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19 gennaio 2022

 

Il Sofista di Platone di M. Heidegger

 

Gli oratori dell’età arcaica, cioè precedenti a Platone e a Socrate, nel loro mestiere si sono cimentati essenzialmente non già, come afferma Cicerone, nel parlare de arte, cioè sulla τέχνη, bensì ex arte, a partire dalla τέχνη. In altri termini, il loro lavoro consisteva nel redigere discorsi, nello scrivere e nell’enunciare modelli di discorso. Ciò si integrava in una certa teoria che loro stessi definivano ϑεωρία, tale però da non potere essere intesa nel senso vero e proprio del termine che ϑεωρία possiede per i Greci. Quanto ci rimane della tradizione della retorica antica lascia intendere che il senso della ητορική τέχνη, e quindi anche il senso del discorso pubblico, fosse quello di condurre i suoi destinatari, gli uditori, a un determinato convincimento, cioè, è un provvedere alla formazione di un punto di vista su qualcosa. Questo è il senso proprio del λέγειν: si parte da un’opinione dominante, la si discute affrontando così un determinato caso, in tribunale o davanti all’assemblea popolare, in modo che l’opinione comune vi concordi allo stesso modo e conceda quindi la sua approvazione. L’orientamento primario è ricavato dall’opinione comune al fine di imporsi presso questa e di procacciarsi potere e credibilità. Si tratta di un intento perseguito nel discorso che non viene in alcun modo a fissare da vicino il fatto di cui si parla, ma che anzi si orienta sui punti di vista dell’opinione comune. Qui, senza neanche tanto accorgersene, ha posto la questione. Dice al fine di imporsi presso questa e di procacciarsi potere e credibilità. Questa è la retorica, certo, però c’è da dire che la retorica per loro ha a che fare con il vivere, con la vita comune, con tutte le situazioni in cui ciascuno parla di qualche cosa con qualcun altro. Infatti, è proprio così che anche Platone nel Gorgia vede la retorica. Dopo aver interrogato Gorgia sull’essenza della retorica, Socrate riassume così l’opinione dell’interlocutore: “Ora, Gorgia, mi sembri manifestare esattamente quale τέχνη tu ritenga sia la retorica e se ben capisco tu dici tutto il suo mestiere, il suo scopo, procedono in questa direzione, oppure tu dici eventualmente che la retorica sarebbe capace di qualcos’altro che non sia il plasmare un certo punto di vista negli uditori?”. Questa è la concezione della retorica che Platone ha nel Gorgia, cioè negativa… E cioè uno strumento per persuadere e basta. La critica che Platone rivolge alla retorica è di non volere giungere alla verità della cosa ma semplicemente alla persuasione e cioè a instillare una sorta di opinione in chi ascolta. Abbiamo visto che non è proprio esattamente così, perché il sofista, sì, certo, conosce la tecnica retorica ma non è interessato a cogliere la verità della cosa, perché sa che non c’è. E, quindi, fa una cosa interessante, perché è come se dicesse, anche se non lo dice, che ciascun dire è un’allegoria. L’allegoria letteralmente significa “dire dell’altro su qualche cosa”: λλος, altro, e γορεύω, che è un altro dei modi utilizzati dai Greci per il termine “dire”. Quindi, allegoria è un dire qualche cosa d’altro rispetto a ciò che si dovrebbe dire. Ma quando si parla, quando si afferma qualche cosa non si dice sempre qualche cosa d’altro? Necessariamente. Se io voglio dire A, per definirla, per determinarla, devo dire B e sarà B che determina la A. Quindi, è come se i sofisti si fossero accorti che tutto il dire non è altro che allegoria. Generalmente, l’allegoria si presenta anche, per esempio, nella pittura: voglio rappresentare la vittoria, quindi, cosa faccio? Dipingo, per esempio, un’aquila che sorvola le linee nemiche con la bandiera nel becco, e questo dovrebbe essere un’allegoria della vittoria. Questo nella pittura, ma nel dire si fanno continuamente allegorie e radicalizzando la questione potremmo dire che affermare qualche cosa è necessariamente un’allegoria, cioè un dire qualche cos’altro, sempre; quindi, non si può parlare di ciò di cui si vorrebbe parlare perché, parlando di quello, si parla di altro. Essa (retorica) rinuncia a trattare proprio di ciò su cui deve insegnare a parlare. Rappresenta una dimestichezza… Dimestichezza è un termine che Heidegger utilizza anche per tradurre τέχνη, quindi, come dimestichezza, saperci fare, ecc. …non orientata a un qualche contenuto reale ma ha di mira ciò che noi chiameremo una mera procedura puramente esteriore. Questa posizione negativa di Platone sulla retorica, il fatto cioè di non riconoscere in essa una τέχνη dotata di