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18 ottobre 2023

 

 

Aristotele Analitici Primi

 

Nelle pagine che stiamo leggendo Aristotele ci mostra che cos’è la logica e dice delle cose interessanti. Incomincia a chiedersi quando c’è sillogismo e quando no. Quali sono le cose che determinano l’esistenza del sillogismo? Una, dice lui, è che ci sia almeno un universale; l’altra, che ci sia un’inerenza tra i tre membri del sillogismo; perché se io dicessi “siccome Cesare è un uomo e questo è un tavolo, allora oggi è mercoledì” non c’è inerenza e, quindi, non c’è sillogismo; oltre al fatto che per il sillogismo, come dicevamo, è necessario che ci sia almeno un universale, positivo o negativo, non importa. Questo mi ha dato da pensare e occorre che dia da pensare anche a voi. Aristotele sapeva bene da dove arriva questo universale, viene dall’analogia, dall’induzione; come sappiamo, non può essere dedotto da altro, salvo un regresso all’infinito. Quindi, perché ci sia sillogismo, perché ci sia un qualunque ragionamento – il sillogismo è la base di qualunque ragionamento – è necessario che ci sia un universale. L’universale è un inganno perché fa credere che qualcosa sia uno e, invece, è molti. L’universale fa ex pluribus unum, fa uno, ma non è uno, è molti, e questo è l’inganno. Se per potere ragionare, per potere costruire argomentazioni, abbiamo bisogno di sillogismi, e il sillogismo ha bisogno dell’universale, allora per parlare è necessario l’inganno. Senza l’inganno, senza cioè l’universale, non si può affermare o escludere assolutamente nulla. Questo è il senso di ciò che dice Aristotele – lui non lo dice così, naturalmente – ma ciò che non possiamo non considerare a questo punto – se lui ci dice che l’universale è necessario per potere costruire un sillogismo, cioè per potere affermare o negare qualunque cosa – è che il sillogismo è un inganno, perché pone l’universale come uno, mentre l’universale è necessariamente molti e, infatti, procede per induzione e l’induzione è molti. Questa è una considerazione – il fatto che per parlare occorra ingannarsi – che non va senza una serie di implicazioni. Significa, in prima istanza, che si pone ogni affermazione, come abbiamo detto tante volte, come un universale, e cioè come un uno, è quella, ma non lo è. Quindi, che cosa succede quando si parla? Ci si inganna: si pensa di dire quella cosa ma, in realtà, insieme a quella cosa se ne stanno dicendo infinite altre. Quando si vuole sostenere la ragione di qualcuno, per sostenere questa ragione, è necessario l’universale, è necessario cioè qualcosa che funzioni come uno o, per dirla alla greca, come εἶδος, come quell’immagine, quel tutto, che tutto non è; è necessario pensare che questo uno sia effettivamente uno, che escluda i molti, sennò non lo posso affermare per potere dare ragione a qualcuno. Se volessi dare ragione a Gabriele dovrei costruire un’argomentazione tale per cui c’è un universale, che dice che le cose stanno così, e siccome Gabriele afferma queste cose che ineriscono alla premessa maggiore, allora Gabriele ha ragione, le cose stanno così come dice lui. Come dire che l’unico modo per dare ragione a qualcuno è ingannarsi, non c’è altra via. Che cos’è a questo punto la ragione? È un inganno. Tutti ciò che gli umani hanno sempre pensato della ragione, della ratio, e cioè come qualcosa di fondamentale, che rende conto delle cose, non è altro che un inganno, inesorabilmente. Anzi, potremmo aggiungere che “deve” essere un inganno, perché se non lo fosse non potremmo parlare, perché se non lo fosse allora quell’uno, che è simultaneamente i molti, si trasformerebbe immediatamente nei molti, perché abbiamo tolto l’uno che ci inganna e ci rimangono i molti, ma questi molti sono l’infinito e, quindi, come parliamo? Se devo scrivere il numero 3 scrivo 3, non posso pensare che quel 3 è simultaneamente tutti i numeri, sarebbe complicato; anche perché i numeri sono infiniti e, quindi, come ci regoliamo? Dunque, la ragione come inganno. Ma qual è il lavoro che sta facendo qui Aristotele? Sta facendo un lavoro curioso. Se lo si legge si ha modo di accorgersi che quello che fa Aristotele è una costruzione di un programma