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18 dicembre 2024

 

Filone di Alessandria Commentario allegorico alla Bibbia

 

A pag. 443. Un’affermazione molto importante che riguarda costoro (gli atei) molto da vicino si trova negli oracoli rivelati: “Dio non è come un uomo”, ma neppure come il cielo, né come il mondo: queste, infatti, sono forme fatte in un certo modo e vengono a presentarsi alla nostra sensibilità, mentre Dio non è certo afferrabile neppure dall’intelletto, se non per quanto riguarda il Suo effettivo esistere. È la sua esistenza, infatti, che noi comprendiamo, ma, al di fuori dell’esistenza, nient’altro. Qui c’è una questione interessante: noi comprendiamo l’esistenza di Dio; al di fuori di questa, nient’altro. Perché è interessante? Perché, in effetti, è il modo in cui si insegna, per così dire, a parlare. Quando la mamma, o chi per lei, dice “questa cosa qui è il tavolo”, non dice che “questa cosa qui davanti è una cosa che chiamiamo tavolo”, ma dice “questa cosa è il tavolo”. Questo scivolamento tra nominalismo e ontologia è fatale. È fatale perché in quel momento si istituisce l’ontologia - questo è il tavolo – cioè, gli dà un’esistenza che è al di fuori del linguaggio. Infatti, non si dice “questa cosa qui, che non sappiamo cos’è, la chiamiamo comunque tavolo”; no, si dice “questa cosa è il tavolo”. Che è un modo, avrete immaginato immediatamente, platonico di porre la questione: è il tavolo perché c’è l’idea del tavolo che lo garantisce. Ed è così che si impara a parlare: questa ontologia, che viene tramandata di madre in figlio, è praticamente infinita.

Intervento: È la doxa?