una propria legittimità, è evidentemente dovuta al genere di oratori che imperversavano a quel tempo. La cosa strana, però, è che già in questo dialogo Platone abbia in mano le possibilità positive di una comprensione effettiva della retorica ma non le sviluppi efficacemente. Ben diversa è la posizione di Platone che assume sulla retorica nel Fedro. Qui abbiamo una concezione positiva, non tale da indurre Platone a riconoscere nella retorica una vera e propria τέχνη, come farà in seguito Aristotele. È proprio il Fedro che può offrirci un chiarimento decisivo intorno all’intera questione di cui ci stiamo occupando qui. Adesso, infatti, ci parlerà per un po’ della questione della retorica nel Fedro. Rispetto alla retorica ne va del discorso nel senso dell’esprimersi e del comunicare, del discorso come di una modalità di esistenza, nella quale l’uno con l’altro e l’uno con l’altro, come pure entrambi assieme cercano la stessa cosa. Cercano la stessa cosa. Sì, infatti, in ciascun dialogo ciascuno cerca di persuadere l’altro. È in questo senso che cercano la stessa cosa, ma non è che vogliano sapere che cosa è esattamente quella cosa lì, della quale il più delle volte importa molto poco, perché è solo un pretesto, un’occasione per potere mettere in atto una volontà di potenza, cioè una persuasione. Quanto sia forte il fenomeno del λόγος in questo contesto dell’esistenza dell’uomo risulta già dalla prima parte (del Fedro) nella quale lo stesso Socrate si caratterizza parzialmente in modo ironico come un entusiasta della retorica di quel tempo e ciò a cospetto di Fedro, che porta sempre con sé i discorsi di Lisia. Uscendo dalla scuola di Lisia, Fedro incontra Socrate, il quale lo trattiene dicendogli “Tu hai incontrato uno che dell’amore per ascoltare i discorsi ha fatto una malattia”. Già con ciò è ben chiaro e lo vedremo nuovamente che per Socrate è di estrema importanza il λόγος, la giustezza dell’esprimersi, in quanto egli vede in questo esprimersi nient’altro che lo scoprire, nel fare ciò, se stessi. È interessante, anche se da Socrate appena abbozzato, il fatto che soltanto attraverso il λόγος posso conoscere me stesso, cioè, soltanto parlando, soltanto pensando, quasi ad alludere che io sono λόγος, per cui fino a che non conosco il λόγος non conosco me stesso. È per questo che dice di essere malato di amore per il discorso, per l’ascoltare discorsi. Contemporaneamente, parla della sua passione per la conoscenza di sé. E dice “Non sono ancora in grado di conoscere me stesso, come richiede l’iscrizione di Delfi (conosci te stesso). Non sono ancora giunto fin lì e, poiché non essendo giunto abbastanza avanti, resto nell’ignoranza circa me stesso. Mi sembra ridicolo cercare di capire ciò che mi è estraneo e che non mi appartiene. Come dire: se prima non conosco me è inutile che mi dia da fare a conoscere altre cose. Pertanto, vi rinuncio e in tutte queste cose, come la natura e simili, rispetto a queste mi attengo a ciò che comunemente si crede”. /…/ È interessato soltanto ai discorsi, non alle cose. “Campi, prati, alberi non possono insegnarmi nulla, lo possono invece uomini in città”. È per questo che dice che raramente esce dalla città. Fedro e Socrate stanno infatti facendo nel pomeriggio una passeggiata fuori città e si sdraiano presso il torrente. Socrate si riferisce al fatto che Fedro porta con sé la trascrizione di un discorso di Lisia, con il quale lo ha attirato fuori città all’inizio del dialogo. “Mi sembra che tu abbia effettivamente trovato il mezzo appropriato per attirarmi sin qui…” /…/ Platone fa innanzitutto vedere che gli oratori sono completamente fuori rotta circa le condizioni di possibilità della loro stessa τέχνη e che, per quanto riguarda la tecnica propriamente detta, ciò che precede gli artifici e i trucchi del mestiere (la composizione, la dizione, ecc.) c’è da meditare su cose molto più fondamentali per potere mettere un simile oratore nelle condizioni di adempiere al suo compito. Persino, l’εκώς απαθη (εκώς = probabile, verosimile; απαθη = inganno) è possibile e può essere effettivamente perpetrato soltanto se si vede il vero. In questo modo Heidegger dice che Platone in questo punto pone positivamente la retorica, e cioè come un primo percorso da avviare verso la dialettica: è la dialettica che importa a Platone. C’è poi qui una questione che merita di essere detta, che riguarda la visione della verità, il vedere. Sapete che per i greci la vista è assolutamente prioritaria su tutto perché la vista che fornisce il maggior numero di differenze percepibili. Non solo, la vista è quella cosa che consente