eseguibile: tutte le possibilità di accostamento, di inerenza tra i membri del sillogismo, sono soltanto istruzioni che potrebbero essere date a una macchina per eseguire un calcolo. Per la prima volta nella storia dell’umanità è stato costruito un programma eseguibile. Non c’erano i calcolatori, certo, ma questo non ha impedito ad Aristotele di costruire un programma eseguibile, perché sono istruzioni precise; mancava solo l’algebra di Boole e Aristotele avrebbe potuto costruirsi il suo computer. Un programma eseguibile, dunque. Infatti, è di una noia mortale a seguirlo come ho fatto io, ma bisogna leggerlo tutto perché magari dentro trecento pagine ci sono tre righe che a noi interessano. Di fatto, a noi non interessano le istruzioni di questo programma, quello che importa è che in questa sorta di “programmazione” Aristotele mostra, tra le altre cose, il retaggio platonico. D’altra parte, lui si è formato con Platone e questo non è irrilevante. Infatti, per Aristotele il sillogismo è quasi un ente di natura, quasi un’idea che sta per sé. Eppure, lui sapeva, lui stesso lo dice, per esempio, che la sostanza non è altro che ciò che se ne dice e che qualunque cosa è quella che è per via di altro. Invece, i sillogismi sembrano essere fuori da questa struttura, come se fossero – da qui l’abbaglio dei medioevali – enti di natura. Hanno nomi che non significano niente – Barbara, Celarent, Bocardo – nomi che i medioevali si inventarono per memorizzare la sequenza delle vocali. Per esempio, in Celarent le vocali e, a, e, rispettivamente universale negativa, universale affermativa e universale negativa: tutte le A non sono B, tutte le B sono C, nessuna A è C. E così tutte le altre figure, come Bocardo, in cui le vocali sono O, A, O, particolare negativa, universale affermativa, particolare negativa: qualche A non è B, tutte le B sono C, qualche A non è C. Queste forme non significano niente e ciò che risulta dalla lettura di questo testo di Aristotele è che questa logica, con cui gioca, non serve assolutamente a niente. Infatti, quando poi deve fare un esempio interviene chiaramente la semantica, intervengono cioè gli enunciati, non sono più le lettere, e allora diventa tutto più problematico. Quando dice “ogni piacere è male” o “non è bene”, uno potrebbe fermarlo e chiedergli il perché. Tutte le A non sono B, va bene, ma cosa vuol dire tutte le A? Quali tutte? Questo è il problema dell’universale. Per questo dicevo che è un inganno. Tutte le A: ma quali sono tutte le A? Cosa vuole dire tutte le A? Qui si torna alla parola greca, ύπάρχειν, io comando che sia così. Così come non c’è una ragione al mondo perché quattro assi costituiscano un poker, se non le regole del poker, regole che io non ho stabilito ma che accolgo quando gioco a poker, che qualcuno ha comunque stabilito, perché non sono enti di natura. E, allora, ecco che tutta la logica assume un aspetto diverso. Intanto, sappiamo bene che Aristotele non ha inventato niente, lui ha semplicemente trascritto delle cose che erano note a tutti; nessuno si era messo lì a scriverle, lo ha fatto lui, va bene, ma erano cose note a chiunque. Ma c’è questo aspetto nella logica di Aristotele che, come dicevo prima, richiama il platonismo, e cioè di forme, di figure che, come l’εἶδος, sono quel tutto che non ha nessuna ragione propriamente, come l’idea di Platone: perché sono lassù? Chi ce l’ha messe? Cosa significano? Sono lì, e tanto basta. Anche la domanda: ma questo descrive il modo in cui si pensa? No, non lo descrive affatto, è un gioco. Ma non si pensa affatto così, perché non si pensa logicamente, e questo Aristotele lo sapeva bene, lo dice lui stesso: si pensa emotivamente, è il πάθος che decide cosa dire. Quindi, che significato ha tutto questo lavoro che sta facendo Aristotele? Questa è una domanda interessante, alla quale certe volte sembra che nemmeno lui sappia rispondere esattamente. L’unica cosa che possiamo dire è che crea, con questo programma, l’illusione di potere gestire il pensiero, dicendo – che è poi questo quello che lui cerca – quali sono le conclusioni accettabili e quali no, conclusioni che naturalmente sono il risultato del sillogismo. Questa illusione