Sì, certo, è la doxa che, quando non è intesa in quanto tale, diventa episteme. Cioè, se non so che questa è la doxa, che, quindi, è qualcosa che si crede, si pensa, si immagina, ecc., il passaggio immediato è pensare alla doxa come episteme, cioè, le cose sono così, questo è il tavolo; non è che lo chiamiamo il tavolo, ma è il tavolo, quasi per virtù propria. Lui esiste e noi diamo un nome a questa cosa qui, che esiste. A questo riguardo poi, quando leggeremo il commento al Cratilo di Platone di Proclo, emergerà chiaro questo aspetto. La necessità di pensare che i nomi, che noi diamo alle cose, non sono, come volevano Ermogene e Aristotele soprattutto, dei simboli intercambiabili, che usiamo noi e che abbiamo inventati: noi poniamo questi simboli, chiamiamo questa cosa qui tavolo; perché? Perché sì. Ma è un tavolo? Chi lo sa? Non possiamo sapere. Infatti, al di fuori dell’esistenza nient’altro, al di fuori di questa ontologia ideale non c’è nient’altro. E, allora, ecco il Cratilo, per il quale il nome è emanazione della cosa; no, dice Socrate, non va bene neanche questo, la cosa non emana perché, se la cosa emanasse il nome, gli leva le idee, che stanno lassù; invece, le idee sono importanti, è dalle idee che vengono le cose e, quindi, è dalle idee che vengono i nomi. Non tutti i nomi, anche per Socrate, ma quelli importanti, sì, vengono dalle idee. A pag. 674. Alcuni punti di contatto fra il racconto biblico che la mitologia. I mitografi a riguardo dell’unicità del linguaggio dei viventi hanno scritto un altro mito analogo a questo. Si racconta, infatti, che anticamente tutti quanti gli animali terrestri, acquatici e alati parlassero una medesima lingua. E come oggi accade fra gli uomini, cioè che genti della stessa lingua discorrono fra di loro - ad esempio Greci con Greci, barbari con barbari - così allora tutti parlavano con tutti su ciò che eventualmente si doveva fare o subire. E potendo comunicarsi, a motivo della lingua comune, gioie e dolori, essi condividevano questi stati d’animo. Da ciò derivava una comunione di sentimenti e di atteggiamenti, finché un giorno, saziati dalla ricchezza dei beni disponibili, come puntualmente avviene in questi casi, incapparono nel desiderio dell’impossibile e avanzarono la richiesta di essere liberati dalla vecchiaia per conquistare l’immortalità: e chiesero anche di godere per sempre del fiore della giovinezza… /…/ E così ebbero una pena una pena proporzionata alla loro presunzione. Da quel momento ognuno parlo una lingua diversa e per questo nessuno più poté comprendere l’altro a motivo della differenza della lingua generata dalla frantumazione dell’unica lingua comune a tutti. Questa è la punizione, una delle tante punizioni. Mosè, invece, tenendo il discorso sulla linea più consona alla verità, ha posto una differenza fra gli esseri privi di ragione e quelli razionali, attribuendo solo ai soli uomini la comunanza del linguaggio. Nonostante ciò, a detta di avversari, anche questo è frutto di invenzioni mitica. Si dice poi che la distinzione del linguaggio nelle specie di innumerevoli lingue - ciò che si chiama la confusione delle lingue - si verificò allo scopo di correggere gli errori, affinché gli uomini, avendo perso la facoltà di intendersi fra di loro, non potessero più accordarsi per compiere ingiustizie e, resi in un certo modo come muti nei loro reciproci rapporti, non fossero più in grado di associarsi in un’impresa comune. Quella che oggi si chiama associazione a delinquere. Ma non sembra che questa precauzione sia stata di grande utilità, se è vero che ancora oggi, per quanto i linguaggi siano diversi a seconda dei popoli e non sia più in uso un’unica lingua, la terra e il mare sono spesso pieni di indicibili mali. E dunque, non già le lingue, ma la medesima predisposizione al male propria dell’anima costituisce la causa del peccare comune. A pag. 675. L’interpretazione allegorica libera il racconto biblico da ogni aspetto fantastico e mitico. Qualcuno potrebbe pensare che l’aspetto fantastico lo metta dentro proprio attraverso l’allegoria. No, perché l’allegoria è direttamente pilotata da Dio; quindi, non c’è nulla né di fantastico né di mitico. Orbene, coloro che mettono insieme tali false argomentazioni saranno uno per uno confutati da quegli interpreti che, abituati da scrutare la lettera della Legge staccandosi dal suo senso manifesto, fanno uso di argomentazioni lineari, non per il gusto della contesa o in modo capzioso, ma sgombrando agevolmente il campo dalle difficoltà che possono presentarsi, affinché gli sviluppi dei ragionamenti risultino senza inciampi. Dunque, noi sosteniamo che l’espressione “tutta la terra aveva una sola lingua e una sola voce” rappresenta il concorso di grandi e indicibili mali che città, nazioni, regioni si infliggevano vicendevolmente e che non solo gli uomini si scambiavano fra di loro, ma anche indirizzavano alla volta di Dio. A tal punto, dunque, si spingeva l’ingiustizia delle genti. Quindi, l’idea che un’unica lingua porti al compimento di malanni. A pag. 697. Dio è unico e solo. È il caso di analizzare in modo approfondito il senso di queste parole pronunciate dalla bocca stessa di Dio: “Orsù, scendiamo e là confondiamo la loro lingua”.  