la visione globale, del tutto, del concreto, come direbbe Severino, ma consente anche la visione dei dettagli, dei particolari. Ora, qual è la differenza fondamentale tra la dialettica di Platone e la retorica? Vi ricordate quando leggemmo il Sofista di Platone: l’eleate non vedeva le cose, chiedeva di raccontargliele, di dirgliele, perché non vede. Quindi, da una parte la vista, ciò che consente di percepire, di cogliere l’essere – per i Greci l’essere non è altro che il fenomeno, ciò che appare così come appare –, dall’altra, il sofista, in quel caso l’eleate, che dice che non vede. Perché è importante questa questione? In effetti, se ci si pensa, la vista mostra il fenomeno così come appare e illude che lì sia tutto. È un po’ come nell’allegoria: nella parola “vittoria” potrebbe esserci tutto, ma quello che dipinge o chi fa un’allegoria si accorge che c’è molto di più nella parola “vittoria” che può essere detto, che può essere mostrato: la forza, il coraggio, l’audacia, ecc. Il sofista si accorge che in quella cosa che si vede c’è di più, esattamente come Zenone, che pure vede che Achille sorpassa la tartaruga, lo vede sì, ma vede anche di più, vede qualche cosa che altri non vedono. In Platone la dialettica, come modalità di giungere alla vera essenza della cosa, attraverso, come vedremo tra poco, διαίρεσις, divisioni infinite; immagina di cogliere la cosa in sé, la cosa così com’è, attraverso lo sguardo. Certo, lo sguardo fa vedere le cose, è vero, ma è come se il sofista chiedesse “Ma è tutto lì?”. E, poi, come faccio a vedere quella cosa? Come faccio a sapere che c’è qualche cosa da vedere? Sì, io vedo qualche cosa ma, qui a un certo punto lo dice, è come se dovessi già sapere quello che vedo per poterlo vedere, sennò non lo vedo. E questo sapere già non è altro che il linguaggio. Ma ci torneremo a brevissimo. Ricordiamo anzitutto ancora una volta qual è il nostro compito: vogliamo assicurarci della realtà e del senso del primato del λόγος nella problematica della filosofia scientifica. Si chiede qual è il ruolo del λόγος in Platone. La peculiarità del Fedro sta nel fatto che tale dialogo non svolge alcuna indagine specifica nel dominio delle questioni in esso dipanate e nemmeno cerca di impostarla. Se noi dunque attribuiamo di particolare importanza il fenomeno del λόγος in Platone non è per proporre qui una nuova lettura di Platone… /…/ Ciò di cui invece si tratta è permettere a tutti voi di conoscere il campo di indagine a partire dal quale sono sorti i concetti fondamentali della scienza dei Greci. Questa è la domanda: qual è il campo di indagine? Che cosa hanno incominciato a chiedersi i Greci? Loro hanno visto delle cose, certo, ma perché hanno cominciato a interrogarsi sul λόγος vedendo le cose? Tutto questo libro, Il sofista, Parmenide e tanti altri, sono tutti dialoghi intorno al λόγος. Sì, certo, c’è il vedere, il vedere la cosa così com’è, il θεωρέιν, alla quale cosa punta la dialettica platonica: finalmente il liberare tutto quanto e vedere la cosa così com’è. Senza tenere conto che per vedere la cosa così com’è occorre intanto che io sappia, come dicevo prima, che c’è qualcosa da vedere. Vale a dire, per potere sbarazzarmi del linguaggio – perché poi è di questo che si tratta – devo conoscerlo benissimo e utilizzarlo, per potere arrivare a dire che voglio vedere senza linguaggio, cioè, senza intermediari, senza alcun mezzo. La problematica della seconda arte del Fedro risulta chiara dove dice: bisogna stare a vedere e non perdere di vista il λόγος e precisamente il λόγος inteso come l’esprimersi nel senso più ampio del termine, in un certo senso come rendere pubblici se stessi. Va esaminato quanto al modo di parlare e di scrivere rettamente o meno. C’è da notare l’ampia accezione in cui viene qui assunto il λόγος ed è per questo che connoto tale fenomeno in termini di rendersi-pubblici, comunicarsi-ad-altri. La domanda concerne la condizione di possibilità del καλός λέγειν … (del bello o del retto parlare e del bello o del retto scrivere). Sussiste anche l’intento di mettere in risalto la condizione di possibilità della comunicazione ingannevole e inautentica dell’απαθη (inganno). La risposta fondamentale al quesito sulla condizione dell’esprimersi rettamente viene data in questo modo: la διάνοια, cioè il coglimento, la determinazione in senso lato dell’ente, così come la attua il λγον, colui che si esprime, dev’essere presente in una disposizione tale da aver sin da principio già veduto l’ente di cui vuole parlare nella sua svelatezza. Cioè, deve avere già visto ciò di cui parla, ciò che vuole