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18 dicembre 2019

 

Fenomenologia dello spirito di G.W.F. Hegel – Volume Secondo

 

Il capitolo a pag. 106 si chiama L’utilità come concetto fondamentale del rischiaramento. Dice, dunque. Ma entrambe le guise di considerare il rapporto e positivo e negativo del finito verso lo in-sé, sono nel fatto egualmente necessarie; e tutto quindi tanto è in-sé, quanto è per un altro, ossia tutto è utile. Perché ciascuna cosa è per sé e per un altro. Un po’come un cacciavite che è per sé ma è anche per farci qualche cosa. Tutto si abbandona ad altri; ora si lascia adoperare da altri ed è per essi; e ora di nuovo, per così dire, si mette in guardia, si fa altrui arcigno, è per sé, e a sua volta fa uso dell’altro. Da ciò resulta per l’uomo, in quanto cosa consapevole di questo rapporto, la sua essenza e la sua posizione. Cioè, il fatto di volere, a seconda delle situazioni, essere utilizzato oppure no. Quando qualcuno accoglie l’idea di essere utilizzato? Quando immagina di ricavarne un potere, di trarne un utile, in un modo o nell’altro, sennò ecco che si fa arcigno e si oppone. Egli, a quel modo che è immediatamente, come coscienza naturale in sé, è buono; come coscienza singola, è assoluto; ed altro è per lui; e precisamente, siccome per lui come animale cosciente di sé i momenti hanno il significato dell’universalità, tutto è per il suo piacere e per il suo spasso, ed egli, come è venuto fuori dalla mano di Dio, si aggira nel mondo quasi in un giardino piantato per lui. Potremmo chiamarla fantasia di onnipotenza: io sono il centro del mondo, tutto è per me, dove naturalmente viene escluso l’essere per altro, cioè, io sono per me, senza tenere conto che questo “per me” è necessariamente anche essere per altro. A pag. 107. Come all’uomo tutto è utile, così lo è anch’egli ugualmente, e la sua determinazione e destinazione è quindi di rendersi utile e universalmente utilizzabile membro della società. Di quanto egli ha cura di sé, proprio di altrettanto egli deve anche prodigarsi per altri; tanto si prodiga, altrettanto provvede agli affari suoi; una mano lava l’altra. Ma dovunque egli si trovi, vi si trova a proposito; è utile agli altri e viene utilizzato. Questa è un po’ la questione centrale in Hegel. Dice dovunque egli si trovi, vi si trova a proposito, come dire che ciascuno si trova nel mondo nel posto dove deve stare, e questa sua posizione consente al mondo di procedere, per lui e insieme a tutti quanti, naturalmente. Questa è la questione che poi porta Hegel a intendere la nazione in un certo modo, dove immagina che il lavoro di ciascuno coincida con lo sforzo di tutti di procedere e, quindi, con un vantaggio per tutti. In molti e diversi modi le cose sono utili le une alle altre; ma tutte le cose hanno quest’utile reciproco in virtù della loro essenza, di essere riferite all’assoluto in duplice guisa: la positiva, secondo la quale le cose sono in sé e per sé; la negativa, secondo la quale esse sono per altre. Il rapporto con l’essenza assoluta o la religione è quindi fra tutte le utilità l’utile supremo; la religione è infatti lo stesso puro utile; è questo sussistere di tutte le cose o il loro essere-in-sé e per-sé, ed è il cadere di tutte le cose o il loro essere per altro. Qui considera il fatto che la religione si pone come il maggior utile, perché ciascuno in fondo pensa di essere quello che è in funzione di un’altra cosa, in funzione della gloria, del disegno di Dio, per esempio. A pag. 109. Rispetto alla fede il rischiaramento si dimostra come pura intellezione, giacché in un momento determinato vede l’intiero, ossia evoca