Qui Dio sembra dialogare con altri, come se fossero suoi collaboratori. Una situazione analoga è descritta in precedenza a proposito della formazione dell’uomo. Riferisce la Scrittura: “E il Signore Iddio disse: faremo l’uomo a nostra immagine e somiglianza”, dove quel “faremo” indica una pluralità di soggetti. E ancora: “Dio disse. ecco Adamo è diventato come uno di noi, nel conoscere il bene e il male”. Ora l’espressione “come uno di noi” non si riferisce ad una sola, ma a più persone. Comunque, questi punti vanno ribaditi in via preliminare: nessun essere può paragonarsi a Dio quanto a valore; uno solo è Colui che comanda, guida e regna e a Lui solo spetta di diritto di dominare e reggere l’universo. Infatti, la massima: “No, non è un bene il comando di molti; uno sia il capo, uno il re” vale non più per gli uomini e per le città che per il cosmo e Dio, giacché, essendoci un solo Dio, Questi sarà necessariamente l’unico creatore e anche l’unico padre e padrone. Questo per darvi l’idea della dell’argomentazione che viene utilizzata. E, poi, c’è sempre l’allegoria, che, in fondo, è un’analogia: così come avviene nel cosmo, così come avviene negli umani, così ovviamente anche Dio. A pag.740. È necessario, dunque, che colui che si appresta ad uno scontro sofistico abbia esercitato il linguaggio con tale forza da non limitarsi a schivare i colpi dell’avversario, ma da riuscire vincitore contrattaccando con ambedue i mezzi: la tecnica e il vigore? Non vedi come maghi e stregoni (sofisti) vanno intrigando contro la divina parola e osano realizzare prodigi simili a quelli che essa realizza, non tanto per dare fama alla propria arte, quanto per schermire e delirio e deridere i miracoli autentici? E così trasformano le verghe in specie di draghi e cambiano l’acqua nel colore del sangue e con incantesimi suscitano dalla terra quel che resta delle rane; e quei geni malefici, aggiungendo mostruosità a mostruosità a proprio danno, credono di ingannare e invece sono ingannati. E Mosè, come avrebbe potuto opporsi a costoro se non avesse avuto in serbo il linguaggio interprete del pensiero di nome Aronne? Ora, colui che qui è chiamato “bocca”, in seguito sarà chiamato “profeta”, quando anche l’intelletto ispirato è detto “Dio”. È scritto infatti: “Ti do come un Dio a Faraone, e Aronne, tuo fratello, sarà il tuo profeta”. Che accordo armonioso! Il genere interprete della realtà di Dio e quello profetico, posseduto dalla divina situazione e dalla divina mania. Per questo, come rivela la sacra Scrittura “la verga di Aronne inghiottì le verghe di quelli”. Tutti i discorsi sofistici sono divorati e annientati dalla scaltrezza della natura esperta e, come è possibile riconoscere che i fatti avvenuti sono “il dito di Dio”, allo stesso modo la Legge divina afferma che sempre la sapienza vera sconfigge quella falsa dei sofisti. Non per nulla la Bibbia dice che le tavole in cui sono incisi i comandamenti furono scritte dal dito di Dio. Per tal motivo i maghi non possono più reggere il confronto con Mosè e cadono sconfitti come in un combattimento, vinti dalla terribile forza dell’avversario. Anche qui, quali argomentazioni tira fuori per combattere i sofisti? Che gli incauti si mettono contro la parola di Dio. La questione centrale è che la parola di Dio non può essere messa in discussione; quindi, la parola di Dio li sopraffà. Senza argomentazione, naturalmente. Mai argomentare, perché argomentare è pericolosissimo: se, poi, quell’altro mi contro argomenta? Qui, a pag. 747, riprende la questione. Il titolo è A Dio si giunge solo dopo avere riconosciuto i propri limiti, e cioè della propria limitatezza nei confronti di Dio, che è un altro dei capisaldi della fede. Ecco, qui c’è la ripresa della famosa frase di Socrate: “Conosci te stesso”. A pag. 748. Dunque, o teste vuote, non parlate a vanvera della luna, del sole e di tutte le altre realtà che ci sono nel cielo e nel cosmo, che sono così lontane da noi e diverse per natura, prima di aver frugato in voi stessi e di esservi conosciuti. In fondo, la cosa che oggi chiamiamo psicologia l’ha inventata Platone: la necessità di conoscere se stessi, di andare a fondo in se stessi. Cosa, poi, ripresa abbondantemente da Plotino: in Plotino è tutto un’interiorità. Allora, forse, anche quando sosterrete sulle altre cose sarà degno di fede. Ma prima di aver messo in chiaro qual è la vostra natura, non pretendete neppure di essere giudici degli altri o testimoni veramente attendibili. Finché non ti conosci non puoi parlare di nulla. In che cosa consista esattamente il conoscersi, naturalmente, non è dato sapere. Conoscere che cosa, esattamente? E qui c’è il la questione dell’allegoria, cioè, conoscere ciò che nel mio dire si dice veramente; perché c’è il mio dire e poi c’è ciò che il mio dire dice davvero, che è ciò che rivelerebbe – questo è il fondamento della psicologia – il proprio Io.

