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18 novembre 2020

 

L’attualismo di G. Gentile

 

Siamo al Capitolo III, La verità come certezza e come valore. Paragrafo 1. Il germe di vero della teoria volontaristica. La dottrina volontaristica, insufficiente pel suo opporre la volontà all’intelletto, ha tuttavia il gran merito di mettere in evidenza un attributo essenziale della verità, sfuggito a tutto l’intellettualismo antico, quantunque sempre oscuramente incluso nel concetto di verità: l’attributo della spiritualità del valore e, si può dire, della moralità della verità. Giacché essa accentua il momento della soggettività del vero, come posizione o dimostrazione della presenza del soggetto nel vero medesimo: che è uno degli aspetti caratteristici della verità immanentisticamente intesa. Il proprio infatti del volontarismo è questa conversione dell’attenzione diretta a cogliere il vero, per dir così, della verità. La differenza è di capitale importanza, perché quando a un logo obiettivo astratto si è sostituito un logo subiettivo, nel baratto non si guadagna nulla, come risulta da tutte le analisi precedenti: immediato l’oggetto, immediato il soggetto, sia che si consideri come intuito, sia che si consideri come riflessione, il cui valore è reale solamente quando essa sia adeguata e immedesimata con l’intuito che presuppone. Qui Gentile incomincia a porre la questione della verità come ciò che è già da sempre in atto. Ne ha già parlato e ne parlerà ancora, ma si tratta qui di incominciare a precisare come la verità non sia qualcosa che precede l’atto né lo segue, ma è nell’atto esclusivamente. La verità ha a che fare con la certezza. Infatti, nel paragrafo 3: Il concetto della certezza e la logica della fede, dice La certezza, dunque, che nel Discorso sul metodo (come pure nel Nuovo Organo) diventa il problema logico principale, e quindi il vestibolo di tutta la filosofia moderna, non è la verità che essa astrattamente presuppone, ma l’integrazione e la concretezza della verità, sottratta per lei al dommatismo proprio di ogni realtà intellettualisticamente concepita, e quindi particolare, e non filosofica. La verità d’una logica filosofica non può essere se non questa verità che è contenuto della certezza. Con questa dottrina si rovescia tutta la logica della fede, propria della filosofia intellettualistica. Per la quale, la verità è certa quando è oggettiva; e la πειθώ ρητορική di Gorgia è il surrogato della scienza oggettiva, per lui impossibile. La retta opinione di Platone è creduta vera, ma non è vera, perché non veduta con quella σύνοψις, che è la funzione mentale caratteristica del filosofo, il quale scorge ogni idea nella logica necessità del sistema obiettivo. Qui continua con la critica al concetto tradizionale di verità, che è sempre posta come qualcosa che precede l’atto, anzi, il più delle volte è considerata come ciò che determina l’atto. È evidente che questa attribuzione dell’immediatezza alla fede come adesione del soggetto alla verità sua, e della mediazione, e conseguente certezza, a un logo obiettivo e per sé stante, ideal termine della cognizione soggettiva, si regge su un presupposto, che è quello innanzi illustrato del concetto della trascendenza della verità. Per cui la verità, in quanto trascendente, è il principio, e la certezza si consegue solo quando il soggetto si spogli di tutta la sua soggettività e si risolva ed annulli nell’oggetto astratto, in cui, mediante la logica, può immedesimarsi. Di nuovo la questione della verità come ciò che accade nell’atto e, quindi, esclude la verità posta come trascendente. Se la verità è trascendente allora il soggetto si risolve, come dice Gentile si annulla nell’oggetto. Il problema è che se il soggetto si annulla nell’oggetto, cioè, scompare nell’oggetto, allora scompare anche l’oggetto: questo era il problema della verità trascendente. Paragrafo 4. L’unità della fede e della certezza. Al punto cui siamo pervenuti, giova rilevare accuratamente il significato di questa unità di fede e certezza, che è la certezza moderna, come concretezza della verità. La quale è concreta – questo ormai è evidente dalle precedenti indagini – se è certa; ed è certa: 1° se è contenuto immanente nell’atto libero del soggetto; che è il carattere della fede; 2° se quest’atto importa in sé, e quindi nel suo contenuto, una mediazione; che è il carattere della certezza. Qui abbiamo la certezza posta come mediazione e, di conseguenza, tutto ciò che si può pensare della verità come immanente viene sgomberato del tutto. Paragrafo 5. La verità come valore. Qui arriviamo alla questione centrale. Per raggiungere il pieno concetto di questa certezza, che è il solo per cui si possa concepire quella verità del pensiero a cui mira la logica, bisogna ritornare al primo principio dell’idealismo cartesiano, che non presuppone l’essere al pensare, ma lo fa consistere appunto nel pensare; e intendere questo pensare come unità dei due termini da Cartesio separati; intelletto e volontà. La quale, in Cartesio, per presupporre l’intelletto, che presuppone l’essere, riesce anch’essa una sorta d’intelletto, e in ultima analisi presuppone, anche lei, l’essere. Qui si scopre subito quell’aspetto della verità che s’è andato finora cercando – che fu l’esigenza implicita di tutto il pensiero antico – ma che doveva restare avvolto nella più oscura nebbia finché non sorgesse il tutto il suo splendore il sole che può illuminarlo: il valore della verità. Che è l’aspetto a cui sempre si è guardato, ma che non si è potuto veder nettamente, ancorché di rado, sopra tutto negli ultimi tempi, energicamente asserito; poiché la posizione intellettualistica non si è superata davvero mai in modo speculativo. La verità come valore, dunque. Ma che cosa effettivamente vale per il parlante? Qui, naturalmente, si apre una questione importante, perché è quella che affronta Nietzsche. Voglio leggere alcuni passi della Volontà di potenza, a partire dall’aforisma 320. Si dovrebbe sapere, che cosa è l’essere, per distinguere se questa o quella cosa sia reale (per es., i “fatti di coscienza”); e così pure ciò che è la certezza, la conoscenza e simili. Ma poiché noi non sappiamo ciò, così una critica della conoscenza non ha senso: come potrebbe lo strumento criticare se stesso, mentre appunto per la critica non può usare che sé? Esso non può nemmeno definire se stesso! Aforisma 325. Una morale, una maniera di vivere provata, dimostrata da una lunga esperienza ed esame, si presenta infine alla coscienza come legge, come dominante. E con essa entra l’intero gruppo dei valori e degli stati affini; essa diviene rispettabile, inattaccabile, santa, veridica; e proprio del suo sviluppo che la sua origine sia posta in oblio. È un segno che ha acquistato il dominio. Potrebbe accadere la stessa cosa circa le così dette categorie della ragione: queste medesime potrebbero, dopo molto brancolare e tentare qua e là, essersi confermate mediante una relativa utilità. Vi fu un punto nel quale l’uomo si raccolse, si portò alla coscienza come un tutto e nel quale si ordinavano queste categorie, vale a dire esse agirono come ordinatrici. Da allora esse valsero come a priori, come al di là dell’esperienza, come innegabili. E forse tuttavia non esprimono altro che una determinata finalità di razza e di specie, soltanto la loro utilità è la loro “verità”. Qui la questione si fa molto interessante. Il valore della verità, quindi, della verità come morale. La morale, ci dice appropriatamente Nietzsche, non è altro che un modo di pensare stabilito, dominante, che alla fine diventa vero. È quella cosa che Peirce chiamava “verità pubblica” o che Heidegger chiamava la “chiacchiera”. Ma la cosa più interessante è proprio all’ultima riga di questo aforisma, dove dice “soltanto la loro utilità è la loro verità”. Qui si riferisce a delle categorie, ma è l’utilità a stabilire la verità, come dire che ciò che è utile alla volontà di potenza è ciò che è vero. Sta dicendo anche di più, e lo dirà ancora più fortemente tra breve: non c’è un altro modo di approcciarsi alla verità che sia più appropriato. Dice nell’Aforisma 326. Che il valore del mondo si trovi nella nostra interpretazione (che forse in qualche luogo siano possibili interpretazioni diverse da quella puramente umana ) che le interpretazioni fin qui date siano