l’opposto che si rapporta a quel momento e, invertendo l’uno nell’altro, produce l’essenza negativa dei due pensieri, cioè il concetto. L’intellezione vede l’intero, è come se vedesse il linguaggio, però, lo vede concettualmente, lo vede come un astratto, non vede l’intero; non lo vede come un qualche cosa che è comprensivo anche dell’astratto, ma vede l’astratto e l’intero come due momenti distinti. In questo modo non può mai cogliere l’intero in quanto tale. Tra l’altro, ponendolo come concetto, questo concetto è sempre parziale, insufficiente, inadeguato; da qui la necessità di procedere concettualmente sempre in avanti. Ed è per questo, dice Hegel, che Il rischiaramento appare alla fede come travisamento e menzogna, perché addita l’esser-altro dei momenti di quella; sembra quindi a lei c’esso immediatamente faccia di loro qualcosa di diverso da ciò ch’essi sono nella loro singolarità; ma questo altro è altrettanto essenziale, ed è, in verità, nella stessa coscienza credente; solo che questa non ci pensa; ma in qualche luogo lo ha; perciò né questo Altro le è estraneo, né può venir smentito da lei. Lo diceva già prima: entrambe, sia l’illuminismo sia la fede, colgono la presenza dell’intero, del linguaggio in quanto tale, ma ciascuna delle due vede soltanto uno dei momenti escludendo l’altro, per cui è come se in effetti non potesse mai cogliere l’intero per quello che esso è, ma soltanto una sua parte. Siccome (l’illuminismo) non riconosce essere immediatamente suo proprio pensiero ciò ch’esso condanna nella fede… Condanna nella fede l’idea che ci sia un intero come “al di là”. Anche l’illuminismo in qualche modo lo pensa. Lo pensa concettualmente, immaginando che il concetto che si fa di qualche cosa sia sempre e comunque in direzione di un qualche cosa che deve essere raggiunto, che è sempre da raggiungere, ma, di fatto, non è mai raggiunto. Per questo motivo Hegel pensa siano lo stesso. …è esso stesso nell’opposizione dei due momenti, dei quali sol uno riconosce, sempre quello che è opposto alla fede, separandone poi l’altro, proprio come fa la fede. Esso quindi non produce l’unità dei due come unità di essi, cioè il concetto; quest’ultimo sorge al rischiaramento per sé;… A pag. 112. Anche la coscienza credente riconosce un sapere accidentale; essa infatti ha una relazione con delle accidentalità, e anche l’assoluta essenza è a lei nella forma di una comune effettualità rappresentata; con ciò la coscienza credente è anche una certezza la quale non ha in lei la verità;… Per la coscienza credente, infatti, la verità è ripota in Dio. …ed essa coscienza si professa come una siffatta coscienza inessenziale al di qua dello spirito che penetra e si conferma nella certezza di sé. Ma la coscienza credente, nel suo spirituale e immediato sapere dell’essenza assoluta, dimentica questo momento. E, cioè, che la sua certezza è spostata. Tuttavia anche il rischiaramento, che ciò le rammenta… L’accusa che l’illuminismo fa alla fede di pensare che la verità sia riposta da qualche parte. …pensa soltanto al sapere accidentale e dimentica l’Altro; - pensa soltanto a quella mediazione che ha luogo per via di un terzo estraneo, non già a quella in cui l’immediato è a se stesso il terzo, attraverso il quale esso mediasi con l’Altro, ossia con se medesimo. Anche l’illuminismo, dice, compie in un certo senso lo stesso errore, in quanto dimentica che nell’approcciarsi a qualche cosa - per esempio, quando si pensa a qualche cosa – questo approcciare è sempre mediato e, quindi, comporta uno spostamento, comporta che questa verità è sempre spostata.

Intervento: È la stessa obiezione che faceva alla scienza.