intendere. Qui, in effetti, Heidegger riprende il proprio pensiero, e cioè che si parte dalla chiacchiera. Io non posso che partire dalla chiacchiera, cioè dal si dice, da quello che si pensa, si suppone, si crede, si immagina, per poter incominciare a muovermi, per poi eventualmente chiarire, precisare, ecc., è da lì che parto. Tutti quanti non fanno che ripeterlo, sia Platone, sia Aristotele e poi Heidegger, naturalmente. Si tratta di cogliere gli effetti, le implicazioni di tutto ciò, non basta dire che tutto viene dalla chiacchiera e da ciò che appare. E, quindi, che succede? Dire che tutto è fondato su un’opinione, su una analogia. Persino Eliot Mendelson, a denti stretti, è costretto a dire che alla fine di tutto c’è l’analogia, il “mi sembra che sia così”. Poi, sarà così? Chi lo sa? Facciamo come se fosse così e di lì andiamo avanti e, soprattutto, come hanno ribadito tanto Aristotele quanto Platone, non ce lo chiediamo più, il discorso è chiuso e che a nessuno venga in mente di porsi questa domanda. C’è qui il richiamo a Fedro, non un richiamo a ciò che egli sa, ma a ciò che ha sentito dire. Parte da ciò che ha sentito dire. Perciò nell’ottica del sentito dire, egli si rivolge a Socrate una precisa obiezione. Egli cioè richiama il fatto che coloro che vogliono essere oratori non sono per niente interessati a esperire, a conoscere ciò che è vero e retto in realtà nel suo stesso essere, ma si accontentano di conoscere ciò che costituisce i punti di vista della massa. Qui c’è una questione curiosa perché, secondo Platone, la retorica si fonda proprio sulla necessità di persuadere gli altri. Ma per persuadere gli altri si parte dalle opinioni. Il fatto è che comunque si parte sempre da opinioni, solo che per Platone questo partire da opinioni ha come unica valenza il persuadere, il manipolare il prossimo, mentre per lui si tratta sì di partire dalle opinioni ma per trovare tra le opinioni quella vera, quella giusta, quella corretta. Ed è qui che naturalmente si separa la dialettica dalla retorica e dalla sofistica – Platone poi non distingueva neanche tra sofistica e retorica, erano per lui la stessa cosa. Diciamo che qui la discriminante è il fatto che da una parte Platone vuole far credere che esista la cosa vera, reale, vuole farlo credere; dall’altra, la retorica insegna come fare credere una cosa del genere, ma non ha questa velleità, che invece ha la dialettica, di arrivare alla cosa in sé, alla cosa vera, reale, concreta, perché sa che non c’è. Però, io posso insegnare a illudere che ci sia questa cosa vera e reale. Capite subito che Platone, e con lui Aristotele, una cosa del genere suonava malissimo, come se i sofisti facessero un po’ il verso tanto a Platone quanto a Aristotele. La dialettica, che vuole arrivare a determinare la cosa, come fa a determinarla? Deve mantenere l’ente e il non-ente separati. Solo a questa condizione può credere di aver isolato l’ente, cancellando il non-ente, cancellando il negativo, ciò che poi Hegel reintrodurrà. Già gli eleati non separavano l’ente. La condizione per potere credere che esista la realtà delle cose è tenere separate le due cose, cosa che a Platone nel Sofista e neanche nel Parmenide non riesce, tant’è che a un certo punto chiude il discorso. Quindi, tutto sta in questo tenere separati. Può apparire strano ma, in effetti, è ciò su cui si è costruita tutta la civiltà; probabilmente, è stata anche la condizione per poterla costruire. Ma la cosa su cui merita riflettere è il come questo sia sempre presente a tutt’oggi in ciascuno mentre parla, e cioè la necessità di separare per potere continuare a parlare. Separare vuol dire che ciascuno dei due elementi che separa o, più propriamente, quello che vuole isolare, deve essere univoco, deve essere quello che è. Se è così allora ne fa discendere tutta una serie di implicazioni, se non lo è non andiamo da nessuna parte. Quindi, deve essere così, devo porlo come univoco, e devo considerare il polivoco, il suo significato, come qualcosa che posso tenere separato. L’idea è di tenere separati il significante dal significato, il che naturalmente ha delle complicazioni; quella più appariscente è di non riuscire mai a farsi intendere come si vorrebbe. Una delle frasi che si sentono: non mi capisce! Intanto, primo, perché dovrebbe? Secondo, è complicato perché io non posso sapere che cosa quella certa cosa che tu dici significa per te in questo momento, perché magari tra cinque minuti sarà un’altra cosa e magari dieci minuti fa era un’altra ancora. Quindi, una totale incomprensione che regna tra gli umani è una conseguenza del volere