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19 febbraio 2020

 

Scienza della logica di G.W.F. Hegel

 

Ci sono alcune cose che volevo dirvi prima di riprendere la lettura di questo testo di Hegel, Scienza della logica. Fra tutte le cose che ha dette, dalla Fenomenologia in poi, potremmo in effetti trarne una considerazione interessante, e cioè che ciò che ciascuno vede, incontra, non è nient’altro che i propri miti, le proprie credenze, in definitiva, le proprie fantasie, che sono in pratica ciò di cui è fatto. Quindi, è questo che si vede, che si osserva, che si incontra: i propri miti. Con mito possiamo intendere, per il momento, semplicemente un racconto che impone al mondo, alle cose, un ordine, un significato. Lo impone, di sicuro non lo trova, ma lo impone. Questo ci induce anche a considerare che parlando, in effetti, si continua a fare sempre questo: si impone a ciò che si dice di essere ciò che si vuole che sia. È un atto di volontà di potenza, ma si vuole che le cose siano in un certo modo, in quel certo modo, perché occorre che queste cose siano utilizzabili, e si impone a queste cose di essere degli utilizzabili per la volontà di potenza. In questo modo la volontà di potenza, cioè il linguaggio, procede all’infinito. L’unica cosa che interessa agli umani è che qualche cosa sia utilizzabile per la volontà di potenza, ed è questo che rende importante il qualche cosa in questione, perché è utilizzabile dalla volontà di potenza, sennò è totalmente irrilevante. L’altra questione, che è comunque connessa a questo e riguarda ciò che Hegel descrive già nella Fenomenologia dello spirito, è quella dell’altra coscienza, cioè della coscienza che ci si trova di fronte: la coscienza, cioè una persona, si trova di fronte a un’altra coscienza, cioè a un’altra persona, quindi, a un altro discorso, a un altro racconto. Ora, tenendo conto della dialettica e anche di ciò che diceva Hegel, accade che quest’altra coscienza, dialetticamente, deve scomparire. Hegel non dice esattamente questo, lo accenna senza però porlo in questi termini. L’altra coscienza, cioè l’altra persona, sarebbe l’opponente, vale a dire, un altro discorso: il discorso che fa Cesare non è il mio e, quindi, è il negativo rispetto al mio. Dialetticamente, che cosa accade? Accade che questo altro discorso deve essere tolto. Deve essere tolto perché solo a questa condizione il mio discorso diventa il mio discorso, cioè quello che è; deve essere tolto, proprio così come descriveva Severino, sulla scia di Hegel indubbiamente, rispetto all’essere e al non-essere: il non essere, l’altro discorso, deve esserci ma deve essere tolto; solo così l’essere diventa necessariamente quello che è, cioè: non è non-essere. Quindi, la coscienza, la persona, deve porre l’altro per toglierlo. Qui la questione si fa interessante, non soltanto perché questo renderebbe conto del motivo per cui gli umani sono da sempre rissosi e belligeranti gli uni con gli altri, necessariamente e sempre, perché sembrerebbe indurre a pensare, detto in termini molto rozzi, che il nemico sia necessario al mio discorso per confermarlo, cioè per renderlo quello che è. Senza il nemico il mio discorso non toglie ciò che il mio discorso non è. Mi faceva riflettere questa cosa, come dicevo, non tanto perché renderebbe conto che gli umani da quando esistono si scannano fra loro, questo è un effetto collaterale, ma per il fatto che sia necessaria la presenza del nemico. Quindi, non è, almeno così appare, un fenomeno che accade e che poi si tratta di gestire in qualche modo, qui è diverso: è qualcosa che deve esserci per potere essere tolto perché io possa confermare il mio discorso, cioè perché il mio discorso sia vero. Perché sia vero occorre che non sia ciò che non è, cioè il discorso altrui. È chiaro che, posta la questione in questi termini, tutto diventa più complesso e anche più semplice, per altro verso, nel senso che la “necessità” del nemico è tale intanto, occorre dire, nella misura in cui questi due discorsi, il mio e quello del nemico, rimangono separati, come direbbe Hegel, rimangono due figure e non due momenti dell’intero, perché quando diventano due momenti dell’intero non sono più il mio discorso e il discorso del nemico, ma diventano altro, diventano appunto l’intero. È come quando Hegel dice dell’essere e del nulla: finché sono considerati come figure rimangono l’essere e il nulla, ma nel momento in cui si integrano, diventano l’intero, non sono più l’essere e il nulla, sono un’altra cosa. E così il discorso e il suo opponente a questo punto, nell’integrazione, diventano un’altra cosa, non più queste due cose qua, sono un’altra cosa; dove il mio discorso non ha più bisogno di confermarsi attraverso la negazione del contrario o dell’opponente, perché è integrato. È vero che l’ho tolto, ma integrandolo. Ora, si tratta di vedere se la cosa funziona esattamente così. Apparentemente, sì, perché dialetticamente il discorso dell’altro funziona come non essere rispetto all’essere, cioè come qualcosa che deve esserci ma per essere tolto. Quindi, in una prima approssimazione, si tratterà poi di pensarci meglio, apparirebbe la necessità del nemico per confermare il mio discorso. Quindi, non è un evento accidentale o casuale l’esistenza di un nemico ma una necessità “logica”. Il nemico non può togliersi; può integrarsi nel momento in cui questa integrazione mostra effettivamente l’intero, cioè mostra il linguaggio, cioè ancora, nel momento in cui si è consapevoli di essere linguaggio, come sola condizione. Al di fuori di questa condizione la necessità del nemico permane e non può essere tolta.