apprezzamenti prospettici, per mezzo dei quali noi ci sosteniamo in vita, vale a dire nella volontà di potenza, di aumento di potenza, che ogni elevazione dell’uomo tragga seco la vittoria su più anguste interpretazioni, che ogni nuovo rafforzamento e ampliamento di potenza schiuda nuove prospettive, e dia fede a nuovi orizzonti — questo risulta da tutti i miei scritti. Il mondo, che tanto ci importa, è falso, cioè non è fatto reale, ma una coloritura e un arrotondamento di una magra somma di osservazioni; il mondo è “un fluire”, come qualcosa che diviene, come una falsità che si sposta sempre, che non si avvicina mai alla verità: infatti non vi è alcuna “verità”. Aforisma 328. L’errore della filosofia consiste in ciò, che invece di vedere nella logica e nelle categorie di ragione un mezzo per il riordinamento del mondo a scopo di utilità (quindi “principalmente” per un’utile falsificazione), si credette di avere in esse il criterio della verità, e rispettivamente della realtà. /…/ Lo scopo era di ingannarsi in modo utile: i mezzi per ciò erano la scoperta di formule e segni con l’aiuto dei quali si riduceva la molteplicità imbarazzante ad uno schema utile e comodo. Ma ahimè! ora si mise in giuoco una categoria morale: nessun essere si vuole ingannare, nessun essere può ingannare, quindi vi è soltanto una volontà di verità. Che cosa è la “verità”? Il principio di contraddizione offerse lo schema: il mondo reale, pel quale si cerca il cammino, non può essere in contraddizione con se stesso, non può mutare, non può divenire, non ha né principio, né fine. Questo è l’errore più grave, al quale si sia giunti, la vera fatalità dell’errore sulla terra: si credette di avere un criterio della realtà nelle forme della ragione, mentre si avevano per divenire padroni della realtà, per fraintenderla, per disconoscerla in modo abile. Qui si potrebbe fare un accenno alla questione del principio di non contraddizione. Non è che Nietzsche propriamente neghi il principio di non contraddizione; sicuramente non gli attribuisce la realtà delle cose o la via per conoscere la realtà delle cose, perché, di fatto, il principio di non contraddizione non può in nessun modo essere negato, perché negandolo lo affermo. Potremmo enunciare così il principio di non contraddizione, nel modo più radicale, e cioè che per affermare che non sto parlando devo parlare; quindi, devo necessariamente contraddirmi. Non è possibile eliminare il principio di non contraddizione per il semplice fatto che negandolo lo affermo. Per dirla più chiaramente, potremmo dire che il principio di non contraddizione dice soltanto questo: non c’è uscita dal linguaggio. Posto così, è chiaro che diventa più interessante e anche più comprensibile: non c’è uscita dal linguaggio, cioè non posso negare che sto parlando, perché, per negare che sto parlando, devo parlare. Aforisma 329. La forma vale come qualcosa di durevole e avente per ciò maggior valore; ma la forma è trovata soltanto da noi; e quando anche spesso “la stessa forma” è raggiunta, ciò non significa, che è la stessa forma, bensì appare sempre qualcosa di nuovo e soltanto noi, che le compariamo, contiamo il nuovo, in quanto assomiglia al vecchio, insieme nell’unità della “forma”. Qui c’è la questione interessante dell’identità. Come stabiliamo l’identità? Qui è facile il richiamo a ciò che diceva Hegel a proposito del sillogismo formale: deduzione, induzione e analogia. Alla fine, diceva Hegel, è l’analogia quella che regge tutto. L’analogia non è che un mettere a confronto delle cose e dire che si assomigliano e, quindi, prendere questo come un’identità su cui costruire tutto quanto. Infatti, poco più avanti dice noi formiamo cosi un mondo che per noi è descrivibile, semplificato, intelligibile, ecc. È sempre per noi, siamo noi che formiamo il mondo; quel mondo che descriviamo, che ci appare intellegibile, è una nostra costruzione. E conclude l’aforisma così Il mondo ci appare logico, perché noi prima lo abbiamo logicizzato. Questo è l’unico motivo per cui ci appare logico: lo abbiamo logicizzato, cioè, ne parliamo, lo abbiamo posto come linguaggio; e, in effetti, il mondo non è altro che linguaggio. Da