Esatto. A pag. 115. In effetto, la fede è così divenuta la stessa cosa del rischiaramento, ossia la coscienza del rapporto del finito in sé essente verso l’Assoluto privo di predicati, sconosciuto e inconoscibile;… La verità ultima, anche nella scienza, è inconoscibile: Come sarà la scienza tra duemila anni? Non si sa. Il fatto è che tra duemila si potrà dire che cos’è la scienza, ma si riproporrà la stessa domanda: che cosa sarà la scienza tra duemila anni? …solo che il rischiaramento è il rischiaramento appagato, mentre la fede è il rischiaramento inappagato. Si mostrerà tuttavia in esso, se possa restare nel suo appagamento; sta in agguato quell’anelito dello spirito oscuro che piange la perdita del proprio mondo spirituale. Cioè: manca sempre qualcosa nei confronti dell’intero, del tutto, che non è mai raggiunto, né nella fede né nell’illuminismo. Il rischiaramento stesso ha in sé questa macchia dell’anelito insoddisfatto: la ha, - e qual puro oggetto nella sua vuota essenza assoluta, - e quale operazione e movimento nell’uscire oltre la sua essenza singola verso il non riempito al di là, - e quale oggetto riempito nell’utile privo di Sé. Questa operazione, questo movimento continuo, dice, vuole riempire qualche cosa, ma mentre cerca di riempire incontra sempre un vuoto. È come se volessimo riempire il significato rispetto a un significante. Lo riempiamo, certo, diciamo che cos’è un significante, prendiamo un dizionario e questo ci dice due o tre cose, e dopo? Possiamo andare avanti. Quando lo riempiamo questo significato? Quando questo oggetto è saputo veramente? Rimane inappagato. L’illuminismo rimane inappagato al pari della fede, perché anche la fede resta inappagata perché comunque questo anelito verso lo spirito, verso l’assoluto, rimane sempre insoddisfatto perché questo assoluto sarà sempre oltre. Il rischiaramento inappagato toglierà questa macchia; da una più particolare considerazione del resultato positivo, che a lui è la verità, risulterà che questa macchia è in sé e per sé già tolta. Hegel considera che l’illuminismo abbia i mezzi per diventare qualcosa di più. Adesso lui stava considerando l’illuminismo; noi potremmo dire l’illuminismo ingenuo. Adesso si intende perché usa il termine rischiaramento. L’illuminismo ha una connotazione ben precisa, e cioè un movimento filosofico determinato, mentre il rischiaramento allude alla volontà di comprendere, di intendere, di sapere. Quella volontà di sapere che, per Nietzsche, è la volontà di potenza. Passiamo al punto b. La verità del rischiaramento. …l’intellezione, come assoluto concetto, è un distinguere di differenze che non sono più tali;… Nel senso che ciascuna volta la differenza nell’integrare viene tolta. …un distinguere di astrazioni o di puri concetti che non sostengono più se stessi, ma che hanno sostegno e distinzione soltanto mediante l’intiero del movimento. Soltanto nell’intero del movimento possiamo cogliere le distinzioni, le differenze; non c’è nessuna differenza se non c’è l’intero o, se preferite, non c’è nessuna differenza se non c’è il linguaggio, non esiste neanche l’idea di differenza. Questo distinguere del non distinto consiste proprio in ciò, che il concetto assoluto fa di se stesso il suo oggetto… Cioè: il concetto assoluto diventa oggetto di se stesso. …ponendosi, di contro a quel movimento, come l’essenza. L’essenza manca perciò del lato nel quale le astrazioni e le differenze vengono tenute le une fuori dalle altre, e diviene quindi il puro pensare come pura cosa. Questo del pensare come pura cosa è qualcosa che interviene spesso in Hegel: la cosa è il sapere, l’oggetto è il sapere, sempre, non ce n’è un altro. …dacché questa pura autocoscienza è il movimento in concetti puri, cioè in differenze che non sono tali, essa si affloscia, in effetto, nel tessere incosciente, cioè nel puro sentire o nella pura cosalità. Se non tengo conto del fatto che le differenze non sono se non all’interno dell’intero, allora è come se, dice Hegel, queste differenze fossero pensate come differenze tra cose e, quindi, incomincio a porre le cose in quanto tali, appunto come cose che sono fuori dell’intero. Il concetto a se stesso estraniato… È il concetto che non sa di essere concetto