è stata presa in modo molto serio dai medioevali, che hanno pensato che fosse davvero così, e cioè che i vari sillogismi, compilati da Aristotele, rendessero conto dei modi in cui le persone effettivamente pensano. Non è così, le persone non pensano così, e Aristotele lo sapeva benissimo, i medioevali no, perché non avevano letto la Fisica di Aristotele, che è arrivata più tardi. Tutto questo ci consente di porci nei confronti dell’Organon in modo differente da come ci si pone generalmente, vale a dire, non come se ci si trovasse di fronte, come dice lui stesso, a uno strumento per pensare. No, neanche un po’, è un inganno anche questo, esattamente come nel caso del sillogismo. Il sillogismo inganna; come dicevo prima, deve avere un universale e l’universale è un inganno perché non universalizza niente, non compie quella operazione, come dicevano i medioevali, ex pluribus unum. Appare come uno ma non lo è, e se non lo è crolla tutto quanto, crolla tutta la validità della logica. Aristotele sapeva che non si pensa logicamente ma attraverso il πάθος, attraverso le emozioni, sono loro che decidono cosa è vero e che cosa no. Ne è seguito, invece, che nessuno si è reso conto non solo che è un inganno, ma che tutto ciò emerge palesemente dalle parole di Aristotele. Probabilmente, non era possibile cogliere e meno che mai accogliere questo inganno; sarebbe valso che pensando ci si inganna, non per incapacità o sbadataggine, ma necessariamente ci si inganna. È come se, in effetti, non si potesse più prendere partito per qualche cosa, qualunque cosa sia, perché è inesorabile la simultaneità dell’uno e dei molti. Prendere partito significa ex pluribus unum, fare uno, e quello diventa il parametro di confronto di ogni cosa; ma se io non posso più non sapere che questo uno è molti, non posso più prendere partito per nulla, perché simultaneamente penso a una infinità di cose. Si sente spesso parlare di eventi, di fatti, politici, ecc., che vanno storicizzati per essere compresi. Va bene, storicizziamoli. Cosa facciamo storicizzandoli? Inseriamo questo evento all’interno di un contesto un pochino più ampio. Ma quanto deve essere ampio per essere valido? Dieci anni fa? Trenta ani fa? Trentamila anni fa? La storicizzazione si basa anche questa su fatti, ma a gran voce Nietzsche ci diceva che non esistono fatti ma solo interpretazioni. Ogni volta che c’è un fatto io sto interpretando; quindi, con che cosa ho a che fare esattamente? Con la mia ideologia. Questo ci porta a pensare che storicizzare potrebbe equivalere a ideologizzare, perché diventa ineluttabile il fatto che questo uno è molti e non posso più fare finta di non saperlo, non è possibile. Questo significa che non è più possibile prendere partito, perché so che prendere partito esclude necessariamente una infinità di cose, che invece conosco, so e non posso più fare finta di non sapere. Mi trovo, quindi, nella condizione, non tanto di non potere fare nulla – posso, in effetti, fare quello che mi pare – ma di cessare di credere che le cose stiano così come sto dicendo. Dicevamo tempo fa quella cosa che è vera per tutti, e cioè che la vita umana è sacra. Perché? Chi l’ha detto? Siamo sicuri che sia un guadagno della civiltà? Per noi sì, perché crediamo che lo sia e, dunque, lo è; ma sennò non significa niente. La vita è sacra a una condizione, e cioè che sia proprietà di Dio, mentre se è degli umani, questi ne fanno ciò che ritengono più opportuno. Questo è uno degli effetti più immediati dell’Aufhebung, dell’entelecheia di Aristotele, cioè, della simultaneità dell’uno e dei molti. Considerare la vita come sacra può essere utile in alcune circostanze, è possibile, ma niente di più, non è un dogma, non significa niente, è come se dicessi “io sono sacro”. Aristotele deve in tutti i modi garantire della validità del sillogismo, la sua creatura. Come dicevo, non l’ha inventato lui, ma lui lo ha reso in qualche modo partecipabile. A pag. 419. Inoltre, in tutte le figure è anche chiaro che, quando non viene ad esserci un sillogismo avente ad oggetto il rapporto dell’estremo maggiore all’estremo minore, se i termini sono predicati in entrambi i casi positivamente o in entrambi