mantenere separati l’ente e il non-ente. L’ente, cioè la cosa così com’è, come la vedo o come, a questo punto sarebbe opportuno dire, a me appare, non come è ma come a me appare. Come mi appare? Mi appare nel λόγος, è soltanto nel λόγος che posso vedere qualcosa. È questo che dice l’eleate a Teeteto, quando questi gli chiede “Lo vedi quell’albero?”, “No, non lo vedo, ma se tu me ne parli allora vedrò qualche cosa di ciò che tu vedi”, ma ciò che io vedo non c’entra con quello che vedi tu. Certo, ci possiamo mettere d’accordo, ma non è questo il punto, non è questa la questione che si pone in ambito teoretico. Propriamente, nemmeno Teeteto vede quell’albero, in quanto quello che è; lo vede, sì, nell’insieme, ma se vuole dire ciò che vede deve determinarlo, cioè deve dire altre cose che quell’albero non sono. Finché quell’albero non lo determino quell’albero non esiste, quindi, necessariamente quell’albero è sempre altro. Questo è il senso dell’ente e del non-ente come due momenti dello stesso. È questo ciò su cui insiste l’eleate, quindi, il sofista, cioè, l’impossibilità di mantenere separati l’ente e il non-ente. Separazione sulla quale, come dicevo prima, si è costruita la civiltà, tutto ciò che conosciamo, e cioè la possibilità di cogliere la cosa senza determinarla. Il θεωρέιν è questo: cogliere la cosa senza determinarla, come se fosse già in sé determinata. Capite la follia. Ed è di questo che si è accorto Hegel: non posso cogliere l’in sé se non c’è il per sé, se non c’è un qualche cosa che lo significhi; dopo ci sarà anche l’in sé, dopo ci sarà anche la cosa che vedo, ma la cosa che vedo arriva dopo la determinazione. Questo lo avevamo visto anche nella Metafisica: ciò che è prima “cronologicamente” in realtà viene dopo, viene dopo che io ho determinato quella cosa, la quale peraltro non può esistere senza la sua determinazione. Quindi, è determinandola che la faccio esistere. Secondo Socrate non dev’essere fatta fondamentalmente alcuna differenza tra discorsi. Ciascuno di essi sottostà all’idea dell’ορθωτέϛ (adeguamento, correttezza), dell’essere orientato in base alla cosa stessa. L’ορθωτέϛ, la correttezza: una cosa è corretta se è correttamente orientata verso la cosa stessa. Ma questa cosa stessa è già letteralmente pre-determinata per potere essere qualche cosa, è già determinata. Quindi, la correttezza non è verso quella cosa lì che io immagino di potere vedere senza determinazione, θεωρέιν. No, quella cosa lì, verso la quale mi oriento, è una cosa che io ho costruito attraverso la sua determinazione. Fa poi tutto un lungo discorso sul come faccia la retorica a ingannare rettamente. Dice che la retorica inganna rettamente quando sa qual è la verità: io so qual è la verità, quindi, posso ingannare, cioè, nascondere la verità. E, allora, introduce due elementi: uno è μοιον, il simile, l’adeguato, cioè l’adeguare qualcosa a qualcos’altro… Il suo λόγος (quello dell’oratore) deve dunque la possibilità dell’μοιον. L’μοιον va qui inteso come un’attuazione del λέγειν, cioè come un rendere manifesto. E qui fa un esempio del discorso giudiziario: l’avvocato che vuole difendere il suo assistito e, quindi, porrà l’accento sulle cose che sono convenienti a giudicare la sua innocenza, mentre l’accusa farà esattamente il contrario: dovrà dividere le cose, dare importanza a una e togliere importanza a quell’altra. Sono i rudimenti della retorica. Andiamo avanti. Tratta di come costruire il discorso: il discorso deve essere costruito in modo tale che abbia una testa, un corpo, degli arti, ecc., come se fosse un corpo umano, deve essere un tutto unito. Il λόγος, colui che parla, deve essere capace di orientare, di ricondurre a un’unica visione, a una singola cosa vista. Deve fare vedere le varie cose come un’unica cosa. La questione della vista, qui ne parlerà, è centrale. In greco vedere è ράω. Ma perché la vista, il fare vedere? Perché la vista ha questa virtù: dà l’impressione di potere cogliere, vedendo, il tutto. È quello che si chiama il colpo d’occhio: fa vedere il tutto. Volete che vi evochi “la lampada che è sul tavolo”? Questa lampada che è sul tavolo la colgo immediatamente, con un colpo d’occhio: la lampada, il tavolo, quindi, Gabriele, Cesare, il pavimento, il soffitto, tutto quanto. “Questa lampada che è sul tavolo” è tutte queste cose, ma io non posso occuparmi di queste cose se non astraendole; però, l’idea è che la visione dia l’accesso e tutto Platone ruota attorno a questo, che il vedere dia l’accesso alla cosa. Tutta la dialettica di Platone punta a questo, punta a far vedere la cosa così com’è, ma a farla vedere