qui si potrebbe anche considerare che questo è il motivo per cui non è né può essere autocontraddittorio, perché il linguaggio non può autocontraddirsi: non può affermare di sé di non essere linguaggio se non utilizzando se stesso, che dovrebbe negare. Aforisma 338. Ammettere l’ente è necessario, per poter pensare e ragionare... Questo è interessante. Lo abbiamo visto anche in Gentile: non possiamo non ammettere l’ente, non possiamo non pensare attraverso enti, non possiamo non pensare se non attraverso delle determinazioni. Qui c’è anche la critica a Gentile, ché in effetti il pensiero pensante, per potersi pensare, non può che porre se stesso come un ente, e cioè come un pensiero pensato. …le formule della logica sono soltanto per ciò che dura eguale a se stesso. L’ente che dura eguale a se stesso. E, infatti, come posso stabilire con assoluta certezza che questo ente non cambi, non muti, non divenga continuamente? Perciò questa concezione non avrebbe alcuna forza probativa per la realtà: “l’ente” appartiene alla nostra ottica. L’“io” come ente (non toccato dal divenire e dallo sviluppo). /…/ “Verità” e volontà di diventar padroni della molteplicità delle sensazioni: un ordinare i fenomeni in determinate categorie. Qui noi usciamo dalla fede nell’”in-sé” delle cose (consideriamo i fenomeni come reali). Il carattere del mondo del divenire come non riducibile a formule, falso, contraddicentesi. Conoscenza e divenire si escludono. Quindi il “conoscere” dev’essere qualcosa di diverso: una volontà di rendere conoscibile deve precedere, una specie dello stesso divenire deve produrre l’illusione dell’ente. Conoscenza e divenire si escludono. Certo, perché se c’è il divenire, cioè le cose sono continuamente mutevoli, che cosa conosco? Qui ci viene in soccorso Gentile: l’unica cosa che posso conoscere è il mio conoscere stesso, è il mio essere conoscente, cioè essere in quanto conosco. Questo conoscere, quindi, non è altro che la volontà di rendere conoscibile, e, quindi, produce l’illusione dell’ente. In effetti, non si risolve altrimenti questo dilemma che ci pone Nietzsche, per cui conoscenza e divenire si escludono: devo porre illusoriamente l’ente. Aforisma 339. Affermare e negare la stessa cosa non ci è possibile; è questo un principio sperimentale subiettivo, col quale non si esprime alcuna “necessità”, ma soltanto un'incapacità. Su questo però potremmo porre un’obiezione. In effetti, anche Nietzsche sembra non avere inteso la questione relativa al principio di non contraddizione, perché occorre porla in modo radicale per intenderla. Ci si è avvicinato molto Severino. Nietzsche dice che affermare e negare la stessa cosa non è possibile … non si esprime alcuna “necessità”, ma soltanto un'incapacità. Potremmo dire con lui che, sì, è un’incapacità, ma un’incapacità di uscire dal linguaggio, che però non è propriamente una incapacità, perché non c’è la capacità, non è possibile uscirne. Quindi, la questione si pone in tutt’altro modo. Se, come dice Aristotele, il principio di contraddizione è il più certo di tutti i principi fondamentali, se esso è l’ultimo e il più fondamentale al quale si riattaccano tutti i processi dimostrativi, se in esso trovasi il principio di tutti gli assiomi, tanto più rigorosamente si dovevano vagliare le affermazioni che esso già in fondo presuppone. O con esso viene affermato qualche cosa rispetto al reale, all’essere, come se lo si conoscesse già prima per altra via; vale a dire che ad esso non possono venir attribuiti predicati opposti; ovvero il principio significa che al reale non devono venir riferiti predicati opposti. Allora la logica sarebbe un imperativo, non per la conoscenza del vero, ma per la posizione e l’ordinamento di un mondo, che per noi deve dirsi vero. In questo non ha affatto torto, in effetti: la logica è un imperativo. Ma il principio di non contraddizione va pensato in un modo un po’ differente, e cioè che non c’è uscita dal linguaggio, che non posso affermare in nessun modo di essere fuori del linguaggio. In breve, ecco la questione: sono gli assiomi logici adeguati al reale, o sono essi misura e mezzi, per creare a noi stessi il reale, il concetto