privativamente, non viene ad esserci alcun risultato necessario in generale;… Se io non traggo una conclusione dalle premesse, il sillogismo non mi serve a niente, perché serve esattamente a questo, a trovare una conclusione dalle premesse e, quindi, poter affermare qualcosa. …invece, se uno è positivo e l’altro privativo, quando è stato assunto quello privativo universale, ogni volta viene ad esserci un sillogismo avente ad oggetto il rapporto dell’estremo minore al maggiore… Ciò che importa è sempre che ci sia un universale: è questa la condizione, la condicio sine qua non per il sillogismo. A pag. 471. D’altra parte, “…inerisce ad ogni…” va assunto senza determinazioni temporali, quali “ora” o “in questo tempo”, ma in senso assoluto… Ecco il platonismo di Aristotele che fa capolino: l’assoluto, e cioè un qualche cosa che non deve la sua esistenza ad altro se non a se stesso, mentre per Aristotele sappiamo che le cose esistono in virtù di altro, non per se stesse, come voleva Platone, come se esistessero per se stesse. …infatti, è mediante premesse di questo tipo… Cioè, atemporali. …anche che noi produciamo i sillogismi, dato che, se la premessa è assunta riguardante il momento presente, non è possibile sillogismo. Come dire che il sillogismo è possibile solo platonicamente, cioè, occorre pensare al sillogismo come a qualcosa che è per se stesso, e quindi la premessa maggiore, quella che regge tutto, l’universale, è intoccabile, è quello che è per virtù propria. Questa è la condizione del sillogismo, questa è la condizione per potere pensare, ed ecco perché vi parlavo di inganno. Togliere qualcosa dalla temporalità è toglierlo dalla simultaneità, prevalentemente e prioritariamente, e cioè togliere i molti: non più ex pluribus unum ma unum e basta. A pag. 493. Nella seconda figura, quando entrambe le premesse assumano una possibilità non ci sarà alcun sillogismo… Se tutto è possibile, che cosa concludo? È possibile che sì ed è possibile che no, quindi, che ce ne facciamo? Niente e, quindi, non c’è giustamente sillogismo. Ecco perché è necessario un universale. Invece, quando una indica un’inerenza e l’altra una possibilità, se ad indicare un’inerenza è la premessa affermativa non ci sarà mai sillogismo,… Quando una indica un’inerenza e l’altra una possibilità: inerisce ma possibilmente. Rientra nel discorso di prima, cioè, rimane una possibilità. …mentre ci sarà sempre sillogismo se ad indicare un’inerenza è la premessa privativa universale. Come dire che c’è sempre sillogismo a condizione che qualcosa si escluda; c’è sempre sillogismo quando c’è la premessa privativa universale. Quando invece la premessa è affermativa universale, allora potrebbe anche non esserci sillogismo, perché se io affermo che “nessun bene è non bene” (premessa negativa universale) faccio un taglio netto, de-cido, de-termino, de-limito. Se, invece, dico “ogni bene è bene”, in questo “ogni bene” entrano sì anche gli altri ma potrebbe entrarci anche qualche altra cosa e, quindi, potenzialmente, rischia di non essere un sillogismo, mentre quello negativo lo è sempre, perché chiude, determina, delimita, e per delimitare, come sappiamo, dobbiamo escludere, cioè negare. A pag. 495. Dunque, prima di tutto bisogna provare che il rapporto privativo possibile non si converte, ovvero che, ad esempio, se A può non inerire a nessun B, non necessariamente anche B può non inerire a nessun A. infatti, poniamo per dato ciò, ossia che B può non inerire a nessun A. allora, dal momento che le affermazioni in forma di possibilità si convertono nelle negazioni, e dato che B può non inerire a nessun A, manifestamente B potrebbe anche inerire ad ogni A. ciò però è falso, perché non è che, se questo può inerire a tutto di quello, necessariamente anche quello possa inerire a tutto di questo, sicché il rapporto privativo non si converte. Inoltre, nulla impedisce che A possa inerire a nessun B e invece B di necessità non inerisca a qualcuno degli A. Ad esempio, bianco può non inerire ad ogni uomo e infatti può anche inerire ad ogni uomo, ma non è vero dire che uomo può non inerire a nulla di bianco, giacché a molte cose bianche esso non inerisce di necessità, a abbiamo detto