita. Se io stabilisco che “a è identica ad a” sto affermando qualcosa ovviamente, sto affermando qualche cosa che esclude che la contraria di questa affermazione sia vera, perché se “a è identica ad a” allora questa “a” non può essere differente da “a”, questo già Aristotele l’aveva stabilito con assoluta certezza, e non a torto, perché affermando che “a è identica ad a” io derivo da questa affermazione la falsità della sua contraria, quindi se pongo la “a” in questo modo allora questo mi da l’opportunità di affermare una conclusione vera, cioè che “a è identica ad a”. Questa affermazione è vera, ed esclude, come abbiamo detto, la derivabilità della sua contraria, cioè da “a è identico ad a” non posso derivare che “a non è a”. Può accadere qualche volta quando si sbagliano i conti, ma a questo punto se è derivabile una cosa del genere tutta la teoria ne viene inficiata, risulta “banale”, cioè se è vera l’una ed è vera l’altra allora è possibile derivare qualunque cosa e il suo contrario, per cui si cerca di evitare con cura che avvenga una cosa del genere. Affermare che “a è identica ad a” consente di potere negare con assoluta certezza e tranquillità la sua contraria, cioè chi dice che non è così è nel falso, sbaglia, erra; la stessa cosa vale evidentemente se affermo con assoluta certezza e risoluzione che “a è differente da a”. In entrambi i casi in cui affermo l’identità di “a” o la sua differenza, muovo dall’idea che “a” sia un qualche cosa che è quello che è, sto soltanto cercando di valutare a causa di che cosa questa “a” è identica oppure differisce da sé, ma muovo comunque dall’idea, dal concetto, dalla certezza che questa “a” di cui sto parlando, è qualche cosa e che è quello che è, perché come abbiamo detto varie volte soltanto se la “a” è quello che è posso affermare che differisce da sé, in caso contrario questo “sé” non si riferisce a niente, stessa cosa vale per l’identità se dico che “ a è identica ad a” occorre che “a” sia qualcosa se no è identica a che? A sé, di nuovo, quindi questo “sé” deve riferirsi a qualche cosa, se non si riferisce a nulla è identica a nulla quindi non ci sarebbe in questo caso né l’identità né la differenza. Potremmo dire che in questo caso le parole né sono quelle che sono, né sono altro da sé, cioè sono niente, che è un’affermazione complicata perché se le parole sono niente cosa sto facendo in questo istante? Con tutto questo forse risulta più semplice la questione a questo punto: un termine di per sé non è nulla, diventa un qualche cosa quando è inserito all’interno di un gioco linguistico, se non è inserito all’interno di un gioco linguistico non è né quello che è, né ciò che non è, non è niente, se invece è inserito all’interno di un gioco linguistico allora diventa ciò che questo gioco linguistico, in particolare le regole, di questo gioco linguistico, stabiliscono che sia, e allora lo posso utilizzare. La questione è questa: se è nulla questa “a” non la posso utilizzare, e così un termine, se fosse nulla non potrebbe essere un termine ovviamente e quindi non sarebbe utilizzabile, perché sia utilizzabile occorre che sia qualcosa, ma che cosa? Quello che è? Sì, quello che è, però non posso affermare con certezza che è quello che è, metafisicamente cioè al di fuori del linguaggio, né posso affermare che differisce da sé, perché per avere stabilito come ho detto prima questa “a”, per potere avere fatto questo sono giunto a questo attraverso una serie di passaggi, di inferenze, di implicazioni, di connessioni che mi hanno portato a concludere che “a” è questo. Sto dicendo che non può in nessun modo essere fuori dal sistema linguistico, senza questo sistema linguistico io non potrei in nessun modo porre una “a” e neanche una “b”, è questo ciò che “costringe” tra virgolette a dire che se esiste una “a” questa “a” non esiste di per sé ma esiste perché esiste il linguaggio, la “a” come qualunque cosa, anche un oggetto, e di questo abbiamo detto la volta scorsa. Dunque dicevo, se pongo questa “a” è perché già sono nel linguaggio quindi questa “a” è nel linguaggio, se è nel linguaggio è il prodotto di una serie di operazioni, ma se è il prodotto di una serie di operazioni non può essere identica a sé di per sé, sarebbe una contraddizione in termini, se è costruita dal linguaggio è il prodotto di una serie di operazioni, oppure non è prodotta dal linguaggio. Se non è prodotta dal linguaggio non c’è, e quindi questo ci costringe a considerare che sia prodotta dal linguaggio. Adesso è ancora più evidente ciò che dicevo prima, e cioè che affermare che “a è identica ad a” o “a differisce da a” di per sé non significa assolutamente niente, non dice niente. Questo che sto dicendo intorno alla identità e alla differenza è importante, perché tutto il discorso occidentale, non proprio tutto ma almeno una buona parte, ha dovuto confrontarsi con una questione del genere. Per potere costruire una teoria e, dopo averla costruita eventualmente proseguirla, il problema dell’identità rappresenta un grossissimo problema perché è stato affrontato e continua ad esserlo in termini metafisici, e allora sì, posto in termini metafisici come faccio ad affermare con assoluta certezza che a è identica ad a?”, come faccio ad affermare con assoluta certezza che le parole, i termini che intervengono in questa equazione, questa proposizione, sono esattamente quelli, cioè sono identici a sé, perché se io formulo questa proposizione “a è uguale ad a” e voglio stabilire se questa proposizione è vera, o ha un senso, devo anche sapere se sono veri e hanno un senso i termini di cui è composta questa proposizione, cosa tutt’altro che semplice. La metafisica tentando di risolvere questo problema, inutilmente, è giunta al termine, almeno così suppongono alcuni, e giunge al termine con l’ermeneutica, tendenzialmente si pensa così, e cioè sbarazzandosi del problema, come dire la “a” non c’è, c’è soltanto la sua interpretazione. L’ermeneutica immagina o che non ci sia la “a” ma soltanto la sua interpretazione che è un modo, come ho detto prima, di aggirare la questione senza affrontarla, meno che mai risolverla, questione che abbiamo affrontata tanto tempo fa: se io affermo che non c’è la “a” ma solo la sua interpretazione, questa interpretazione sarebbe interpretazione di che cosa esattamente? Domanda legittima. L’ermeneutica non risolve la metafisica, né ne è la sua soluzione, è soltanto un modo per aggirare la questione di fronte alla totale impossibilità di risolverla, e l’impossibilità di risolverla procede dal fatto che se io stabilisco un elemento che è fuori dal linguaggio poi mi trovo nei guai se devo dire o meglio rispondere alla domanda antica della metafisica, domanda per antonomasia, e cioè “che cos’è questa “a”?”. “a è uguale ad a”, sembra banale, però se si deve affermarlo con certezza occorre provare questa affermazione, mostrare qualche cosa che possa dire che è vera, ma come? Non c’è un modo, infatti il problema non si è risolto, l’ermeneutica e poi la semiotica in parte, come dicevo ha eliminato il problema. La semiotica si è accorta che un termine trae il suo significato, la sua semiosi, dal racconto all’interno del quale è inserito, però questo termine per la semiotica stessa non è letteralmente prodotto dal linguaggio, cioè da un sistema linguistico, è utilizzato dal sistema linguistico in quel modo, un po’ come l’ermeneutica, quindi la domanda che è possibile porsi a questo punto è “a che punto siamo?”, domanda fatidica, se tutto ciò che diciamo di per sé, in quanto tale, non significa assolutamente niente ma significa qualche cosa perché inserito nel discorso nel quale utilizziamo questa cosa, ma il discorso in cui è inserita questa cosa dice soltanto quali sono le regole “composizionali” cioè come dovremo utilizzare questa cosa, questa “a”, non dice che cosa sia questa “a” perché non lo può fare, e torniamo alla domanda metafisica “che cos’è questa “a”?”. Domandarsi che cos’è qualche cosa è complicato, anche perché prima occorrerebbe sapere che cos’è il che cos’è, e poi che cos’è il che cos’è del “che cos’è?” e via di questo passo, dunque la domanda: “a che punto siamo?”