Intervento: La nozione di Io è molto platonica.

Sì. Questa idea che ci sia qualcosa da conoscere viene dal fatto che le cose sensibili sono menzognere, false e caduche, mente le cose lassù non mentono, perché sono identiche a sé.

Intervento: il vero Io è quello che sta dietro a ciò che si dice.

Esatto. Dietro ciò che si dice c’è l’idea, per Plotino l’Uno.

Intervento: Platone non aveva ancora risolto il problema del perché, nonostante ci siano le idee, poi però c’è il fenomeno. Se l’idea non genera il fenomeno… Poi, con Plotino l’Uno è diventato…

Sì, il generatore universale. In Platone c’è ancora questa idea di dovere determinare l’ente. In fondo, determinare l’ente è sapere che cos’è l’idea. Ma per sapere cos’è l’idea abbiamo bisogno di altre idee, cioè, per sapere che cos’è l’ente abbiamo bisogno di altri enti, cioè, di altre parole e da lì non si esce. Però, Platone non va oltre e, allora, dice: “Ma voi cosa proponete?”. Lui se la cava cosi con i sofisti. A pag. 828. Dunque, l’interprete della realtà della natura, preso a compassione della nostra rozzezza in trascuratezza… Continua a ripetere questo fatto della nullità dell’umano. …in modo eccellente ci istruisce in ogni altra occasione e così anche ora, mostrandoci che la posizione di ciascuna cosa “l’una in faccia all’altra”, non riguarda le cose che sono intere, ma quelle che sussistono divise: infatti, uno solo è l’oggetto formato da due contrari, e solo quando sia tagliato, allora i contrari sono riconoscibili. Non è forse questo il principio che, come dicono i Greci, il loro grande celebrato Eraclito pose come caposaldo della sua filosofia e se ne vantò quasi avesse fatto una nuova scoperta? Risposta: no, non è questo che diceva. In realtà, questa è una antica scoperta di Mosè, ossia che i contrari derivano da una stessa cosa, rispetto alla quale devono considerarsi sezioni, come abbiamo chiaramente mostrato. Ora, che dire queste cose? Intanto, al di là del fatto che non ha inteso Eraclito, che non dice che c’è l’uno, che poi viene tagliato e si divide in due; non gli è mai passata per la mente una cosa del genere. Dicendo che l’uno è tutte le cose, non è che l’uno si è suddiviso in tutte le cose, tutte le cose coappartengono all’uno, cioè, esistono nell’uno. Il gesto di Eraclito, gesto straordinario, è di avere posto l’uno in quanto tutte le cose e tutte le cose in quanto uno. Però, vedete, la cosa che interessa qui è l’insistere platonicamente di Filone sulla necessità dell’uno come prioritario rispetto ai molti: innanzitutto c’è l’uno, poi vengono i molti. Cosa che è stata ripresa da Plotino, perché l’Uno è il bene e i molti, si sa, sono i cattivi. A pag. 840. Bisogna bandire la parola oscura e ingannatrice e ricercare la chiarezza e la verità. La parola oscura e ingannatrice. Fino a quando durerà ciò? Mosè lo rivela nelle seguenti parole: “Le iniquità degli Amorrei (Sofisti) non hanno ancora raggiunto il culmine”. Queste parole forniscono il pretesto a quelli più deboli di pensare che Mosè presenti il fato e la necessità come cause di tutto ciò che avviene. Senza dubbio, non va ignorato che egli, da uomo di scienza e dotato di virtù profetica, conosceva la necessaria e indefettibile concatenazione delle cause, ma non era questa a cui attribuiva le cause di ciò che avviene. Egli riconosce qualcos’altro di ben più originario, che sovrasta l’universo, come fosse un auriga ed un nocchiero. Questo, infatti, regge il timone di quella nave universale che è il mondo, sulla quale tutte le cose sono imbarcate. Questi tiene le redini del carro alato che è il cielo nel suo complesso, esercitando un’autorità onnipotente sovrana. Che dire di ciò? Gli Amorrei non sono altro che coloro che chiacchierano. Ora, il più grande bene che è stato dato dalla natura all’uomo, cioè il linguaggio, migliaia di quelli che lo hanno ricevuto, l’hanno corrotto comportandosi nuovi irriconoscente ed infedele verso la natura che glielo aveva dato. Questi sono gli imbroglioni, i millantatori, gli inventori di seducenti sofismi, buoni solo ad ingannare, ad imbrogliare, che non si curano di non dire le menzogne. Essi praticano l’equivoco, e l’equivoco porta nel discorso una profonda oscurità, e l’oscurità è complice dei ladri. Proprio per questo Mosè mostrò il sommo sacerdote, ornato di “chiarezza” e di “verità”, ritenendo che la. parola dell’uomo buono fosse molto chiara e veritiera. L’uomo buono non mente. I più vanno alla ricerca della parola oscura e ingannatrice, e a essa sottoscrive la folla sbandata degli uomini negligenti. Queste cose vengono dalle sacre scritture, sono le cose su cui si è fondato tutto l’Occidente. Dunque, finché i peccati degli Amorrei, ossia le parole dei Sofisti, “non hanno raggiunto il culmine”, in quanto non sono confutate, avendo ancora la forza di attrarre con le loro argomentazioni seducenti, ci trascinano, e noi, non riuscendo più a volgere loro le spalle e a lasciarli, restiamo preda dei loro adescamenti. Se, però, tutte le false seduzioni… Le false soluzioni sono quelle contrapposte a quelle vere, naturalmente, a quella di Dio, seduttore per eccellenza.  …vengono confutate con prove veritiere e i peccati si rivelano pieni e ricolmi fino all’orlo di esse, allora fuggiremo via senza voltarci indietro e, non appena tolte le gomene, prenderemo il largo, lontano dal paese delle menzogne e dei sofismi, affrettandoci a gettare gli ormeggi nei porti e nei rifugi del tutto sicuri della verità. Anche allora c’era la ricerca di porti sicuri. Questo, dunque, è il significato della proposizione: è impossibile “tornare indietro”, lontano dalla falsità seducente, odiarla e abbandonarla, se prima il male ad essa connesso non sarà completamente fino in fondo manifestato. E si sarà manifestato solo quando verrà consultato non superficialmente, ma attraverso l’opposizione e la saldezza della verità. Naturalmente, la saldezza della verità è sostenuta soltanto dal fatto che si afferma che la verità è quella di Dio, non è che ci siano argomentazioni, è così e basta. A pag. 1017.