che il necessario non è possibile. Tutto questo per dire quello che dicevo prima, e cioè soltanto l’universale negativa determina: nessuno è quella cosa lì. Se, invece, dico che tutte queste cose sono queste, sì, certo, sono queste, però potrebbe esserci anche qualcosa in più: dico, sì, che “tutte le A sono B”, ma questo non significa necessariamente che tutte le B siano A; possiamo solamente dire di sicuro che alcune B sono A, non siamo sicuri che tutte le B siano A, perché, per esempio, le B possono essere più di quante siano le A, per cui, certo, possiamo dire che “tutte le A sono B”, ma quel settore di B; quindi, se “tutte le A sono B” questo non significa che necessariamente tutte le B siano A; potremmo sicuramente dire che qualche B è A. Questo è uno degli infiniti esempi che fa Aristotele all’interno di quello che chiamavo prima “programma”, che è eseguibile perché sono istruzioni, né più né meno. A pag. 527. Ora qui si chiede una cosa importante, e cioè quando c’è sillogismo. Ebbene, necessariamente ogni dimostrazione e ogni sillogismo, oltre a provare che qualcosa inerisce o non inerisce, e ciò o universalmente o parzialmente, lo prova direttamente, o sulla base di un’ipotesi. Provare mediante l’impossibile fa parte del provare sulla base di un’ipotesi. Si dimostra che una certa ipotesi è impossibile, quindi, ci si rivolge altrove. Dunque, parliamo in primo luogo di quelli diretti, perché, una volta mostrato che questi vengono in essere tutti mediante una delle figure, ciò sarà manifesto anche riguardo a quelli per riduzione all’impossibile e in generale a quelli sulla base di un’ipotesi. Ora, se bisogna trarre a conclusione l’inerire o il non inerire di A a B, è necessario assumere che qualcosa inerisce o non inerisce a qualcos’altro. Qui Aristotele rivela che, di fatto, sta giocando: assumiamo che sia così, assumiamo che quattro assi siano superiori a due jack, lo assumiamo per potere giocare, cioè, per potere fare questo gioco dobbiamo assumere che qualche cosa possa inerire o non inerire a qualche cos’altro; lo dobbiamo assumere perché non lo possiamo dimostrare in nessun modo; sarebbe come dimostrare il passaggio necessario dall’uno al due, come facciamo? Non c’è modo, quindi, lo assumiamo. Dunque, se venisse assunta l’inerenza o non inerenza di A e B, si troverebbe ad essere assunto quello che in origine bisognava provare. D’altra parte, se venisse assunta l’inerenza o non inerenza di A a C, ma poi non fosse assunta quella di C ad alcun altro termine, o quella di un altro termine a C, o quella di un altro termine ad A, non ci sarebbe alcun sillogismo, giacché nulla risulta di necessità per il fatto che si è assunta l’inerenza o non inerenza di un’unica cosa ad un’unica altra cosa. Quello che sta dicendo è che non posso passare dalla A alla C senza un termine medio. Questo è il sillogismo: c’è una maggiore, una minore, il medio, e la conclusione; se dico semplicemente che A è C è una petizione di principio, non significa niente, devo passare attraverso il medio. Ricordate Barbara? Tutte le A sono B, tutte le B sono C – questo è il medio – dunque, la conclusione è che tutte le A sono C; senza questo medio non si va da nessuna parte. Di conseguenza, bisogna assumere in aggiunta anche una seconda premessa. Cioè, la premessa minore, il medio. Dunque, qualora venga assunta l’inerenza o non inerenza di A ad un altro termine o quella di un altro termine ad A, o quella di un altro termine a C, nulla impedisce invero che ci sia un sillogismo, ma questo non sarà relativo a B mediante le premesse assunte. E non ci sarà un sillogismo relativo a B neanche quando C inerisce ad un secondo termine, questo ad un altro e quest’ultimo ad un altro ancora, senza però collegarsi con B. C’è sempre la necessità del medio. È una cosa banalissima, in qualunque sillogismo c’è un medio che fa da intermediario tra la premessa maggiore e ciò che si conclude. Diciamo infatti in generale che non c’è mai in nessun caso un sillogismo concernente l’inerire o non inerire di una cosa ad un’altra se non è stato assunto un medio che stia in un certo rapporto predicativo e con l’una e con l’altra cosa. Se A allora B, se B allora C: abbiamo la