e si immagina appunto cosa. …non riconosce peraltro questa eguale essenza di ambo i lati:… Ogni cosa è un concetto, un pensiero, è un sapere, di cui ci sono i due estremi, cioè il movimento dell’autocoscienza e la sua essenza assoluta, il movimento e qualcosa di assoluto. Questa è un’altra che interviene sempre nella dialettica hegeliana: l’idea che in questo movimento c’è qualcosa che è in sé e qualcosa che è per sé, ma è lo stesso. L’in sé sarebbe l’“identico”, il per sé sarebbe l’essere del’in sé per altro; c’è sempre questa apparente dualità che, finché c’è questo dualismo, rimane la filosofia tradizionale. L’idea di Hegel è stata quella di integrare questi due momenti, di cogliere che questi due momenti non sono che momenti di un intero, cioè i movimenti di cui si fa il linguaggio. Poiché il concetto a sé estraniato non conosce questa unità… Il concetto che non si sa tale, che si pensa fuori dal linguaggio. …l’essenza gli vale soltanto nella forma dell’al di là oggettivo;… L’idea che il linguaggio non sia niente altro che la descrizione di cose. Io non so che questa cosa non è altro che un sapere, quindi, un concetto; non sapendolo, immagino che questo concetto proceda da qualche cosa che concetto non è. È l’idea popolare del linguaggio: il linguaggio descrive cose che linguaggio non sono. A pag. 120. …essere e pensare sono in sé la stessa cosa… Ora, che cos’è l’essere per Hegel? Lo ha ripetuto innumerevoli volte e in innumerevoli forme diverse. L’essere per Hegel non è, come per la filosofia che lo ha preceduto, anche in Kant se vogliamo, un qualche cosa che è fermo, fisso, immobile, che è quello che è, una sorta di essenza; no, per Hegel l’essere è il movimento stesso tra l’in sé, il per sé, e il ritorno all’in sé, cioè, tra coscienza, autocoscienza e ragione. La verità, cioè l’essere, è questo movimento, non c’è un’altra verità. Quindi, qualunque cosa, essendo pensiero, - dice essere e pensare sono in sé la stessa cosa – qualunque cosa io mi trovi a considerare, questa cosa è quella che è perché è un movimento. Ma quale movimento se non quello del linguaggio, per cui io dico qualcosa il mio dire si sposta nel detto, e cioè mi trovo preso in una distanza. È questa distanza che è il movimento stesso, cioè, questa relazione. Questa relazione comporta il muoversi continuo. E, infatti, il linguaggio non è altro che relazione. …non sono ancora giunti al pensiero che l’essere, il puro essere, non è una effettualità concreta… Come ha sempre pensato la filosofia: qualcosa che si effettua, che c’è ed è assoluta, è quella che è. …anzi è la pura astrazione, e che, viceversa, il puro pensare, cioè l’autoeguaglianza o l’essenza, da una parte è il negativo dell’autocoscienza, e quindi essere, e d’altra parte, come immediata semplicità, ancora una volta altro non è che essere; il pensiero è cosalità, o cosalità è pensare. Ecco il dualismo che insiste, che si risolve con Hegel, Da una parte, dice, il puro essere; dall’altra, il suo negativo. Entrambi sono essere, entrambi sono. Per riprendere l’ esempio che faceva Severino: se io dico che l’essere è occorre che, a fianco a questa affermazione, ci sia quell’altro enunciato che dice che il non essere non è. Solo a questa condizione allora l’essere è. Vedete che anche qui c’è questo movimento: io pongo “l’essere è” e poi “il non essere non è”. Ma questo comporta il movimento per cui dalla proposizione “il non essere non è” ritorno su quella che dice che “l’essere è”, che solo a questo punto può affermarsi con assoluta certezza, incontrovertibilmente, cioè quando ho posto il suo negativo e l’ho tolto, che è quello che fa continuamente Hegel: pone il negativo, il per sé, che è sempre per altro; ma questo per altro non è un’altra cosa, è per altro nel senso che questo per sé non è per sé ma è per l’in sé; in questo senso è per altro. Non è per altro perché si rivolge a chissà cosa o chissà che; è in quanto ritorna in sé che è per altro; questo altro è sempre sé; sta qui la questione in Hegel. A pag. 121. Infatti, come noi vedemmo, la pura intellezione è lo stesso concetto essente,… La mia intellezione non è altro che un concetto. …ossia la pura personalità eguale a se stessa, distinguentesi in sé così, che ciascuno dei distinti è a sua volta puro concetto, e, vale a dire, immediatamente non distinto;… Dicendo che è immediatamente non distinto pone una questione cui fare attenzione: dice immediatamente, cioè non mediatamente, perché il concetto di per sé è sempre mediato, ed è mediato perché è una relazione e, quindi, per definizione, è mediato. …la pura intellezione è semplice autocoscienza pura, la quale è in unità immediata tanto per sé quanto in sé.  