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19 febbraio 2025

 

Werner Beierwaltes Platonismo e idealismo

 

Il progetto di Beierwaltes in questo libro è mostrare che l’idealismo tedesco, Hegel soprattutto e la dialettica hegeliana, Fichte e Schelling non hanno avuto tanta fortuna. Hegel sì, perché Hegel fu ripreso, come sapete bene, da Marx, e la dialettica hegeliana diventò materialismo dialettico e materialismo storico, cioè, praticamente il pensiero della sinistra. Che cos’è la dialettica hegeliana? È, molto semplicemente, quel processo in cui ciascun elemento ha in sé la condizione del proprio superamento. Beierwaltes ci fa intendere che il pensiero di Hegel, la dialettica hegeliana, è fondamentalmente religioso e che, quindi, la dialettica è religiosa. Perché? Questa è la domanda alla quale dobbiamo rispondere. Ci sono degli elementi importanti che Beierwaltes mette a fuoco. Il processo dialettico è un processo che abbiamo visto molte volte: l’in sé che si estroflette, diciamola così, sul per sé e tornando indietro, attraverso questo procedimento che Hegel chiama Aufhebung, l’integrazione, l’in sé, a questo punto, diventa determinato come in sé. Per fare questo ha bisogno del per sé, cioè, dei molti: praticamente, ha bisogno dei molti per diventare uno. Ora, questo movimento della dialettica hegeliana Beierwaltes lo connette al movimento di Plotino: Uno, Intelletto, Anima, e ritorno all’Uno. È un movimento circolare il ritorno all’Uno, che è presente in Hegel come ritorno del per sé all’in sè. Non è casuale che in Hegel questo movimento porti a quella cosa che lui chiama lo Spirito assoluto. Questo percorso, questo movimento, dice Beierwaltes, è lo stesso movimento di Plotino. Ma cosa comporta questo movimento? Comporta che il per sé viene integrato nell’uno, non il contrario, non è che l’uno viene integrato nei molti. Ed è questo processo che lui indica come la via per giungere allo Spirito assoluto, che per Hegel è il tèlos, la meta, dove le cose sono compiute. Questo ci pone di fronte alla dialettica come un aspetto del discorso religioso. In effetti, il progetto di Beierwaltes è di mostrare che, nello specifico, l’idealismo tedesco è una sorta di emanazione del neoplatonismo e, quindi, proprio per questo continua a essere religioso. Per Beierwaltes dalla religione non si esce perché è quanto di meglio si possa pensare. Noi, invece, andiamo insieme con Beierwaltes ma solo fino a un certo punto, dopodiché andiamo oltre. Andiamo oltre nel senso che, potremmo dire così, ciò che a noi interessa maggiormente è intendere, sì, l’aspetto religioso nel pensiero, ma a che scopo? Perché l’aspetto religioso del pensiero è quello che presuppone l’ineffabile, ha bisogno dell’ineffabile. Come si mostra l’ineffabile, come si esibisce? Lo si incontra nel quotidiano in ciò che non si può dire, in ciò che non si deve dire, nella infondabilità delle opinioni. Le opinioni non sono fondabili né fondate: questo è ciò che non si deve e non si può dire. Perché trovarsi di fronte a questo significa perdere la possibilità di continuare a credere che quello che penso sia vero, e quindi di poterlo eventualmente esibire al prossimo, ma, soprattutto, che io so come stanno le cose. Questo è l’aspetto confortante della religione. La religione, come sappiamo, dà un conforto, e il conforto è questo: le cose che penso hanno un fondamento, quindi, sono vere, quindi, le posso continuare a credere vere. E se non lo sono?

Intervento: Non si parla più.