di “realtà”? Per poter affermare la prima tesi si dovrebbe, come s’è detto, conoscere in precedenza l’essere; il che disgraziatamente non è possibile. Il principio non contiene dunque alcun criterio di verità, ma solo un imperativo intorno a ciò che deve essere considerato come vero. Posto che non vi sia un tale A identico a se stesso, come presuppone ogni principio della logica (anche della matematica), A sarebbe già una illusione, e la logica avrebbe come presupposto un mondo solo apparente. In realtà noi abbiamo fede in quel principio sotto l’impressione dell’infinita esperienza, che sembra durevolmente confermarlo. La “cosa” cioè il substrato proprio di A; la nostra fede nella cosa è il presupposto per la fede nella logica. Potremmo dire: la fede nell’ente, la fede nell’identità dell’ente, la fede in questa illusione dell’ente. L’A della logica è, come l’atomo, una costruzione posteriore della “cosa”. Non comprendendo ciò, e facendoci della logica un criterio del vero essere, noi siamo già sulla via di porre come realtà tutte quelle ipostasi: sostanza, predicato, oggetto, soggetto, azione, ecc.: ossia di concepire un mondo metafisico, cioè un “mondo vero”, (ma questo è ancora una volta il mondo apparente). Questo lo aveva già inteso anche Hegel quando parlava di “mera apparenza” rispetto a ciò che è fuori dall’atto puro, direbbe Gentile, ma in generale dalla dialettica. Gli atti più originari del pensiero, l’affermazione e la negazione, il ritener-vero e il non-ritener-vero, in quanto presuppongono non soltanto una abitudine, ma un diritto di tener per vero o per non vero, sono già dominati da una fede, che vi è per noi una conoscenza, che il giudicare può realmente cogliere la verità: in breve la logica non dubita di poter dire qualcosa del Vero in sé (e cioè che non gli si possono riferire predicati opposti). Anche questo è interessante, e cioè il fatto che si parta dall’idea che la conoscenza sia possibile. Ora, abbiamo appena visto che la conoscenza non è possibile se c’è divenire; quindi, tutto ciò che ne segue è una pura illusione o, più propriamente, è un artificio della volontà di potenza. Potremmo addirittura dire questo, che la volontà di potenza crea l’ente per dominarlo, cioè, per agire, per avere qualcosa su cui agire. Aforisma 340. …la volontà di eguaglianza è volontà di potenza, la fede, che qualcosa sia così e così (l’essenza del giudizio) è la conseguenza di una volontà, che debba essere più che sia possibile uguale. Cioè, il principio di identità è un atto della volontà di potenza: io voglio che A sia eguale ad A, perché soltanto se A è eguale ad A io posso utilizzarlo per proseguire, per andare avanti con la volontà di potenza, quindi, per costruire altre proposizioni, che saranno vere se e soltanto se saranno funzionali alla volontà di potenza; perché è questo l’unico criterio di verità, l’unico approccio alla verità che, tutto sommato, abbia un senso. Aforisma 341. Infatti, perché si pensi e si concluda logicamente, deve anzitutto essere immaginata questa condizione come effettiva. La condizione che A sia eguale ad A. Ciò significa: la volontà di una verità logica può attuarsi solo quando siasi avuta una falsificazione fondamentale di tutto il divenire. Come dire che la verità logica, quella che si va cercando generalmente, sarebbe possibile a condizione che sia falsificato totalmente il divenire. Dal che deriva che qui domina un impulso, capace di entrambi i mezzi, dapprima della falsificazione e poi della esecuzione del suo punto di vista: la logica non procede dalla volontà del vero. Non è il vero che interessa alla logica, ma interessa soltanto che ci sia un qualche cosa che sia utilizzabile dalla volontà di potenza, e solo allora lo chiama vero. Aforisma 342. …l’ipotesi che gli offre nel più alto grado sentimento di potenza e sicurezza, sia da esso massimamente preferita, pregiata, e per conseguenza considerata come vera? L’intelletto pone la sua capacità e il suo potere più libero e più forte come criterio del maggior valore e quindi del vero. È vero ciò che mi dà potere. “Vero”: dal lato del sentimento: ciò che più fortemente lo eccita (“Io”); dal lato del pensiero: ciò che gli dà il più grande sentimento di forza; dal lato del tatto, della vista, dell’udito: ciò contro cui è da esercitare la più forte opposizione. Vale a dire, ciò contro cui si esercita la volontà di potenza, che deve andare contro qualcosa e distruggerlo per potere manifestarsi. Pertanto i più alti gradi dell’azione risvegliano per l’oggetto la fede nella sua “verità”, cioè realtà. Il sentimento della forza, della lotta, della opposizione, persuade a credere che vi è qualcosa a cui si resiste. Qui ci dice che anche la realtà, che è una questione molto prossima a quella della verità, procede dalla volontà di potenza. Ciò che mi resiste, ciò che resiste alla volontà di potenza e che io devo contrastare, abbattere, allora, dice Nietzsche, questa cosa è considerata reale. Aforisma 344. Il pensiero razionale è un interpretare secondo uno schema, da cui non possiamo liberarci. Questo era già emerso quando diceva che l’ente è un’illusione, ma non possiamo non partire dall’ente, non possiamo non utilizzarlo. Se parliamo, allora parlando determiniamo le cose; determinandole, diamo loro la possibilità di svanire, perché, ponendole, queste cose si spostano e, quindi, scompaiono, si alterano, dileguano in altro. Aforisma 347. Qui non ha agito un’“idea” preesistente: ma l’utilità, il fatto che solo se vediamo le cose grossolanamente eguagliate, esse diventano per noi calcolabili e maneggevoli. Quindi, solo se le vediamo grossolanamente eguagliate, cioè se stabiliamo che A è eguale ad A: non possiamo dimostrarlo in nessun modo. Ecco che torniamo a Hegel, al fondamento del sillogismo formale, e cioè l’analogia: questo somiglia a quello, sembra che sia quello, quindi, è quello. Questo è il fondamento di tutto il pensare degli umani, dalla filosofia alla logica, ecc. Aforisma 352. Non basta che tu riconosca in quale ignoranza vivano l’uomo e l’animale: devi anche avere e imparare la volontà dell’ignoranza; è necessario che tu capisca bene, che senza questa specie di ignoranza la vita sarebbe impossibile, che essa è una condizione, per la quale soltanto il vivente si sostiene e prospera; una grande, salda sfera di ignoranza deve circondarti. Questa è una bella questione, perché è come se ci stesse dicendo è che per potere parlare occorre ignorare il funzionamento del linguaggio. Non dice questo, naturalmente, però in un qualche modo pone la questione. In effetti, se io considerassi che ogni parola che mi trovo a dire ha una quantità infinita di significati e, quindi, di rinvii, ecc., non riuscirei a chiudere questa parola se non ignorando tutti gli altri significati a vantaggio di uno, quello che sto utilizzando. Quindi, Nietzsche non ha tutti i torti quando dice che occorre questa “volontà di ignoranza”; occorre necessariamente non tenere conto di tutti gli infiniti significati, ma non si può d’altra parte non tenere conto che un significato è infinito. Si tratta non di tenere conto di tutti gli infiniti significati simultaneamente, ma di sapere che questo significato è infinito. Questo ha naturalmente un effetto sul fatto che posso rendermi conto che ciò che sto dicendo non ha nulla a che fare con qualche cosa di stabilito, di determinato, di certo, di sicuro, ma è soltanto un modo per proseguire a parlare, cioè un modo per mettere in atto la volontà di potenza, per confrontarmi cioè con qualche cosa che resiste. Ciò che resiste, in effetti, è il significato, resiste alla comprensione; ma è con quello con cui ciascuno si cimenta, e ne ha bisogno per mettere in atto il linguaggio, cioè la volontà di potenza. Aforisma 354. Lo sviluppo della scienza risolve sempre più il “noto” in un ignoto: ma essa vuole appunto il contrario e procede dall’istinto di ridurre l’ignoto al noto. In summa la scienza prepara un'ignoranza sovrana, un sentimento, che non esiste “conoscere”, che era una sorta di orgoglio il sognare questo, più ancora, che noi non possiamo conservare il più piccolo concetto, per considerare il conoscere anche come una semplice possibilità, che lo stesso “conoscere” non è se non una rappresentazione contradittoria. Come diceva prima, l’impossibilità della conoscenza nel divenire. Noi traduciamo una