Intervento: La questione soggetto-oggetto…

Sì, è un altro modo di porre la questione ma è la stessa cosa. In effetti, quando Hegel dice che soggetto e oggetto sono lo stesso pare alludere al linguaggio, al suo funzionamento, perché solo nell’intero soggetto e oggetto sono lo stesso, cioè cessano di essere due figure ma diventano due momenti dell’intero. La figura del nemico permane finché permane la struttura religiosa, quella che mantiene le due figure, come dicevamo l’altra volta, il povero peccatore e il Dio superno. Finché permane la struttura religiosa non c’è la possibilità di accogliere l’intero. Sappiamo che è estremamente difficile accogliere l’intero, il discorso punta essenzialmente a mantenere separati, come due figure, il positivo e il negativo, cioè a mantenerli come astratti anziché accogliere il concreto, l’intero.

Intervento: La retorica del nemico, le dittature novecentesche…

L’evocazione del nemico conferma la nostra ragione.

Intervento: La nostra identità…

Sì, la nostra identità in quanto essere positivo e, quindi, ci si oppone a quell’altro, che è il negativo, che deve esserci. È un altro modo di porre la questione, cioè la necessità del nemico, che minaccia l’identità. Identità intesa qui come l’essere, come il positivo che deve essere difeso dal negativo, perché permangono religiosamente le due figure come separate.

Intervento: C’è la contrapposizione politica, religiosa, il bipolarismo come semplificazione…

Che non si integra mai, che non diventa relazione. Nella relazione questi due momenti non sono più gli stessi, sono un’altra cosa, per cui ovviamente non c’è più la contrapposizione. Questa è stata l’idea geniale di Hegel: ciascun elemento ha in sé la contrapposizione, perché per essere quello che è, è necessario che non sia quello che è. Come scriveva già nelle prime pagine della Fenomenologia dello spirito, l’in sé è il cominciamento, ma in un certo senso è cominciamento di niente, perché non c’è neanche un in sé finché non diventa per sé e poi torna nell’in sé. Come dire che soltanto nel momento in cui c’è questo ritorno, in cui l’in sé si integra con il per sé, soltanto a questo punto c’è l’in sé, il cominciamento; solo alla fine c’è il cominciamento. Che è come dire che non c’è nessun inizio senza linguaggio, cioè occorre che ci sia già tutto il linguaggio perché ci sia il primo passo, che a questo punto possiamo chiamare, sì, il primo, ma non significa niente.

Intervento: La questione del due senza il tre… Il cristianesimo ha provato a dare una risposta…