attraverso il λόγος. Si dimentica questo dettaglio, che farla vedere attraverso il λόγος significa determinarla, significa cioè attribuirle dei significati e, quindi, non è più quella cosa pura e fine a se stessa, esente da ogni considerazione, che si mostra così com’è. Non è mai stata quella cosa lì, perché già il fatto che sia una cosa significa che è stata determinata in quanto cosa. C’è poi questo far vedere. Com’è noto c’è una figura retorica che si occupa di questo, l’ipotiposi, che letteralmente è il fare vedere attraverso le parole: descrive la cosa in modo così vivace, così reale, che pare di vederla. Ma questa idea del vedere, di fare in modo che sembri di vederla, è anche questo un inganno, perché sembra di vederla ma in realtà ciò che vedo è sempre qualche cosa che è già preceduto da una determinazione. Come dicevo prima, devo già sempre avere visto e saputo ciò di cui voglio occuparmi. Potremmo, quindi, dire a questo punto che la retorica è il modo in cui gli umani parlano. Prima parlavamo dell’allegoria. L’allegoria è inevitabile perché se io voglio dire una certa cosa ne dirò delle altre. E così l’ipotiposi, il tentativo di fare vedere e, quindi, illudere che la cosa sia proprio così, perché se la vedo si incorre in quella superstizione nella quale non incorreva l’eleate nel Sofista di Platone: “Lo vedi l’albero? Lo vedi che è così”, “No, non lo vedo. Tu parlamene e forse allora vedrò anch’io quello che vedi tu”. L’eleate, il sofista, non cade in questa illusione che ciò che appare sia così com’è per virtù propria. Perché questo è ciò a cui tende la dialettica di Platone: far credere che ciò che si riesce a far vedere alla fine sia quello che è per virtù propria, senza essere determinato dal linguaggio. Il che è un’illusione, un inganno, un απαθη, direbbe Platone. Un inganno puro e semplice: ti faccio credere che ciò che tu vedi sia proprio così. Poi, naturalmente, il disastro accade quando gli chiedo di descrivere quello che vede, perché se ci sono tre persone ciascuno descriverà cose totalmente differenti, che alla fine uno si chiede se abbiano vista davvero la stessa cosa, come accade con le testimonianze nei tribunali, ecc. Platone, che combatte il sofista, che lui chiama illusionista delle parole, un giocoliere delle parole, proprio lui invece propone il più colossale e terribile inganno: fare credere che le cose che vedo siano quelle che sono per virtù propria. Non c’è mai stato un inganno più colossale di questo.

Intervento: …

Sì. Infatti, soprattutto Platone, Socrate ancor di più, usa li stessi artifici che usano i sofisti, né più né meno. Platone è letteralmente un sofista sotto questo aspetto. Non lo è perché lui aveva in mente la παιδεία, la formazione, il creare una visione, una coscienza. Per Socrate si tratta soltanto di indurre la persona a porsi delle domande, mentre Platone voleva che accettasse le risposte, il che è diverso. È vero quello che dici e l’obiezione di Platone sarebbe stata “Sì, certo, anch’io faccio vedere la verità come i sofisti, ma la verità che faccio vedere io è il frutto di una διαίρεσις, di una divisione, di un’indagine precisa, dove ho eliminato tutte quelle cose che non appartengono a quella cosa lì. E, allora, dici: ma come fai a sapere prima quali cosa le appartengono? Devi già sapere tutto. E, allora, cosa stiamo qui a parlare! Non c’è scampo dall’eleate, non c’è scampo da Parmenide né da Zenone, perché hanno colto da subito tutta la questione del linguaggio, e cioè che il linguaggio funziona attraverso questi due momenti, distinti ma simultanei: l’ente e il non-ente, l’affermare e il negare sono lo stesso. Invece, con Platone, e poi con Aristotele, la cosa ha preso una piega che è stata quella che ha portato a Plotino, poi a tutto il cristianesimo, l’illuminismo, ecc. Da allora non ci si è più mossi da lì, da questa idea di dovere separare le due cose, fino a Hegel, il quale, come giustamente nota Heidegger, ha mancato la questione del λόγος. Occorre anche intendere come nel dire quotidiano di ciascuno intervenga questa separazione, che è inevitabile, ineliminabile. Se io voglio affermare qualche cosa devo pensare come porre questa cosa come univoca, cioè, deve essere quella. Proprio quella che Platone cercava, che è quella che è per virtù propria. Devo porla così per potere parlare. Se io dico che questa è una penna, certo, è una penna, e l’immagine che ho è questa, non è un’altra, è univoca. Ma che cosa dicono gli eleati? Certo, questa immagine è univoca perché questa non è tutto ciò che non è, quindi, posso distinguerla, differenziarla da tutto il resto. E, se