vecchia mitologia e verità dell’uomo nel duro fatto; come non vi è una “cosa in sé”, così non vi è una “conoscenza in sé”, nemmeno ammessa come concetto. La seduzione per opera del “numero e della logica”, la seduzione mediante la “legge”. “Saggezza” come tentativo di superare le valutazioni prospettiche (cioè la “volontà di potenza”): un principio antivitale e dissolvente, un sintomo come negli Indiani ecc. di indebolimento della forza di appropriazione. Torniamo a Gentile. Siamo al paragrafo 7. Il valore come libertà o necessità spirituale. Ed è pure evidente che pel pensiero la necessità è quella sola che rampolla dal seno stesso del pensiero. Il quale di fronte al fatto, alla così detta “verità di fatto”, non può vedere nessuna necessità, perché il fatto, per definizione, è accidentale: è ciò che non può non essere, essendo tuttavia il pensiero. Ma di fronte a ciò il cui non-essere importi il non-essere del pensiero, questo sente la necessità, poiché il pensiero non può  e questa è la sola necessità che ci sia per lui, astrarre realmente, consapevolmente, da se stesso. Questo è ciò che dicevamo anche rispetto a Nietzsche, circa il modo di intendere il principio di non contraddizione. Gentile pone la questione in questi termini: il pensiero non può astrarre da se stesso, perché astraendosi compie comunque un atto di pensiero. Ma la cosa posta in termini più radicali è rispetto al linguaggio, ovviamente, e cioè qualunque cosa io voglia o non voglia fare comunque devo affermarla, devo pensarla, quindi, dirla, cioè, non posso uscire dal linguaggio. Questo è in fondo il criterio fondamentale del principio di non contraddizione, vale a dire, non c’è uscita dal linguaggio. Paragrafo 8. La necessità dello spirito sola necessità assoluta. Ora ciò da cui il pensiero non può prescindere senza negare se stesso,… Sappiamo che il pensiero non può negare se stesso; per farlo deve affermarsi. È soltanto quell’essere che è la realtà in cui esso si realizza (la substantia cogitans di Cartesio, lo spirito come autoctisi). Questa realtà ci si presenterà in infinite forme, poiché infinite sono le forme in cui si realizza il pensiero: ma tutte queste forme infinite sono quello che sono in quanto essere del pensiero che pensa. Intendere la necessità di ciò che dev’essere, ossia di ciò che ha valore, è intendere questo essere del pensiero. /…/ giacché l’essere del pensiero noi lo possiamo intendere come oggetto di contemplazione o cognizione intuitiva: oggetto intuibile soltanto in virtù di una attività intuitiva che gli si opponga, e che sarà pure pensiero; e lo possiamo, e dobbiamo, intendere pure come quest’attività, che si rappresenta, sia pure intuitivamente, la realtà del pensiero. Se noi, p. es., parliamo di idea, questa idea può essere ideato e ideare: termine del pensiero o pensiero, pensiero pensato o pensiero pensante. “Può essere”, bensì, qui significa soltanto “si può credere che sia”. E si può credere infatti che sia or l’una or l’altra cosa; perché oltre a pensare, noi analizziamo il pensiero, e astragghiamo un elemento, così analiticamente fissato, dagli altri elementi. Ma, in realtà, non c’è pensiero se non in quanto pensante, il quale non è oggetto di contemplazione, anzi, se mai, attività contemplante, vera e propria azione, produzione, creazione di essere. Certo, ha ragione. Tuttavia, rimane la questione: quando il pensiero pensa se stesso pone se stesso come ente. È chiaro che lo astrae, compie un’astrazione, ma astraendosi diventa pensiero pensato, inesorabilmente. Non è che questo pensiero pensante permanga in eterno, perché se rimanesse sempre e comunque pensiero pensante non ci sarebbe mai una riflessione su se stesso, sarebbe un continuo svolgersi infinito senza mai un ritorno, senza mai un’autocoscienza, direbbe Hegel. Quell’altro pensiero, che sarebbe pura contemplazione, fredda e passiva, esterna alla realtà (quindi non sarebbe reale!), quello non è pensiero, ma concetto del pensiero partorito dall’intuizione intellettualistica (falsa) della realtà in generale, e dello stesso pensiero. Un concetto insomma che è uno sproposito, e che bisogna pure una volta risolversi, con un po' di buona