Hegel dice proprio questo, che la religione disvelata è quella che più si è avvicinata alla cosa, cioè, ha posto l’intero, il tutto, solo che ha continuato a mantenerlo nel trascendente. Lo lascia lì per cui ecco il povero peccatore e dall’altra parte il Dio onnipotente. Tuttavia, è come se avesse intravisto questo intero ma non ha saputo accorgersi che tutto ciò che attribuiva a Dio, in realtà, era sempre lui. Che è la stessa cosa di ciò che dicevo all’inizio: quando qualcuno vede qualcosa non vede nient’altro che i suoi miti, le sue storie, i suoi racconti, perché tutto ciò che attribuisce alla cosa è lui, non è quella cosa lì. Sono questioni che rimangono sul tavolo, occorre pensarci. Detto questo, proseguiamo. Siamo a pag. 102, Capitolo Secondo, L’essere determinato. L’esserci… L’esserci è l’immanente, è l’essere qui. …è essere determinato: la sua determinatezza è determinatezza che è, qualità. Dicendo qualità si indica una determinazione. Per mezzo della sua qualità qualcosa è contro un altro, è mutevole e finito, e determinato non solo contro un altro, ma addirittura negativamente in lui stesso. Qui c’è tutto Hegel: questa opposizione non è soltanto contro l’altro ma è in se stessa. Questa sua negazione in quanto è anzitutto contrapposta al qualcosa finito è l’infinito. L’opposizione astratta, nella quale appaiono queste determinazioni, si risolve nell’infinità priva di opposizione, ossia nell’esser per sé. La trattazione dell’essere determinato presenta quindi queste tre sezioni: A. l’essere determinato come tale, B. qualcosa ed altro, la finitezza, C. l’infinità qualitativa. A pag. 103. Dal divenire sorge l’essere determinato. L’esser determinato è il semplice esser uno dell’essere e del nulla. Questa determinazione non è altro che l’unione di essere e nulla. A cagione di questa semplicità esso ha la forma di un immediato. La sua mediazione, il divenire, gli sta da tergo. La determinazione, di fatto, è l’unione, per dirla con le sue parole, di essere e nulla, simultaneamente. Non è semplice essere, ma esser determinato o esserci. L’esserci è l’essere determinato. Preso etimologicamente, l’esserci è essere in un certo luogo; ma la rappresentazione spaziale non ha qui che far nulla. L’esserci o l’essere determinato è in generale, conformemente al suo divenire, un essere con un non essere, cosicché questo non essere è accolto in semplice unità coll’essere. Il non essere, accolto nell’essere per modo che l’insieme concreto sia nella forma dell’essere, o dell’immediatezza, costituisce la determinatezza come tale. Quello che sta dicendo qui non è nient’altro che ciò che Severino indicava con la celeberrima proposizione “questa lampada che è sul tavolo”: ciò che determina la lampada non è il fatto di essere una lampada ma il fatto di essere nell’intero, di essere nel concreto; è questo che la determina, e cioè il fatto di essere tanto essere quanto nulla, di essere determinatezza e di essere indeterminatezza. Cotesto insieme od intiero è ugualmente nella forma, ossia nella determinatezza, dell’essere, poiché l’essere si è parimenti mostrato, nel divenire, come quello che è soltanto un momento, - un momento tolto, determinato negativamente. Però è così per noi nella riflessione nostra; non è posto ancora così in lui stesso. Noi adesso pensiamo all’essere come momento, però, dice, nei fatti non accade così: si continua a considerarli come due figure, l’essere e il non essere, positivo e negativo. L’esser determinato od esserci corrisponde all’essere della sfera precedente. Ciò nondimeno l’essere è l’indeterminato, cosicché in esso non si manifestano verune determinazioni; l’esserci, invece, è un essere determinato, un concreto, epperò in esso si mostrano subito parecchie determinazioni, diversi rapporti dei suoi momenti. Quello che continua a dire è che nel determinato c’è l’indeterminato, tolto ma c’è, sempre. A cagione dell’immediatezza nella quale, nell’esser determinato, l’essere e il nulla son uno, nessuno dei due eccede l’ambito dell’altro; per quanto l’esser determinato è, per altrettanto è desso un non essere, ossia è determinato. L’essere non è l’universale, la determinatezza non è il particolare. La determinatezza non si è ancora sciolta dall’essere. È certo, d’altra parte, che ormai non se ne scioglierà più, giacché il vero che ormai sta come base è l’unità del non essere coll’essere, - su questa s’impiantano tutte le ulteriori determinazioni -; però la relazione in cui sta qui la determinatezza coll’essere, è