Intervento: Non serve neanche più definire che cosa sia la verità. La verità è la parola di Dio. Elimina anche le l’eventuale teoresi della verità, che a questo punto non serve a niente: è così e basta.

In fondo, è come dicevo all’inizio: se questo è il tavolo, non ci sono domande da fare, perché è così, è ontologicamente stabilito; quindi, conosciamo l’esistenza del tavolo. È da lì che si avvia questa illusione di potere stabilire come stanno le cose, perché, se questo è il tavolo, allora non possiamo fare niente, è il tavolo e basta. Mentre, se dicessi “questa cosa che vedi la chiamiamo tavolo ma non sappiamo cosa sia”, do l’avvio a una quantità infinita di domande, di interrogazioni, di perplessità, di dubbi, di ricerche, quantomeno la ricerca su che cosa sia realmente: sì, lo chiamiamo tavolo, ma che cos’è questa cosa? In fondo, era la ricerca degli antichi, dei greci antichi, il che cos’è? Ecco che arriva Aristotele: comando che sia, ύμάρχειν, che sia quello che è. Cioè, la sostanza, l’ούσία, è ciò che ne che dico. Quindi, al di là di ciò che ne dico non c’è niente. Ma se al di là di ciò che dico non c’è niente, l’allegoria su che cosa si basa? Su nulla, cioè, l’allegoria crolla come un castello di carte, perché il mio dire non ha dietro di sé, alle spalle, un’altra verità. Posso inventarla, certo, lo si fa continuamente. Mi invento una verità; ma quando? Ce lo ha detto Filone chiarissimamente, e cioè quando le cose non vanno nel verso che voglio io. Se, per esempio nel caso di Filone, la sacra Scrittura si contraddice continuamente, cioè, dice una cosa e poi il suo contrario, ecc. e siccome la Bibbia è parola di Dio e Dio non può essere autocontraddittorio, occorre eliminare la contraddizione. Come? Dando a queste parole un altro significato, semplicemente: tu hai detto questo, ma, in realtà, volevi dire quest’altra cosa… che interessa a me. In questo modo si può far dire a chiunque qualunque cosa, come accade. Però, l’interpretazione, per avere valore, deve essere sostenuta da un’autorità; anche nell’ermeneutica classica, quella letteraria. Le cose che l’ermeneutica dice intorno a un testo vengono sostenute da che cosa? Da altri testi della stessa persona, dalla storia dell’autore, cosa ha fatto da piccolo, è caduto dall’altalena, per esempio, aveva paura dell’uomo nero, ecc., tutte queste cose vengono messe insieme a confortare ciò che l’ermeneutica interpreta. Siamo a pag. 1016, il trattato sul mutamento dei nomi e perché avviene? Capitolo secondo, Inconoscibilità e ineffabilità di Dio. L’ineffabile è il fondamento di tutto, è il fondamento di ogni certezza, è il fondamento di ogni teoria, è il fondamento di ogni dire, è il fondamento per eccellenza. L’ineffabile è il certo, la certezza viene dall’ineffabile. Anche considerando la parola “certo” nella sua derivazione etimologica, “certo” è il participio passato di cernere in latino e significa separato; quindi, ciò che è certo, potremmo dire seguendo l’etimo, che è ciò che è separato. Sarebbe come l’uno separato dai molti, ed è questo che dà la certezza: l’idea di avere separato finalmente l’uno dai molti. Solo così si può garantire una certezza, in tutti gli altri casi no, in tutti gli altri casi c’è l’incertezza, cioè, la non certezza, cioè, la non separazione: l’uno non è separato dai molti; quindi, affermo questa cosa ma non con certezza, perché questa cosa potrebbe essere anche altro da ciò che io dico, da ciò che io affermo, da ciò che penso adesso. Potrebbe essere altro, e allora come faccio a sapere che non lo è e non lo sarà mai? Non lo so, per cui ecco l’incertezza, cioè la non separazione dell’uno dai molti. La certezza è, invece, come dicevo, la separazione dell’uno dai molti. L’uno viene separato dai molti, ma con l’idea, la supposizione che mai più questi molti