riguardo a questa penna, tutto il resto non fosse separato, questa penna non esisterebbe, non potrei neanche pensare questa penna se non ci fosse ciò che questa penna non è, cioè, il negativo. Senza il negativo non posso pensare il positivo, se io tolgo uno dei due elementi non è che l’altro rimane lì bello e dominante, no, scompare anche lui. È questo che non hanno inteso né Platone né Aristotele. Aristotele in alcuni punti sembra averlo inteso, però se voglio imporre una verità, cosa indispensabile se si vuole governare, allora il negativo devo toglierlo. Addirittura Platone dice che l’Uno è il bene e i molti sono il male e, quindi, il male va estirpato, eliminato e rimane solo questo, senza accorgersi che se tolgo quello tolgo anche questo e, allora, che cosa rimane? Rimane niente, una specie di simulacro e, allora, ecco la rincorsa a fare in modo che questa cosa esista da sola e più rincorro questa cosa, perché esista da sola, e più mi compaiono infinite altre cose, la cosa si spande a macchia d’olio e resta senza soluzione, appunto un’aporia. Il διαλéγεσθαι (la dialettica) ha il compito di fornire una panoramica dello stato di fatto orientandosi a una unica idea, a una sola immagine di modo che in questa interconnessione possa essere avvistata l’intera concrezione di cui si deve trattare. Questa idea di potere vedere il tutto e, quindi, la cosa così com’è, cioè, l’immagine unica: questa immagine qui è unica perché è questa. Il problema è che è “questa” perché c’è tutto il resto, sennò non sarebbe niente. E, invece, la dialettica per Patone punta a fare in modo che l’immagine, l’idea unica, sia dominante rispetto alle molte idee. E qui aggiunge una cosa che ricorre continuamente: la συναγωγ, il mettere insieme, che si contrappone alla διαίρεσις, alla separazione. Quindi, la vista come dicevo all’inizio, sì, fa vedere il tutto, l’intero, è il colpo d’occhio che vede un po’ tutto, ma mi consente anche di vedere i dettagli. Tutta la questione del concreto e dell’astratto di Severino viene da qui. Ricondurre a una sola prospettiva… Questo dovrebbe fare la συναγωγ: ricondurre a un’unica prospettiva, e cioè vedere la cosa senza intermediari, senza interferenze di sorta. Questa συναγωγ non fa nient’altro se non questo, che ciò di cui si parla sia: 1) σαφές che vuol dire chiaro, da cui anche σοφς, sapere, quindi, da φς, luce. Nel greco c’è sempre, la luce, il vedere e la verità. Tutto il pensiero dei Greci è costruito su questo. La stessa nozione di λήθεια, qualcosa che esce dall’oscuro e viene in luce. Quindi, deve essere chiaro e univoco. Chiarezza e univocità di ciò di cui si deve parlare: questo è quanto offre il primo momento strutturale del procedimento dialettico. Il primo momento è il separare, rendere chiaro, indivisibile. Quindi, costruire un’ipotiposi, e poi la συναγωγή, il mettere insieme tutte le cose che si vedono in modo che ci sia univocità, che sia univoco. Il problema è che nella dialettica deve rimanere univoco, mentre per l’eleate non lo è affatto univoco o, meglio, è univoco ma a condizione che sia polivoco, e viceversa. Platone denomina questa stessa procedura abbracciare in un’unica prospettiva, vale a dire che l’idea opera la prospettiva che chiarifica ciò che essa abbraccia. L’idea ma anche, naturalmente, l’immagine. Se io vedo l’idea, che cos’è l’amore… Qui si riferisce alla prima parte del Fedro … soltanto allora sono in grado a partire da questa di separare gli uni dagli altri i diversi fenomeni e le differenti strutture. Se io vedo l’idea. Qui vedete la fragilità dell’argomentazione di Platone, fragilità inevitabile. A quali condizioni vedo l’idea? E, poi, quale idea vedo? Chi mi dice che è quella giusta? Come se la cosa si rivelasse da sé. Ora, Platone non credeva questo, però immagina comunque che sia un rivelarsi della cosa ed ecco che allora si inventa la reminiscenza: tutta la teoria delle idee, che stanno lassù, e allora ciascuno ha già visto ciò di cui si tratta e si ricorda – ah, ecco, è quella cosa lì! – e siamo tutti a posto. Ma questa che possiamo chiamare banalità con cui risolve il problema dà conto della difficoltà in cui è incappato, il tentativo feroce di vincere la battaglia contro l’eleate, non avendo armi a sufficienza, perché voleva a tutti i costi con la sua dialettica separare l’uno dai molti. Il secondo componente della dialettica è la διαίρεσις, ciò che è stato abbracciato con lo sguardo simultaneamente in un’unica prospettiva, ciò che si vede bisogna ora sezionarlo da cima a fondo, guidati dal costante riferimento all’idea. Idea che naturalmente è garantita soltanto dal