l’immediata unità dei due, di modo che non è ancora posta fra loro distinzione alcuna. La determinatezza isolata così per sé, qual determinatezza che è, è la qualità… Quindi, la determinatezza è isolata. Ci sta dicendo che la qualità è un astratto. Quando io considero la lampada che è sul tavolo, la prendo, la guardo, ecc., da quel momento astraggo la lampada e vedo le sue qualità (è bianca, è alta, è pesante, ecc.). …un che affatto semplice, immediato. La determinatezza in genere è il più universale, che può essere anche il quantitativo, come pure un ulteriormente determinato. Della qualità come tale, a cagione di questa semplicità, non v’è altro da dire. Ma l’esser determinato, in cui si contiene tanto il nulla quanto l’essere, costituisce esso stesso il criterio con cui si valuta l’unilateralità della qualità come determinatezza soltanto immediata o essente. La qualità dev’esser posta anche nella determinazione del nulla, col che la determinatezza immediata, o che è, vien posta come una determinatezza distinta, riflessa, e il nulla, in quanto è allora il determinato di una determinatezza, è parimenti anch’esso un riflesso, una negazione. La qualità, presa in modo che valga distintamente come essente, è la realtà; come affetta da quel negare, è in generale una negazione, cioè parimenti una qualità, ma però una qualità tale, che ha il significato di una mancanza, e che si determina poi come limite, termine. Quindi, la qualità si determina come mancanza. Potremmo dire a questo punto che la qualità non riesce a porsi fuori del concreto, cioè, la immagino fuori del concreto come astratto, ma nel momento in cui la colgo come astratto, a sua volta questo astratto è inserito all’intero di un altro concreto, dove questo astratto ha un altro opponente, un altro nulla, e così via di seguito. Insomma, non c’è modo di determinare la qualità. A pag. 108. La determinatezza è la negazione posta come affermativa; è la proposizione di Spinoza: Omnis determinatio est negatio. Ogni determinazione è una negazione, è un negare qualcosa. Questa proposizione è di una importanza infinita. Chiaramente, Spinoza ha anticipato quello che lui stava per dire, cioè che determino qualcosa a partire da ciò che questo qualcosa non è. Poco più avanti. L’individuo è riferimento a sé per ciò ch’esso pone limiti ad ogni altro. Ma questi limiti sono con ciò anche limiti dell’individuo stesso, riferimenti suoi ad altro. L’individuo non ha il suo esserci in lui stesso. Questa è una questione importante, in effetti. Dice L’individuo non ha il suo esserci in lui stesso. Buona parte di tutto il pensiero occidentale, fino alla psicologia, ha sempre pensato il contrario, e cioè che l’individuo ha il suo esserci in sé, è quello che è per sé, per virtù propria. Hegel dice no, non è così. L’individuo è certamente più che ciò ch’è limitato da ogni parte; ma questo più appartiene a un’altra sfera del concetto. Nella metafisica dell’essere l’individuo non è se non un che di determinato. Ora contro cotesto, che il finito sia cioè come tale in sé e per sé, - contro cotesto si fa valer la determinatezza come quella ch’è essenzialmente negazione, trascinando il finito in quello stesso movimento negativo dell’intelletto, che fa sparir tutto nell’unità astratta, la sostanza. A pag. 109. La qualità è più specialmente proprietà solo in quanto in una relazione esterna si mostra come determinazione immanente. Per proprietà, per es. delle erbe, s’intendono determinazioni tali che non solo siano in generale proprie di qualcosa, ma che per esse cotesto qualcosa si mantenga in una certa particolare sua guisa nel riferirsi ad altro, e non sopporti gli influssi estranei posti in lui, ma anzi, benché non respinga da sé l’altro, pure faccia in esso valere le sue proprie determinazioni. Poco più avanti. Nell’esserci venne distinta la sua determinatezza come qualità. In questa, come esserci che è, è la differenza, - la differenza di realtà e negazione. La qualità tra ciò che è e ciò che non è: questa è la differenza. La realtà contiene essa stessa la negazione, è esserci, non già l’indeterminato, astratto essere. Parimenti anche la negazione è esserci… Anche la negazione c’è. …non quel nulla che si vorrebbe far credere astratto, ma il nulla in quanto qui è posto com’è in sé, il nulla come quello che è, come quello che appartiene all’esserci. Così la qualità non è in generale separata dall’esserci, il quale non è se non un essere determinato, qualitativo. Sempre tenendo conto di ciò che