parteciperanno dell’uno, li abbiamo separati definitivamente. E se non riusciamo a separarli, come nel caso della teoria dei limiti? Non riusciamo a separare i molti dall’uno: il limite, che sono i molti, dall’uno a cui tende, se non riusciamo a separarli, nel senso che se c’è l’uno c’è anche l’altro, necessariamente... A pag. 1017. Non credere, tuttavia, che l’Ente che veramente è possa essere percepito da creatura umana. Non possediamo nella nostra struttura alcun organo con cui ci sia dato di farcene un’immagine: né la sensazione, dacché non è sensibile, né l’intelligenza, Mosè, dunque, l’uomo che esplorò la natura immateriale (ed era veggente) - dicono infatti gli oracoli divini che egli “penetrò nelle tenebre”, alludendo con esse all’essenza invisibile e incorporea... Com’è che Filone traduce entro nelle tenebre? Lo traduce come “entrò nell’incorporeo”. Cosa lo ha autorizzato? È ispirato da Dio e, quindi, non ci sono dubbi. …Mosè, dico, che indirizzò la sua ricerca in ogni possibile direzione, tentava di vedere chiaramente Colui cui è rivolto il nostro più ardente desiderio e che è l’unico Bene. Lui cercava di vedere chiaramente Dio. Ma poiché non riusciva a scoprire nulla, neppure una forma… Anche lui ha cercato di togliere il velo, non riusciva a vedere nulla. …neppure una forma che assomigliasse vagamente a quella che sperava, rinuncio a insegnamenti che potessero venirgli da altri e si rifugiò presso l’oggetto stesso della tua ricerca, supplicandolo con queste parole: “Manifestati a me perché io possa vederti e conoscerti”. Tuttavia, la sua richiesta non fu esaudita, perché si giudica dono più che sufficiente, anche per la parte migliore del genere umano, ciò che viene dopo l’Essere, si tratti di corpi o di oggetti indifferentemente. Lui cercava, in fondo, l’essere. Eh no, la ricerca vera, quella importante, è qualcosa che è oltre l’essere. La sua richiesta non fu esaudita, ovviamente. È detto, infatti… Quando comincia “è detto, infatti” esclude ogni possibilità. … “Tu vedrai le cose che sono dietro a Me, ma il Mio volto non lo vedrai”, nel senso… Qui c’è l’interpretazione di Filone. …che corpi e oggetti che vengono dopo l’Essere possono cadere sotto la nostra percezione, se anche non sono ancora percepiti tutti, mentre Lui solo, per Sua natura, non può essere visto. Tutto può essere visto ma non lui, perché lui è al di là dell’essere; noi possiamo vedere solo ciò che è sensibile, ciò che attiene all’essere, ma ciò che è al di là dell’essere, ovviamente, non possiamo vederlo. Che c’è di strano che l’Essere non sia percettibile agli uomini, se ci è sconosciuto anche lo spirito che è dentro di noi? Da qui il richiamo precedente al “conosci te stesso, guarda dentro di te”. Chi ha mai hai visto l’essenza dell’anima, il cui mistero ha dato luogo a dispute infinite tra i filosofi, sostenitori di tesi contrastanti tra loro, se non addirittura radicalmente opposte nelle impostazioni di base? Nessuno ha mai visto l’essenza dell’anima, sennò non si sarebbero messi a discutere tanto. Era dunque logica conseguenza che non potesse neppure venire assegnato un nome proprio a Colui che veramente è. Non vedi che al profeta desideroso di sapere quale risposta debba dare a coloro che vogliono conoscere il Suo nome, Egli dice: “Io sono Colui che è”... C’è sempre, come vedete, una modalità quasi furiosa di evitare ogni possibile argomentazione: le cose sono, e basta. Che è, poi, quella che oggi è diventata, chiamiamola così, mitologia della realtà: le cose sono quelle che sono, non possiamo modificarle. …il che equivale a: “la mia natura è di essere, non di essere nominato”.  Avvertite qui la distanza immensa tra Filone e Aristotele, per il quale la sostanza è ciò che se ne dice. Filone dice “la mia natura è di essere, non di essere nominato” …