Si e no. In un certo senso ha ragione, cioè, diventerebbe impossibile continuare a parlare, perché ciascuna parola si mostrerebbe sempre altra da quello che è, quindi, non utilizzabile. Ma cosa interviene? Interviene l’idea, l’idea che unifica e che, quindi, rende possibile dire che questo è un tavolo. Lo rende possibile perché unifica una serie di cose che so essere infinite, ma le rendo finite perché mi avvalgo soltanto di alcune, quelle che io decido, ed è questo che consente di andare avanti. Questo che ho appena descritto non è nient’altro che la doxa, l’opinione comune, quella che dice che questa cosa è questa, quella è quell’altra e bell’e fatto, e quindi possiamo intenderci, più o meno. Però, andando oltre la questione, ci si rende conto che la doxa è, sì, il rimedio, ma è anche una sorta di “catastrofe”, se ogni cosa, come diceva giustamente Aristotele, nasce nella doxa e torna nella doxa… Vedete che anche qui c’è un movimento, ma questo movimento non è che privilegia qualche cosa in particolare, perché è impossibile privilegiare la doxa, - la doxa è un movimento continuo, è sempre altra da sé, non è determinata né determinabile. E, allora, ecco che ci si trova di fronte alla questione essenziale, cioè, alla possibilità - è solo una possibilità - di prendere le distanze dal discorso religioso. Attraverso che cosa? Hegel parla di autoriflessione - l’in sé che si riflette sul per sé che, di nuovo, si riflette sull’in sé, autoponendosi, - ciò che Gentile chiamava autoctisi. Ma questo ritorno del pensiero su se stesso presuppone che ci sia il pensiero dal quale sono partito, e allora posso tornare, così come diceva Plotino: dall’Uno si discende per processione e poi si ritorna all’Uno. Ma è possibile perché l’Uno è sempre lì, è sempre lo stesso, non cambia, perché sennò non so dove tornare, non ho più né un punto di partenza né, quindi, un punto di arrivo. Uscire dal discorso religioso è uscire dalla certezza delle proprie opinioni, per cui le cose stanno così. Stanno così per un artificio, stanno così, in fondo, per una menzogna; semplicemente, voglio che le cose siano così e, quindi, sono così. La dialettica fa questo: l’in sé si rivolge al per sé e dopo torna sull’in sé. Quindi, questo in sé deve essere fermo, fisso, sennò il per sé non torna da nessuna parte. Che cosa mi fa pensare che questo movimento torni là da dove è partito? La fede, nient’altro che la fede. Ecco perché la dialettica hegeliana è religiosa. Dovreste notarlo subito dal fatto che nella dialettica hegeliana c’è questo percorso dall’in sé al per sé che torna sull’in sé, ma non c’è mai il processo inverso, non è che il per sé va sull’in sé e poi torna sul per sé, cioè, torna molti. Questo non accade, le due cose restano comunque separate, l’uno e i molti restano separati; i molti vengono integrati nell’uno, ma in quanto separati. Sono separati perché è possibile determinarli come molti ed è possibile determinare l’uno come l’uno, ma, se l’uno è i molti, come li determino? Perdo la possibilità di determinare alcunché e, dunque, perdo la possibilità di mettere in atto quella che Hegel chiamava dialettica: la dialettica è questo movimento. Ciò che, come dicevo prima, Beierwaltes insinua - infatti, non lo articola per bene - è questo movimento di Plotino: Uno, Intelletto, Anima, e la materia e, poi, il ritorno all’Uno, all’unificazione. Vi ricordate che cosa diceva dell’unificazione: posso unificare perché ho l’idea di Uno, sennò come so che ho unificato? Non lo posso sapere. Lo so perché l’idea di Uno è quella che mi fa sapere che ho composto l’uno, così come l’idea di tavolo mi fa sapere che questo è un tavolo. Tutto ciò ci porta però a una considerazione, che merita di essere fatta e che riguarda prettamente ciò che stiamo dicendo, e cioè il pensiero di pensiero, il pensiero pensante di Gentile, il pensiero che pensa se stesso di Aristotele. Ora, o intendiamo il pensiero pensante come il pensiero che torna su se stesso e si pensa, che è la posizione di Hegel tra l’altro, quindi, di Plotino, quella che presuppone che sia possibile tornare al pensiero, che sia possibile tornare a qualche cosa, perché questo qualche cosa è immaginato determinato; oppure, il pensiero di pensiero non è affatto questa cosa, ma è il pensiero che rileva, che incontra continuamente le aporie del pensiero, e quindi non torna da nessuna parte, semplicemente mette in evidenza le aporie del pensiero. Mettendo in evidenza le aporie del pensiero, ha continuamente sotto gli occhi l’infondatezza e l’infondabilità delle proprie opinioni.