ha detto prima della qualità, e cioè che ha in sé sia il determinato che l’indeterminato. Questo togliere o risolvere la differenza è più che un mero ritirarla e un estrinseco tralasciarla di nuovo, più che un semplice tornare indietro al semplice cominciamento, all’esserci o all’esser determinato come tale. La differenza non può essere tralasciata poiché essa è. Quando parla di integrazione, per es. tra l’essere e il nulla, questa differenza tra i due c’è, non può essere tralasciata, permane. Sta qui tutta la potenza del pensiero di Hegel: il nulla non si toglie, l’infinito non posso toglierlo dal finito; questa differenza permane sempre. È la religione che vorrebbe togliere uno dei due. Quello dunque che nel fatto abbiamo dinanzi è l’essere determinato in generale, la differenza che è in esso, e il togliere questa differenza; l’essere determinato non come in sé indistinto, qual era nel cominciamento, ma come di nuovo simile a se stesso, per il togliere della differenza, la semplicità dell’essere determinato mediata da questo togliere. Questo esser tolta della differenza è la determinatezza propria dell’essere determinato o esserci. Così esso è un esser dentro di sé. L’essere determinato è un ente determinato, qualcosa. Il qualcosa è la prima negazione della negazione, come semplice essente relazione a sé. Ve la faccio più semplice. Lui intende con il determinato il momento in cui dall’in sé si passa al per sé; nel momento in cui tolgo il per sé – lo tolgo, ma non è che viene cancellato – allora l’in sé diventa determinato, diventa quello che è. È questa la determinatezza di cui ci sta parlando: io tolgo il per sé, cioè il significato – il significante non esiste senza il significato e viceversa, ma il determinato è il significante mentre il significato è l’indeterminato; se io ricerco il significato posso andare avanti all’infinito, mentre il significante è determinato, intanto perché è quello e non un altro – e una volta che il significato ritorna sul significante allora rende il significante effettivamente quello che è e lo determina, diventa cioè quel significante che ha quel significato. Il significante è determinato, ma devo togliere il significato; una volta tolto rimane il significante, ma non più come quel primo significante ma come il significante che è, cioè l’in sé appunto. A pag. 111. Qualcosa è, è essente, in quanto è la negazione della negazione, poiché questa è il ristabilirsi del semplice riferimento a sé. La negazione della negazione. cioè togliere la prima negazione, che è l’opposizione tra essere e nulla (uso questi due momenti per semplicità); il nulla è la negazione dell’essere; quindi, la negazione della negazione è togliere il nulla, cioè integrarlo nell’essere. Anche questa negazione non è una cancellazione, è sempre un’Aufhebung. Questa mediazione con sé, che il qualcosa è in sé, non ha, in quanto vien presa solo come negazione della negazione, nessune determinazioni concrete per i suoi lati. Questa mediazione con sé non è altro che l’essere mediato del qualcosa una volta che ho messo in atto la seconda negazione. Ricade quindi in quella semplice unità che è l’essere. Il qualcosa è, e poi anche è un essere determinato; oltracciò è in sé anche divenire, però un divenire che non ha più per suoi momenti soltanto l’essere e il nulla. L’uno di questi, l’essere, è ora esserci… Si è determinato. …e per di più esserci che è. Il secondo è anch’esso un esserci che è, ma determinato come negativo del qualcosa, è un altro. Il qualcosa come divenire è un passare, i cui momenti sono essi stessi dei qualcosa, un passare quindi, che è mutamento (un divenire divenuto già concreto). Ma in sulle prime il qualcosa non si muta che nel suo concetto. Così esso non è ancora posto come mediante e mediato. Dapprima è posto soltanto come sostenentesi, semplicemente, nel suo riferirsi a sé, e il suo negativo è posto anch’esso come un qualitativo, soltanto come un altro in generale. Ci sta mostrando, diciamo così, la fase che precede l’integrazione nell’intero. A pag. 112, punto B. La finità. a) Qualcosa ed altro; in sulle prime essi sono indifferenti l’uno fronte dell’altro; un altro è anch’esso un esserci che è immediatamente, un qualcosa; la negazione cade così fuori dei due. Qualcosa è in sé contro il suo esser per altro. Ma la determinatezza appartiene anche al suo in sé, ed è… Si sta ponendo un’obiezione al fatto che quando si pone qualche cosa che è contro di me, questa differenza sembra cadere fuori di me, è qualcosa che è fuori dei due. A pag. 113. 