A pag. 123. Distingue tra un primo mondo dello spirito che descrive come il diffuso regno del suo disperdentesi esserci… Cioè, c’è disperdendosi. Poi, il secondo momento. Il secondo mondo contiene il genere, ed è il regno dell’essere in sé o della verità, contrapposto a quella certezza. Non sono altro che i momenti di cui parlava all’inizio, cioè, della certezza sensibile, immediata, che però non è ancora consapevole; il secondo momento è quello in cui mi rendo conto di quello che sto facendo, e questo sarebbe l’autocoscienza. Poi, c’è il terzo momento. Ma il terzo momento, l’utile, è la verità che è parimente la certezza di se stesso. L’utile come la verità, la certezza di se stesso. Al regno della verità della fede manca il principio dell’effettualità o della certezza di se stesso come di questo singolo. Sono certo che Dio esista e che mi ami? Forse, non ho propriamente questa certezza. Infatti, dice Ma all’effettualità o alla certezza di se stesso come di questo singolo manca lo in-sé. Cioè, la certezza di sé. Nell’oggetto della pura intellezione entrambi i mondi sono riuniti. L’utile è l’oggetto in quanto autocoscienza col suo sguardo lo penetra, e in quanto ha in esso oggetto la singola certezza di se stesso, il suo piacere (il suo esser-per-sé);… Il suo appagamento, il suo significato. …l’autocoscienza vi affonda in tal guisa lo sguardo, e questa intellezione contiene la vera essenza dell’oggetto (di essere qualcosa di penetrabile allo sguardo, cioè di essere per un altro). Questo è ciò che dice dell’oggetto. Questa intellezione contiene la vera essenza dell’oggetto, che non è quella di essere qualcosa che è per sé, ma quella di essere per un altro… per me, per esempio …l’intellezione è dunque essa stessa sapere vero, e l’autocoscienza ha anch’essa immediatamente l’universale certezza di se medesima; ha a sua pura coscienza in questa relazione nella quale sono dunque riunite tanto verità, quanto presenzialità ed effettualità. Entrambi i mondi sono conciliati, e il cielo è sceso in terra e vi ha messo radice. Nel momento in cui l’intellezione si accorge di avere in sé la certezza, cioè, per dirla in modo più rapido, che non devo cercarla da qualche altra parte, non devo cercarla, per esempio come fa la fede, nell’al di là; no, ci sta dicendo, è nell’al di qua, è qui e adesso ciò che la fede cerca o ha riposto nell’al di là. E a questo riguardo volevo leggervi alcune cose tratte da Kojève (Introduzione alla lettura di Hegel, Adelphi). A pag. 260. Qui cita Hegel. Nella Religione, lo Spirito che conosce se stesso è in-maniera-immediata la propria Auto-coscienza pura. Cioè: lo Spirito che conosce se stesso non è che conosce se stesso per via del fatto che gli viene da qualche altra cosa; no, dice, lo sa perché non è altro che la propria autocoscienza: è questo che io vedo. Dice poi Kojève: Dunque: nella e mediante la Teologia, o le teologie, lo Spirito (s’intende: umano) prende coscienza di se stesso. Questo è un passo che ritiene indispensabile nel cammino storico dell’umanità, cioè: la religione come momento in cui lo spirito incomincia a prendere coscienza di se stesso, anche se si ripone in un al di là, però lo vede e lo considera. E, tuttavia, la Teologia non è una Filosofia, né ancor meno la Scienza di Hegel. L’auto-coscienza che viene alla luce nelle Teologie è ancora insufficiente. Ed è questa insufficienza che Hegel indica con la parola sacramentale unmittelbar: nella Teologia lo Spirito è già un’Auto-coscienza, ma lo è in maniera ancora soltanto “immediata”. Non è ancora consapevole, non è ancora saputo. Al posto di unmittelbar si può anche ire: an sich, in opposizione a für sich a an und für sich. Nella Teologia, lo Spirito è cosciente-di-sé in sé e non per sé. Vale a dire: è soltanto in realtà che esso