Intervento: Il fatto che il pensiero di Aristotele ripropone se costantemente le proprie aporie vuol dire che non si può riflettere su se stessi, cosa che invece è il meccanismo di circolo chiuso di Plotino o di Hegel. Sarebbe semplicemente uno specchiarsi, un riconoscere che l’uno è identico a sé, l’altro invece no, perché appena pongo scappa.

È già dissolto. Hai visto bene perché, in effetti, tutta quella cosa, nota come introspezione, è esattamente questo: la possibilità di tornare a vedere dentro di sé che cosa c’è di vero. Perché dentro ci sono le cose vere, la verità è dentro e si può solo sentirla. L’introspezione viene da questo pensiero che immagina di tornare su se stesso. Ma il pensiero di pensiero, essere Dio, come diceva Aristotele, a questo punto possiamo intenderlo proprio in questo modo, cioè, come il pensiero che continuamente si scontra con le sue stesse aporie. Ponendosi, si scontra contro l’impossibilità di porsi perché, ponendosi, dilegua. Diceva Eraclito: tutto ciò che si pone, ponendosi, dilegua. L’esempio più evidente di come la dialettica hegeliana sia presente oggi qui, mentre parliamo, è il capitalismo moderno. Cosa fa il capitalismo moderno di fronte a un’antitesi, come direbbe Hegel? Non la combatte, non la scaccia, non vuole distruggerla, ma la ingloba, compie quell’operazione che Hegel chiamava Aufhebung, la integra, rimanendo capitalismo, naturalmente. Perché l’in sè, dopo che si è estroflesso sul per sé e tornato in sé, rimane in sé, non è diventato per sé. Sta qui la questione.

Intervento: Sarebbe questo il motivo per cui il capitalismo predilige la democrazia.

Certamente. La democrazia è il pane del capitalismo, non può sopravvivere in una dittatura. Il capitalismo è più neoplatonico, cioè, questo uno rimane indeterminato, ineffabile, invisibile, invisibile. C’è naturalmente…

Intervento: È il mercato.

In parte, si. Il capitalismo ha fatto questa operazione, ha posto il mercato come il bene. È tutto in funzione del mercato, cioè, tutto è in funzione del bene. È il bene che, in fondo, attrae tutto quanto, come l’Uno di Plotino attrae come una calamita tutto quanto, perché tutto quanto ha preso avvio da lui e vuole tornare a lui. Il riferimento al neoplatonismo, come fa Beierwaltes, è fondamentale, perché sennò non si intende da dove viene tutta questo e soprattutto non si intende la portata religiosa del pensiero, che è diventato il pensiero religioso, che è fortissimamente invasivo. Questo modo di pensare ha pervaso la filosofia ovviamente, ha pervaso l’economia, la società, tutto. Non c’è nulla che non sia stato pervaso dal cristianesimo, cioè, dal neoplatonismo, dall’idea che ci sia il bene. Declinato in vari modi, chiamato in vari modi, ma questo bene c’è e tutti devono tendere a questo bene. Quello che dice Hegel è esattamente questo, pone l’obiettivo: lo Spirito assoluto. Solo che lo Spirito assoluto si compie integrando i molti, facendoli quindi scomparire. Perché il per sé, una volta che è tornato sull’in sé, non c’è, c’è l’integrazione, c’è l’Aufhebung, c’è la sintesi, che poi diventerà tesi di un’altra antitesi, ecc. Poi, alla fine, c’è il processo finale, che è quello dello Spirito assoluto, quando tutto quanto sarà integrato. In fondo, l’idea di Severino non è poi così lontana: gli astratti qui sono l’antitesi rispetto alla tesi, alla posizione, che è il concreto. È il concreto che è posto, non ancora come un tutto, come un intero; perché sia un intero occorre che i molti diventino uno. Ma c’è sempre questo in tutti i pensatori, l’idea che comunque i molti debbano tornare all’uno. Dicevamo anche di questa idea attuale del controllo globale, attraverso la tecnologia. Ha lo stesso fondamento neoplatonico, cioè, di qualche cosa che deve tornare all’unità. Controllo tutti, quindi, divento il panottico, l’occhio che vede tutto, l’occhio di dio.

Intervento: Sempre nel nome del bene.