. Siamo a un punto straordinario perché non ci resta che costruire giochi linguistici, per il puro piacere di farlo, cioè la conclusione di questo discorso che vi ho fatto, che vi sto facendo è costruire giochi linguistici, per il puro piacere di farlo. C’è qualcosa al di là di questo? La risposta è no, non c’è nient’altro. Naturalmente il discorso occidentale, che è il discorso metafisico, immagina che questo discorso sia costituito da termini che hanno un loro significato, cioè vogliono dire quello che dicono, e che questo abbia un riferimento alla cosa, cioè dica una cosa, non è proprio così. Certo, l’utilizzabilità di un termine è fornita da un dizionario che ci dice semplicemente in quale modo è possibile, più o meno, sottolineo più o meno, utilizzare un termine, poi, come verrà utilizzato, questo sarà il discorso cioè il gioco linguistico all’interno del quale è inserito a stabilirlo di volta in volta. È possibile cambiare opinione nel giro di pochi minuti, come accade; uno è convintissimo di una cosa, dopo gliene viene in mente un’altra e cambia idea, poi gli viene in mente un’altra cosa ancora e torna all’idea di prima, perché immagina che questi termini abbiano o debbano riferirsi a qualcosa, solo se c’è questa idea allora è possibile compiere questa operazione, cioè di cambiare idea, tornare sull’idea precedente e di credere di volta in volta di avere raggiunto un dato di fatto, cioè di avere capito veramente come stanno le cose. Il tutto procede dal fatto che affermare che “a è identica ad a”, “a = a” o “a è differente da a” non significa niente, se non significa niente questo allora non significa nulla, o più propriamente non la significa da sé, per significare qualcosa deve essere inserita in un gioco linguistico che la provvede di un significato. È vero che “a è identica ad a” se questa proposizione è inserita in un certo gioco con certe premesse, è vero che “a differisce da a” se questa proposizione è inserita in un altro gioco con altre premesse, sono vere entrambe, false entrambe, ma di per sé non significano niente, sono lì in attesa che qualcuno dia loro un significato sia che “a è identica ad a” sia che “a differisca da a”. Questo ci dice a che punto siamo, siamo al punto in cui non c’è nulla che sia qualche cosa se non all’interno di un gioco linguistico che ne determina di volta in volta il senso, cioè il suo utilizzo all’interno di quel gioco, ed è da qui che procede tutta la questione del potere, prima l’ho accennata ma la riprenderemo la prossima volta. Ogni volta che affermo qualche cosa, se mi trovo all’interno di un sistema metafisico, consapevolmente oppure no, ogni volta che affermo qualcosa è come se dicessi che “a è a” e non altro, affermando questo acquisto il potere di negare che la contraria di questa che ho affermata sia vera, cioè ho il potere di affermare che è falsa, e quindi in definitiva di sapere come stanno le cos: ogni volta che si afferma qualcosa si sta affermando che “a è a”. Ogni volta che si afferma qualche cosa, si afferma che “a è a”. Le implicazioni per quanto riguarda il potere, l’esibizione, il mantenimento e la costruzione del potere sono notevoli, dopo tutto il potere è questo: avere la facoltà di affermare che “a è a” questo è il potere. Ma se “a” è un termine linguistico, e cioè è quello che è all’interno e soltanto all’interno di un sistema linguistico, allora dire che “a è a” non significa niente di per sé, e quindi il mio potere si dissolve come neve al sole. Su questa questione, sugli “identici” si è giocato tutto il pensiero occidentale da sempre, senza poterne venire a capo naturalmente perché metafisicamente non c’è nessun soluzione, non può esserci in nessun modo, né metafisicamente né ontologicamente. Ecco come vi dicevo a questo punto si apre la questione del potere, ogni volta che affermo qualcosa il mio potere procede dall’affermare che “a è a”, e da quel punto in poi posso stabilire che cosa è vero e che cosa non lo è, chi ha ragione e chi ha torto, chi è bravo e chi è cattivo.