diventa auto-cosciente, perché in realtà non c’è altro Spirito che lo Spirito umano. In questo può diventare cosciente, perché in effetti ciò che la religione immagina lo spirito divino è sempre il suo, dell’uomo, ciò di cui sta parlando la teologia. E an sich significa pure für uns: siamo noi, Hegel e i suoi lettori, a sapere che ogni Teologia non è in realtà che un’antropologia. Siamo noi, dopo. Dopo, quando si è inteso com’è il funzionamento. È un po’ come “scoprire” le cose dopo che ci si è accorti del funzionamento del linguaggio, non sono più le stesse; dopo, cambia tutto. Apparentemente è tutto lo stesso, ma in realtà è tutto diverso. L’Uomo stesso che fa la Teologia non lo sa: egli crede di parlare con Dio, d’uno Spirito altro rispetto a quello umano. La sua auto-coscienza non è dunque “per sé”, für sich: auto-coscienza; per lui, essa è soltanto Bewusstsein, coscienza di un’entità esterna all’Uomo, di un Aldilà, di una divinità trascendente, extra-mondana, sovr-umana. È questo a caratterizzare ogni Teologia, qualunque essa sia: “an sich” e “für uns” si tratta sempre dell’Uomo-nel-Mondo che diventa auto-cosciente, ma “für sich”, per quest’Uomo stesso, si tratta di qualcosa d’altro rispetto all’Uomo e al Mondo in cui l’Uomo vive. È ciò che Hegel dice nella frase seguente (Fenomenologia, II, pag. 199): “Le forme-concrete dello Spirito che sono state considerate (nel capitolo VI, cioè): lo Spirito vero-o-effettivo, (lo Spirito) alienato-o-diventato-estraneo a se stesso, e (lo Spirito) soggettivamente-certo di se stesso, - costituiscono nel loro-insieme lo Spirito nella sua Coscienza (-esteriore), la quale Coscienza, opponendosi al suo Mondo, non si riconosce in esso”. Che sono poi i tre momenti: coscienza, autocoscienza e ragione. Dice la quale Coscienza, opponendosi al suo Mondo, non si riconosce in esso, che è ciò che diceva rispetto alla teologia: il teologo non riconosce il fatto che ciò di cui sta parlando è lui stesso, è la sua coscienza questa cosa che mette nell’al di là. A pag. 262. Dunque, ovunque c’è Teo-logia, vi è incomprensione, malinteso da parte dell’Uomo: l’Uomo-che-vive-nel-Mondo diventa in qualche modo inconsapevolmente auto-cosciente credendo di prendere coscienza di un essere spirituale extra-mondano e sopra-mondano. È questa la questione centrale ed il motivo per cui Hegel si occupa della fede, della religione, proprio perché, dice, c’è questo malinteso, e cioè diventa inconsapevolmente autocosciente. Lo diventa inconsapevolmente perché crede che questa cosa di cui sta parlando sia chissà dove, ma in realtà sta parlando di sé. Ed è l’insieme di tutte le Teologie immaginate dall’Uomo nel corso della Storia a costituire lo Spirito nel suo Bewusstsein, cioè lo Spirito che, in realtà, diventa Auto-cosciente credendo di prendere coscienza di qualcosa d’altro rispetto a se stesso. Questo Spirito si oppone al Mondo reale e allo Spirito che è in questo Mondo, cioè all’Uomo, e non vi si riconosce. Immagina che ci sia sempre questa opposizione tra me il Dio che sta da qualche altra parte. Parlo di Dio ma sto parlando di me, è questo che prende in considerazione Hegel. Tuttavia, nella Moralität, cioè nella Filosofia ancora teologica e nella Teologia già filosofica dei pensatori tedeschi post-rivoluzionari, dei precursori immediati di Hegel, la trasformazione della Teologia in Antropologia è già annunciata. Il passaggio dalla teologia all’antropologia, alla lettera il passaggio dal discorso su Dio al discorso sull’uomo, ché sono la stessa cosa; solo che la teologia non se ne avvede. E la consapevole antropologia atea di Hegel non è che il necessario risultato dell’evoluzione dialettica di questo terzo grande periodo storico. A pag. 263. In realtà, i poeti romantici, Schelling, Jacobi, Kant stesso, divinizzavano l’uomo. Sono tutti idealisti. Egli è, per loro, il valore supremo, è assolutamente autonomo, ecc.; in realtà, essi sono dunque atei. Allo stesso odo la teologia protestante di uno Schleiermacher è già ateismo: Dio (in quest’ultimo) non ha senso e realtà se non nella misura in cui si rivela nell’uomo e mediante l’uomo; la religione si riduce a psicologia religiosa, ecc. Perché mai gli uomini credono in un dio. Nondimeno, tutti questi