fatto che l’idea c’era già nell’Iperuranio e allora io la ricordo. Ma potrei anche ricordare male. Questo per dire della fragilità della posizione di Platone a questo riguardo. Quello che innanzitutto è una moltitudine indifferenziata di oggetti, dentro un sapere approssimativo quanto al suo senso e alle sue possibilità, in questo caso a proposito dell’amore, esso deve scomposto a partire dalla mia idea… Cioè, dall’idea unica. Platone paragona questa διατμνειν (sezionare) al dissezionamento di un animale… In cui si distingue bene. Lui fa l’esempio del cuoco che separa per benino i muscoli, il cuore, le interiora, per cui se è un bravo cuoco sa separare come Dio comanda. Quindi, su che cosa basa che questa idea sia quella unica, sia quella vera? Su una analogia, un’analogia con il cuoco, non ci sono altre argomentazioni. Colui che soddisfa entrambe le procedure del διαλéγεσθαι è in grado di guardare: 1) all’uno nella διαγογ, donde egli prende la direttiva per il διατμνειν (separazione e unione). Questo è il bravo dialettico. Abbiamo però visto che il bravo dialettico ha le armi spuntate. Questa idea unica da dove gli arriva? Gli arriva dal cielo. E, poi, con quali argomentazioni sostiene che quell’idea è quella vera? Perché sa distinguere bene, così come il cuoco sa distinguere il muscolo dal filetto. Certo, ma è un’analogia che non vale niente. Ma fa vedere, ha questa virtù, come tutte le figure retoriche, che in fondo si basano su questo, sono quasi tutte ipotiposi. Sono figure che tendono in qualche modo a fare vedere, perché la retorica sa che ciò che è veduto è creduto, potremmo dire, istintivamente vero. È un inganno nel quale il sofista non cade. In ciascuna cosa di cui si deve trattare nel λόγος bisogna cercare un’idea, una prospettiva che offra il suo vero e proprio contenuto reale. La si può trovare come qualcosa che sta nelle cose stesse, di per se stessa. Essa non è però un prodotto che sussista in virtù di una certa elaborazione delle cose. Perciò è a partire da questa unica idea, la quale è l’autentico fondamento di ogni διαλγεσθαι, ogni apertura primaria del γένος (genere), che è possibile il λέγειν secondo l’idea. Risulta dunque che il colui che dimestichezza con il dire dev’essere in grado di tenere conto fino in fondo dell’essere dell’atteggiamento di ciascun uditore. Qui va verso l’aspetto più operativo della retorica, e cioè il fatto che l’uditore deve essere disponibile e, quindi, occorre disporlo in un certo modo perché creda quello che gli dico, perché sia manipolabile. Bisogna esaminare tutte le cause, cioè, qui semplicemente tutti i mezzi che sono necessari per l’elaborazione del discorso di volta in volta retto, sicché il τεχνικός λγον deve mostrare quali disposizione psichica sia condotta a persuasione e mediante quali discorsi e attraverso quali determinati mezzi e quali no. Questo è l’aspetto pratico della retorica, è l’uso della retorica. Non è che qui Platone faccia chissà quali riflessioni teoretiche sulla retorica, si limita a distinguere la retorica dalla dialettica, per cui la dialettica è l’unica che fa vedere la cosa così com’è, la retorica no. Abbiamo visto invece che la dialettica illude. Qui, come dicevo, c’è l’aspetto pratico-operativo della retorica, che peraltro vedremo quando ci occuperemo della Retorica di Aristotele. L’autentico λόγος e la comunicazione genuina… Naturalmente, qui allude alla sua dialettica, è chiaro. …sono manifestamente qualcosa di diverso. Autentico è solo quel λόγος che viene scritto solo a partire dalla conoscenza reale, muovendo dal rapporto con le cose, non in forma pubblica ma nell’anima di colui che apprende. Qui riprende la questione della παιδεία, della formazione. Secondo Patone, la dialettica è formativa, la retorica no, la retorica insegna l’inganno, insegna a giocare con le parole. La dialettica punta a fare vedere le cose come realmente sono. Abbiamo visto che non è proprio esattamente così. È vero che Aristotele afferma altresì che in un certo senso la retorica è complemento della dialettica, ma questo non può voler dire, come nel caso di Platone, che la retorica le è semplicemente cresciuta accanto. Invece, in consonanza con il suo mutato concetto dia dialettica, la retorica appartiene per Aristotele allo stesso campo della teoria del λόγος in senso lato. Qui dunque, la dialettica è limitata dal λόγος stesso e alle possibili strutture del λόγος. In proposito bisogna osservare che Aristotele non ha mai rinunciato a quella che Platone chiama dialettica, bensì ha raccolto con radicalità la dialettica platonica nella sua idea propria della filosofia.