volontà, a metter da parte, quando si voglia entrare nella via maestra della filosofia consapevole delle sue conquiste più sicure. È tutto vero quello che dice Gentile, ma questo concetto non è propriamente uno sproposito. Sì, è un’intuizione intellettualistica, ma se voglio pensare il pensiero pensante allora devo porlo come pensiero pensato, cioè, o non lo penso affatto, e quindi non è pensiero né pensante né pensato, non è niente. Ma se so che è pensiero pensante è perché lo ho pensato, e quindi è intervenuto come pensiero pensato. Torno a dire, è ovvio che questi due momenti sono inseparabili, ma rimangono due momenti; mentre, per Gentile, questi due momenti sembrano risolversi e ridursi a un’unica istanza, e cioè pensiero pensante, che esclude il pensiero pensato, cioè esclude la possibilità che il pensiero pensante pensi se stesso. Paragrafo 9. Idealità della realtà spirituale. Orbene, se si considera il pensiero come questa realtà in via di prodursi, ci si trova, com’è naturale, innanzi a una realtà sui generis, imparagonabile a qualsiasi altra, che a sua volta non si può pensare se non in funzione di questa e in opposizione a questa. L’essenza affatto unica di questa realtà è di essere unità di realtà e idea: realtà in quanto idea, idea in quanto realtà. …  E ogni volta che si pensa checchessia, noi siamo il nostro pensiero, che è coscienza di sé, fuori della quale non saremmo quello che, a volta a volta, siamo. Tale essere unico del pensiero, in cui la realtà è l’idea e l’idea è realtà, in cui cioè la realtà si idealizza in quanto si realizza, e l’idea si realizza per idearsi, questo è la necessità, il dover essere di ciò che ha valore. Una realtà non ideale è un fatto; e un fatto è un’idea non reale (idea platonica, in sé considerata, scissa dalla natura, che è innamorata della bellezza di lei, e a lei quindi aspira). Ciò che non è un fatto, sibbene ciò che deve farsi, ed è bene farsi, male non farsi, ossia ciò che propriamente e solamente è necessario, è l’idea nel suo realizzarsi, la realtà nel suo idealizzarsi, e insomma lo spirito come unità dei due termini, che sono soltanto opposti e ripugnanti appena si esca dall’atto del pensiero e si getti lo sguardo sull’astratto oggetto di esso. Di fatto, non si risolve in Gentile il problema, nel senso che continua a porre un unico pensiero pensante, giustamente entro certi limiti, perché anche il pensiero pensato io non lo posso pensare se non come pensiero pensante, ma il pensiero pensante non posso pensarlo se non come pensiero pensato. In effetti, sono due facce della stessa cosa, come l’in sé e il per sé di Hegel, né più né meno. Paragrafo 10. Il valore come unità del soggetto e del logo. Con la dottrina della volontarietà del vero e con quella della certezza la filosofia si è accostata al concetto del valore della verità, del dover essere del pensiero. Concetto che però non si ottiene se non quando si sia superato ogni dualismo d’intelletto e di volontà, ossia ogni dualismo di pensiero ed essere, idea e realtà, e la certezza non apparisca più immediata presenza di fatto del soggetto nel suo oggetto, né come integrazione d’una verità preesistente, ma come quell’unità del pensiero con l’essere che consiste nell’autoctisi propria del pensiero in atto, che, pensando, pone il suo essere. Il valore è il δεσμός (trad. legame) platonico: non il logo obiettivo, né il subiettivo che astrattamente si ponga di fronte al soggetto di cui è logo (pensiero pensato): ma l’unità del soggetto e del suo logo. Il qual logo, inteso in maniera trascendente, apparisce come il λόγος ςυνός di Eraclito, come l’idea di Platone, come l’intelletto attivo aristotelico… Qui rimane sempre la questione, che ovviamente non si risolve in Gentile. Non tiene conto del fatto che il pensiero pensante, se ne sta parlando, è perché l’ha pensato, in un modo o nell’altro, anzi, l’ha pensato parecchio. È chiaro che pensandolo si trova nel pensiero pensante, ma questo pensiero pensante non ha nessuna validità se non c’è il pensiero pensato, perché sarebbe come dire che il pensiero pensante non è pensato né pensabile, e se non è pensato né pensabile non è pensiero e, quindi, è niente.