pensatori continuavano a parlare di Dio. Perché? Ebbene, Hegel ce lo dice: perché non arrivavano a identificare l’Uomo-di-cui-parlavano con l’Uomo reale, cosciente, che vive nel Mondo. Parlavano dell’“anima”, dello “Spirito”, del “soggetto conoscente”, ecc., e non dell’Uomo vivente, reale, tangibile. Opponevano, come tutti gli Intellettuali borghesi, l’Uomo “ideale”, che vive nel e mediante il suo ragionamento, all’Uomo reale, che vive nella e mediante la sua azione nel Mondo. L’agire, l’opera, il fare, la prassi, è una questione importantissima in Hegel; poi ripresa da Marx, ovviamente. Lo Spirito assoluto, alla fine della Fenomenologia, è, sì, certo, tutti i momenti integrati insieme (coscienza, autocoscienza, ragione e spirito). Lo spirito è qualche cosa che la ragione in cui appare il fare di tutti e di ciascuno. Questo fare di tutti che Heidegger chiamava il mondo, il mondo di cui io sono fatto, cioè, tutto ciò che è stato detto, pensato, scritto, immaginato, ecc., in questi ultimi centomila anni, è qui, adesso. Il discorso si fa più semplice se intendiamo il linguaggio: ogni parola che uso ha una sua storia che si porta appresso, non viene da niente. Questo è l’uomo reale per Hegel, poi ripreso da Heidegger come l’esserci; l’uomo è l’uomo che vive qui in quanto risultato, in quanto prodotto di tutto ciò che non soltanto è stato prima di lui ma anche da ciò che sta accadendo intorno a lui. Mentre questi altri idealisti, Schelling, Jacobi, Kant, ecc., pensavano all’uomo come un qualche cosa di ideale, un’entità che è messa lì e che è per se stessa. Hegel dice: no, non è per se stessa, è sempre per altro; qualunque cosa, qualunque parola, qualunque persona, è sempre e comunque per altro, necessariamente; cioè, è sempre quella che è in virtù di una relazione, di uno spostamento. Essi sono dunque ancora cristiani; separano l’Uomo in due e fuggono quello reale. L’uomo ideale e l’uomo reale. L’uomo ideale è quello che si immaginano loro; l’uomo reale è quello che non sanno bene come gestire. Questo fa cose strane, si muove in continuazione, mentre l’uomo ideale sta lì, fa bella mostra di sé, è quello che loro vogliono che sia. E questo dualismo idealista riveste necessariamente una forma teistica: l’anima opposta al corpo, il Mondo empirico in opposizione a uno Spirito “puro”, soprasensibile, a un Dio. L’Uomo si attribuisce un valore supremo. Ma non osa ancora attribuirlo a sé in quanto vivente, cioè agente, nel Mondo concreto: non osa accettare questo Mondo come un ideale. Egli attribuisce un valore a ciò che vi è di mondano, di puramente mentale in sé. Fugge il Mondo, fugge sé in quanto “mondano”; e, in questa fuga, trova necessariamente un Dio sovr-umano, e gli attribuisce i valori che egli voleva, in realtà, attribuire a se stesso. Questo è ciò che accade anche nell’idealismo, come ci ha detto Hegel. Hegel, sì, certo, è un idealista, è considerato il capostipite dell’idealismo, ma possiamo dire che in Hegel c’è un formidabile pragmatismo. Per Hegel l’uomo è quello reale, concreto; concreto quasi nell’accezione di Severino, è un intero, è linguaggio, e, quindi, come linguaggio, è il risultato di tutto ciò che di cui è fatto il linguaggio; non ha nulla di ideale, non è l’uomo ideale, non esiste l’uomo ideale; esiste l’uomo in quanto coscienza, che fa delle cose, che opera, ed è in questo suo agire che si realizza: è sempre nell’agire, nella prassi. In questi pochi brani Kojève coglie la questione centrale. Prendete l’ultimo enunciato di Hegel: Entrambi i mondi sono conciliati, e il cielo è sceso in terra e vi ha messo radice, cioè in cielo non c’è più un dio ma è sceso in terra e c’è l’eventualità che mi accorga che tutte le cose che attribuivo a lui, in realtà, sono quelle che volevo attribuire a me. La prossima volta affronteremo la questione dell’utilità. Ci saranno delle cose interessanti perché ci rinvia alla questione della volontà di potenza, dell’essere utile. Perché qualcosa sia utile è necessario che sia per altro, necessariamente. Questo apre a una questione ancora più importante, quella della tecnica, che nella definizione di Heidegger è la produzione di strumenti in vista di scopi, che hanno soltanto questo obiettivo: essere utili per qualcosa.