1. Qualcosa ed altro sono tutti e due in primo luogo degli esserci che sono o dei qualcosa. In secondo luogo ciascuno dei due è anche un altro. Non solo qualcosa ed altro sono, ma sono anche entrambi quello che sono e anche altro. È indifferente quale dei due si chiami per il primo, e solo per ciò, qualcosa; (in latino, quando si presentano in una proposizione, tutti e due si chiamano aliud o l’un l’altro, alius alium; in una opposizione è analoga l’espressione alter alterum). Se noi chiamiamo un certo determinato essere A, e l’altro B, in sulle prime è B, che è determinato come l’altro. Ma anche A è a sua volta l’altro di B. Tutti e due sono in pari maniera altri. A fissar la differenza e quel qualcosa che si deve prendere come affermativo, serve il questo. Ma questo enuncia appunto che un tal distinguere e porre in rilievo l’un qualcosa è un designare soggettivo, che cade fuori del qualcosa stesso. Questa contrapposizione tra me e l’altro comporta sì una differenza, ma che cade fuori. Tutta la determinatezza cade in questo estrinseco mostrare. Perfino l’espressione: Questo, non contiene alcuna differenza. Questo? Questo cosa? Come se chiedessi a Cesare: mi dia questo. Lui giustamente vuole che lo determini. Tutti i qualcosa son questi, come sono anche altri. Quando si dice: Questo, si crede di esprimere qualcosa di perfettamente determinato; si dimentica che il linguaggio, come opera dell’intelletto, enuncia soltanto l’universale, eccetto che nel nome si un oggetto singolo. Ma il nome individuale è privo di senso come quello che non esprime un universale, ed appare per lo stesso motivo quale un puro posto, un puro arbitrario, secondo che poi i nomi individuali si possono anche prendere, dare oppure mutare ad arbitrio. L’esser altro sembra quindi una determinazione estranea all’esserci così determinato; sembra cioè che l’altro stia fuori dell’un esserci; da un lato, che un esserci sia determinato come altro solo per mezzo del confronto di un terzo; dall’altro lato, che sia determinato come altro solo a cagione dell’altro che è fuori di lui, mentre per se stesso non sarebbe tale. Nello stesso tempo, come si è notato, ciascun esserci si determina parimenti, anche per la rappresentazione, come un altro esserci, cosicché non resta più un esserci che sia determinato soltanto come un esserci, che non sia fuori di un esserci, epperò non sia, esso stesso, un altro. Non c’è scampo, per Hegel: ciascuna cosa è quella che è in quanto altro. Quindi, il primo luogo era Qualcosa ed altro sono tutti e due in primo luogo degli esserci, ci sono; in secondo luogo ciascuno dei due è anche un altro. In terzo luogo, quindi, l’altro è da prendersi come isolato, come in relazione a se stesso, cioè astrattamente come l’altro. Questo è l’τερον di Platone, che lo contrappone, come uno dei momenti della totalità, all’uno, attribuendo in questo modo all’altro una sua propria natura. Soltanto così l’altro è inteso come tale, cioè non come l’altro di qualcosa, ma come l’altro in lui stesso, ossia come l’altro di se stesso. Tale altro, che è altro per determinazione sua, è la natura fisica. La natura fisica è l’altro dello spirito. Questa sua determinazione è così dapprima una semplice relatività, che non esprime una qualità della natura stessa, ma soltanto una sua relazione estrinseca. Se non che in quanto lo spirito è il vero qualcosa… Così come ci aveva mostrato nella Fenomenologia dello spirito: lo spirito, il pensiero, è il vero. …epperò la natura è in lei stessa soltanto quella ch’essa è contro lo spirito, la qualità della natura, in quanto questa si prende per sé, è appunto di esser l’altro in lei stessa, quel che è fuori di sé (nelle determinazioni dello spazio, del tempo, della materia). Quindi, anche la natura è quella che è in quanto è altro da sé, in quanto si determina in base a ciò che è fuori di sé. L’altro per sé è l’altro in lui stesso, quindi l’altro di se stesso, e così l’altro dell’altro… Se io prendo l’altro per sé, in quanto tale, è altro in se stesso, quindi, dice Hegel, è l’altro di se stesso, perché è altro. …dunque quel ch’è in sé assolutamente dissimile, che si nega, quel che si muta. Questo sarebbe l’altro dell’altro. Ma in pari tempo esso resta identico con sé, perocché quello, in cui si mutava, è l’altro, che non ha verun’altra determinazione oltre a questa di esser altro. … Nel suo andar nell’altro non va perciò che con se stesso. Esso è posto così come un che di riflesso in sé insieme