Sì, perché il tutto è sempre il bene, ovviamente. L’intero è il bene. Beierwaltes ha colto questo aspetto, anche se non lo problematizza quanto potrebbe, ma d’altra parte a lui interessava mostrare un’altra cosa, e cioè che il neoplatonismo è quanto di meglio il pensiero abbia mai prodotto, al punto che tutti quanti i filosofi, Hegel, Heidegger, senza saperlo, erano neoplatonici. Però, volendo fare questo, trova effettivamente gli indizi del neoplatonismo, come nella famosa frase che chiude il Tractatus di Wittgenstein, “ciò di cui non si può parlare si deve tacere”, che è una affermazione neoplatonica, è l’idea che ci sia un qualche cosa di cui non si può parlare, cioè, l’ineffabile; e ciò di cui non si può parlare, come dicevo prima, è l’infondatezza e l’infondabilità di ciò che penso. Però, come dicevamo prima, certo, ci troviamo di fronte a qualche cosa che potrebbe impedire di parlare, di continuare a parlare. Ciò che ci consente di continuare a parlare, in effetti, è questa idea che unifica, ma non possiamo più, al punto in cui siamo, non tenere conto che questa idea che unifica è una costruzione, è esattamente ciò che descrive Aristotele rispetto all’universale, perché l’idea dell’uno, dell’unificazione, è universale: prendo tutti i molti e diventano l’uno, diventano l’universale. Ma questo universale è i molti, così come la sostanza non esiste senza le categorie, e non si possono eliminare in molti a vantaggio dell’universale, perché l’universale è i molti. Se tolgo i molti, tolgo anche l’universale, cioè, l’uno; non rimane più niente. A pag. 41. Dal fatto stesso che Dio si dice l’essere diventa evidente che la stabilitas dell’essere non è rigidità. C’è una stabilità dell’essere, ma che non è rigidità. Che cosa è? La “medesimità” o eternità di Dio è anzi interiormente mossa, dal momento che Dio è parola e spirito. Se c’è parola c’è movimento, c’è poco da fare. Nella parola come nell’inizio, cioè per mezzo della parola o parlando, egli crea gli enti… Che non è del tutto sbagliato. In effetti, è parlando che le cose appaiono, ci appaiono così come ci appaiono. …nella parola egli trasforma ciò che in lui esiste come idea, in quanto l’ha concepito da sempre, in realtà temporale; nell’atto di questa parola per mezzo di lei essa sorge dal nulla. Lo spirito “congiunge” la parola col Padre e fonda così l’unità pensante e amante. Alla fine, c’è sempre l’unità a cui si tende, a cui è necessario arrivare. Questa idea, come dicevamo prima, non è altro che l’idea del bene. A pag. 43. La speranza nella partecipazione all’essere stesso (Dio) muove dunque l’impulso umano a trascendere, cioè a ritirarsi dall’essere-nel-tempo, a ritornare sulla propria interiorità per scoprire, nell’autocoscienza, il fondamento del proprio se stesso e, tendendo a lui, ad oltrepassarsi. In fondo, è un “saltare” in ciò che “è stabilmente”. Ecco l’autocoscienza, la conoscenza di sé, che presuppone che ci sia un sé stabile, determinato, al quale io posso e devo tornare, come il proprio fondamento. A pag. 45, capitolo quarto. Come ha mostrato una ricerca basta in parte intensa, il concetto di Dio e di essere proprio di Agostino non è pensabile senza la filosofia del neoplatonismo, e particolarmente senza quella di Plotino e Porfirio; a Mario Vittorino, spetta il ruolo, importante per Agostino, di mediatore di filosofemi neoplatonici. Il pensiero di Agostino ci si presenta così come una sintesi nuova, relativamente unitaria e in alcuni punti addirittura coscientemente compiuta, di elementi greci, romani e cristiani. A monte di questa unità, fondandola. è un interrogativo metafisico: “deum et animam scire cupio. Nihil plus? Nihil omnino.” (Desidero conoscere Dio. Niente di più? No, nulla di più). A pag.47. Nel rapporto di sostanza e accidente (categorie) si mantiene sempre una differenza, tale che l’accidente non appartiene mai completamente alla sostanza. Sostanza e accidente formano sì un tutto unitario: cioè un questo o