Intervento: È come se l’essere nominato facesse decadere la figura di Dio a ente…

Sì. A un ente tra gli enti, che si nomina, un ente che, quindi, è quello che se ne dice. Lo diceva Aristotele: che cos’è la sostanza? Ciò che ne diciamo, cioè, le categorie, i praedicamenta. Filone conosceva Aristotele, come lo abbia letto, questo è un altro discorso. Vedete come tante cose in Aristotele scompaiono mano a mano, cessano semplicemente di esistere, fino ad arrivare poi al neoplatonismo, che sarà una specie di mannaia nei confronti del pensiero di Aristotele, che viene praticamente cancellato, tranne quelle poche cose funzionali al neoplatonismo. Ma qui è molto chiara la distanza abissale. Aristotele dice che la sostanza è le categorie, le cose che si dicono della sostanza; Platone, e quindi Filone, dicono: no, l’essere è per conto suo; è soltanto così che si può pensare un Dio, che si può creare questa idea di Dio, che deve essere al di fuori, e, infatti, deve essere al di fuori del linguaggio, necessariamente. Ma perché il genere umano non sia privato del tutto di una denominazione da dare al Bene supremo, Egli concede loro di servirsi di questo nome: “Signore Iddio delle tre nature: l’insegnamento, la perfezione, l’esercizio, di cui nelle Scritture sono simboli Abramo, Isacco e Giacobbe. Questo - Egli dice - è il mio nome nel tempo”, quasi che la misura fosse il tempo della nostra vita, non quello che precedette il tempo, “e un nome evocativo”, ossia non sussistente fuori della memoria e del pensiero, “per le generazioni”, non per le nature ingenerate. In effetti, coloro che entrano nella generazione mortale hanno bisogno dell’uso, sia pure improprio, del nome divino, per potersi accostare, se non di fatto, almeno con il ricorso a un nome, al Bene supremo e adeguarsi al Suo volere. Lo dimostra anche l’oracolo pronunciato dalla bocca del Sovrano dell’universo a proposito del fatto che a nessuno è stato rivelato un qualche nome a Lui proprio: “Sono stato visto - Egli dice - da Abramo, Isacco e Giacobbe come loro Dio (Theòs), ma non ho rivelato loro il Mio nome di Signore (Kyrios). Se si invertissero i termini dell’iperbato, L’iperbato è quella figura retorica che comporta un’inversione all’interno della frase. …l’ordine del discorso potrebbe essere questo: “non ho rivelato loro il nome a me proprio, bensì il nome usato impropriamente”, per i motivi indicati. L’Essere è ineffabile a tal punto che neppure le Potenze a Lui soggette ci dicono un loro nome proprio. Così, dopo la lotta sostenuta per la conquista della virtù. L’asceta dice e non rivela il suo nome personale proprio. “Deve bastarti - intende dire - trarre beneficio dalle mie benedizioni, ma quanto ai nomi che stanno a indicare gli esseri creati, non cercarli, nel caso di nature incorruttibili. Ora, qui c’è una questione molto importante, quella dei nomi, e, infatti, leggeremo Proclo. Perché il nome è come se dicesse della conoscibilità della cosa, perché, una volta che io so come si chiamano le cose, conosco le cose. Ma questo con Dio non può valere, non posso, conoscendo il suo nome, conoscere Dio. E, dunque, deve rimanere innominabile, inconoscibile, ineffabile.