col togliersi dell’esser altro, come un qualcosa identico con sé, da cui perciò l’esser altro, che è in pari tempo un suo momento, è un che di diverso, che non gli compete in quanto qualcosa. Come dire che, posto in questi termini, l’esser altro è tuttavia identico con sé, è quello che è, da cui perciò l’esser altro, che è in pari tempo un suo momento, è un che di diverso, che non gli compete in quanto qualcosa, perché se è qualcosa non gli compete di essere altro, ma lui è già altro, è essere per altro. Qui non siamo ancora arrivati all’integrazione. A pag. 115. L’esserci come tale è un immediato, un irrelativo, ossia è nella determinazione dell’essere. Ma l’esserci in quanto include in sé il non essere, è un essere determinato, negato in sé, e quindi anzitutto Altro, - ma poiché insieme nella sua negazione si conserva anche, è soltanto esser per altro. Quindi, l’esserci è essere per altro. Ricordate Heidegger, che cos’è l’esserci, il Dasein? È tale in quanto progetto gettato, cioè essere per altro; sono esattamente le parole di Hegel, né più né meno. Potremmo aggiungere che l’esserci è tale in quanto essere per altro, cioè in quanto un utilizzabile, in quanto una parola. La parola è un utilizzabile, necessariamente; se non è utilizzabile non è una parola. Si conserva nel suo non essere, ed è essere. Non però essere in generale, ma come riferimento a sé contro il suo riferimento ad altro, come eguaglianza con sé contro la sua disuguaglianza. Un tale essere è essere in sé. È essere in sé nel momento in cui ha integrato il suo essere in riferimento ad altro; allora, a questo punto, torna in sé ed è in sé. L’esser per altro e l’essere in sé costituiscono i due momenti del qualcosa. Quello che qui si affaccia, son due coppie di determinazioni. 1) Qualcosa ed altro. 2) Esser per altro ed essere in sé. Le prime contengono l’irrelatività della loro determinatezza; il qualcosa e l’altro cadono l’uno fuori dell’altro. Ma la lor verità e la lor relazione. Su questo Hegel non transige e insiste sempre: la loro verità è la relazione. L’esser per altro e l’essere in sé son quindi quelle medesime determinazioni poste come momenti di uno stesso, come determinazioni che son relazioni, e che restano nella loro unità, nell’unità dell’esser determinato. Ciascuno di questi momenti contiene quindi in pari tempo in sé anche il suo momento da lui diverso. L’essere e il nulla nella loro unità, che è l’esser determinato o l’esserci, non son più come essere e nulla. Come vi dicevo anche prima, questi due momenti, una volta che sono integrati, non sono più quelli, l’essere e il nulla non sono più essere e nulla, sono una relazione. Non son così che fuori della loro unità. Cioè: è nella religione che si mantengono uno fuori dell’altro. Così nella loro unità inquieta, nel divenire, l’essere e il nulla sono il nascere e il perire. L’essere nel qualcosa è essere in sé. L’essere, il riferirsi a sé, l’eguaglianza con sé, ora non è più immediato, ma è riferirsi a sé solo come non essere dell’esser altro (come esser determinato riflesso in sé). In egual maniera il non essere come momento del qualcosa in questa unità dell’essere e del non essere non è in generale non esserci, ma Altro, e più determinatamente, in quanto da lui rimane in pari tempo distinto l’essere, è relazione al suo non esserci, esser per altro. Diventa una relazione. Quindi l’essere in sé è primieramente relazione negativa al non esserci, ha l’esser altro fuori di sé, e gli sta di contro; in quanto qualcosa è in sé, è sottratto all’esser altro e all’esser per altro. Ma in secondo luogo ha anche in sé il non essere, poiché è appunto il non essere dell’essere per altro. L’essere per altro, poi, è primieramente negazione della semplice relazione dell’essere a sé, la quale ha da essere anzitutto esserci e qualcosa; in quanto qualcosa è in un altro o per un altro, è privo del suo proprio essere. Ma secondariamente esso non è il non esserci come puro nulla; è un non esserci che accenna all’essere in sé come al suo essere riflesso in sé, così come viceversa l’essere in sé accenna all’esser per altro. Questo è il movimento della dialettica, né più né meno. 3. Ambedue i momenti son determinazioni di uno stesso, vale a dire del qualcosa. Qualcosa è in sé, in quanto levandosi dall’essere per altro, è tornato in sé. Però qualcosa ha anche una determinazione o una circostanza in sé (qui l’accento cade sull’in) o in lui, in quanto questa circostanza è estrinsecamente in lui, è un esser per altro.