un quello, un qualcosa determinato dalla sua forma interiore, ma non raggiungono mai l’identità, la sostanza, cioè, non assume mai in sé l’accidente in modo tale che quest’ultimo non sia più se stesso ma soltanto sostanza, pura sostanza. È esattamente il contrario di quello che diceva Aristotele, e cioè le categorie “sono” la sostanza; qui, invece, dice che non devono mai diventare sostanza, cioè, l’uno non deve mai diventare i molti, per nessun motivo. A pag. 49. Dio è Non-Qualcosa, privo di ogni forma differenziante; chi vuol giungere a lui deve, liberandosi da ogni creatura, “dimorare in un puro niente”, deve cioè diventare lui stesso privo di differenza. Diventare niente, che cos’è se la pensiamo logicamente? Avere eliminato i molti, cioè, tutte le determinazioni. Sappiamo che, se elimino tutte le determinazioni, ciò che resta è, appunto, niente. Qui diventare niente è diventare qualche cosa, che non è più neanche un qualche cosa, ma che ha eliminato totalmente i molti, cioè, le determinazioni. Se Dio è ciò che è, e cioè sostanza pura, in-condizionata, in-limitata, in-finita, allora questo suo essere unico nel suo genere può essere indicato nel linguaggio solo attraverso la negazione; la lingua manifesta il suo essere unico dicendo che egli non è, ovvero: che egli non è ente, e in quanto non-ente si esclude e delimita in modo assoluto dall’ambito dell’ente. Se è non-ente è niente, niente; niente significa appunto non-ente. Nel non-essere dell’ente consiste dunque l’essere di Dio. Questo è ciò con cui i teologi si sono trovati ad avere a che fare dal momento in cui hanno deciso che Dio non ha determinazioni, perché ogni determinazione lo sminuisce. Ma se gli tolgo la determinazione rimane niente, quindi, è niente, è un non-ente. Il fatto che la sostanza pura è priva di accidenti, o che appunto non è un ente… Abbiamo visto che sostanza è tutte le categorie. …si può formulare anche con l’aiuto di “al di sopra”... Non è un ente ma è al di sopra. ...super accidens, super speciem, super genus, super omnia... /…/ Sostanza pura o assoluta è dunque non-essere l’ente o essere-altrimenti da com’è lente che ne procede, ovvero semplicemente essere-al-di-sopra... Ecco come la teologia risolve il problema: è il niente, niente in quanto non-ente. È esattamente la modalità che usava Plotino: è al di sopra. …quindi essere-infinito, e essere-senza-misura (immensum): questo è ciò che vuol dire il “qui” nella frase “Ego sum qui sum”.  Sono colui che sono, che è. Il “sum” come elemento della frase “Ego sum qui sum” indica, nell’interpretazione di Eckhart, (Meister Eckhart, teologo tedesco) la sostanzialità di ciò per cui sta nella frase “ego sum”: la sostanzialità dell’essere puro. Sono quello che sono, nient’altro. Anche Plotino diceva dell’Uno, Uno-uno, che non si può determinare, descrivere, è impossibile. La frase “io sono” predica dunque del soggetto “io” della “sostanza pura”, l’essere puro; o altrimenti: il predicato “sono” nella frase “io sono” attribuite al soggetto ciò che il soggetto esso stesso è: puro essere. Cioè, dicendo “io sono colui che sono”, si sta ponendo come il puro essere. “Sum” è l’essenza del soggetto. “Ego sum” è dunque, detto da Dio, esplicazione della medesima cosa: il predicato non aggiunge nulla al soggetto, ma ridice esclusivamente la stessa cosa che il soggetto è in sé. Non può dire nulla di più, ogni cosa in più sarebbe impossibile perché Dio è già tutto; quindi, non c’è un di più da qualche parte, pertanto, non posso dirne di più. Sempre per via del fatto, naturalmente, che questo uno ha eliminato i molti, perché qualunque cosa in più io ne dica è una introduzione dei molti, naturalmente. Quindi, vedete come tutta la teologia, tutto il pensiero occidentale fino ad oggi, è stato un tentativo colossale, incredibile di tenere lontani i molti dall’uno, in modo da potere continuare a pensare di avere ragione perché, se i molti sono l’uno, allora cesso di potere avere ragione.

Intervento: La posizione di superiorità dell’occidente rispetto al resto del mondo. Il capitalismo, partendo da questa posizione di superiorità, vuole integrare.

Sì, integra, ma perché parte da una posizione di superiorità, certo, perché io posso integrare te, ma tu non puoi integrare me. E questa è una posizione hegeliana, cioè l’in sé integra il per sé ma il per sé non integra l’in sé. Sta qui la religiosità di Hegel. Io ti integro perché io sono buono.

Intervento: …

A un certo punto il pensiero greco si trasforma, non è più quello di Aristotele o di Eraclito o di Anassimandro, Parmenide, ma diventa un’altra cosa con Plotino. C’è stato il tentativo di metterli assieme, soprattutto con il medioplatonismo che all’inizio ha tentato quest’operazione di conciliare Plotino con la filosofia greca. A pag. 53. L’analisi eckhartiana delle proposizioni “Io sono” e “Io sono colui che sono”, basata sull’affermazione che in esse, in quanto siano dette da Dio, soggetto e predicato sono identici, mira a qualcosa di simile, sia da un punto di vista formale che da un punto di vista contenutistico, alla “proposizione speculativa” di Hegel. Non ha torto. In effetti, la proposizione speculativa, che poi è quella dell’in sé che si specula sul per sé e che torna sull’in sé, è esattamente questo, perché dice: Quando Eckhart afferma che nelle proposizioni “Ergo sum” e “Ego sum qui sum” soggetto e predicato dicono la stessa cosa, indicano cioè o rappresentano Uno e Lo Stesso Essere, invalida e annulla la forma usuale della proposizione, costituita appunto dalla differenza di soggetto e predicato. Come dire che nell’integrazione viene annullato il predicato, cioè il per sé, scompare: scompaiono i molti e rimane l’uno; cioè, l’in sé alla fine diventa uno. Poi, alla fine, diventa Spirito assoluto. Al fatto che la forma della proposizione, in quanto costituita dalla differenza (di soggetto e predicato), distruggerebbe, quando essa fosse un’autodefinizione del Principio, la sua assenza di relazioni o assolutezza, aveva già accennato Plotino quando ammetteva soltanto, come eventuale autodefinizione dell’Uno, “Io Io” o “sono sono”. Ora Hegel al posto della proposizione distinta in soggetto e predicato, caratteristica dell’atteggiamento raziocinante, cioè formal-logico del sapere ed appartenente, dunque, all’ambito dell’”opinione”, ha posto la proposizione speculativa o filosofica in senso proprio. La natura del giudizio o proposizione in generale (natura che implica in sé la distinzione di soggetto e predicato) viene distrutta dalla proposizione speculativa; così la proposizione identica in cui trapassa la prima contiene il contraccolpo a quel comportamento. La “distruzione” consiste nel fatto che il soggetto non costituisce più il sostrato del predicato nel senso di un’identità oggettiva, fissa in se stessa, ma che invece la totalità della proposizione si costituisce come in un movimento dal soggetto nel predicato e da questo di nuovo nel soggetto. Questo movimento è riflessione: l’autoriflessione del rapporto di soggetto e predicato. Però, vedete che è il predicato che torna al soggetto, c’è sempre soltanto questo movimento. Il passaggio dal soggetto nel predicato fa del predicato un’autodefinizione del soggetto; il predicato non è dunque più “predicato del soggetto, ma è la sostanza, l’essenza e il concetto di ciò intorno a cui verte il discorso. Cioè, questo predicato scompare nel soggetto. È questa la novità in Hegel: non c’è più questa formula, diciamo logica di soggetto e predicato, ecc., ma il predicato scompare nel soggetto. Questa è l’Aufhebung, l’integrazione. La distinzione di soggetto e predicato non viene con questo annientata, si elimina però la fissità di entrambi, in modo che dalla proposizione la loro unità risulta “come armonia”. Riportare all’unità. La distinzione non viene tolta, anzi, è necessaria; ma è come se si ricomponesse in un tutto, in un uno, ma si ricompone sempre e soltanto nell’in sé, cioè nell’uno, nel soggetto.