B nel primo e nel secondo; dunque la conclusione è se A allora C; quindi, abbiamo la connessione, l’inerire di B con C. A pag. 537. Qui dice quello che anticipavo prima. Inoltre, in ogni caso bisogna che uno dei termini sia positivo e ci dev’essere un’inerenza universale, giacché, senza un rapporto universale, o non ci sarà sillogismo, o non ci sarà un sillogismo relativo a ciò che ci si propone di provare, oppure si finirà col postulare quello che in origine bisognava provare. Il sillogismo necessita di un universale, positivo o negativo, non importa. Anzi, abbiamo visto che se l’universale è negativo è meglio, perché abbiamo la maggiore certezza rispetto al sillogismo positivo. Infatti, prendiamo il caso in cui ci si proponga si provare che il piacere dato dalla musica è nobile. Qui incomincia a introdurre gli enunciati. Dunque, se uno dovesse asserire che il piacere è nobile senza aggiungere “ogni”, non ci sarà sillogismo;… Cioè, è necessario partire dal fatto che ogni piacere è nobile, ex pluribus unum, cioè, arrivare a questo uno che funziona da premessa generale. Ogni piacere è nobile o, come dicevamo prima, ogni vita è sacra, sono la stessa cosa come premessa universale; allora è possibile, tramite un medio, ma c’è la necessità dell’universale, senza il quale non si combina il sillogismo, e l’universale è un inganno. Quando dice “ogni piacere”, bisogna che ci sia l’“ogni”, ma l’“ogni” è già un inganno: come dicevamo prima, come faccio a sapere che è ogni? Lo assumo, lo stabilisco, è una mia invenzione: stabilisco che è così e bell’e fatto.

Intervento: In questo modo c’è un fondamento teoretico…

Quanto meno pone le basi per una riflessione teoretica, perché se ogni pensare inganna, allora non c’è uscita dall’inganno, ma può esserci consapevolezza dell’inganno necessario per parlare. Perché per parlare io devo assumere l’universale, per potere affermare una qualunque cosa, ogni volta che affermo, affermo un universale. Cesare è un uomo: ho fatto un’affermazione universale. Ciò che mi interessa è considerare questo proprio in rapporto a ciò che dicevo prima, e cioè che il sillogismo deve essere fuori del tempo e universale. Di fatto, per essere universale deve essere fuori del tempo, fuori della simultaneità, non ex pluribus unum ma unum. Per questo parlavo prima di retaggio platonico in Aristotele, e magari anche per questo ha avuto tanto successo la logica aristotelica, perché in qualche modo, anche se ci sono delle difficoltà, echeggiava l’idea platonica. Per esempio, il sillogismo perfetto: lui stesso lo chiama perfetto, è il sillogismo Barbara, dove ci sono tre universali affermativi e che è l’idea perfetta, che altro non è che l’idea platonica, che sta lì nell’Iperuranio, immobile, identica a sé per virtù propria. Questo in Aristotele stride con tutto ciò che ha detto in altri passi, in altri scritti. Quando parla, per esempio, dell’οὐσία, della sostanza: per lui la sostanza è ciò che se ne dice…

Intervento: …

L’inganno che consente di parlare. Come dicevo prima, non c’è possibilità di uscita da una cosa del genere, ma è possibile saperlo e, sapendolo, tenerne conto. Tenerne conto significa non trovarsi più nella struttura religiosa, significa essere fuori dalla religione, perché la simultaneità è la morte della religione. Dunque, se uno dovesse asserire che il piacere è nobile senza aggiungere “ogni”, non ci sarà sillogismo; se invece egli asserisse che qualche piacere è nobile, se si tratta di un piacere diverso da quello dato dalla musica non c’è alcuna relazione con quanto ci si proponeva di provare, mentre, se si tratta precisamente di quel piacere, ecco che egli assume ciò che in origine doveva provare. La necessità è che ci sia sempre un “ogni” da qualche parte nel sillogismo. Questo meriterebbe di essere considerato più attentamente di quanto abbia fatto Aristotele, perché rende conto del funzionamento del linguaggio. Mettere l’“ogni”, come dice lui, equivale a dire che è necessariamente così. Per esempio, se inserissi il tempo, anche come successione di stati, di eventi, dovrei dire che, sì, in questo momento è così, ma fra dieci minuti potrebbe non essere più un piacere. Mentre, se volessi dimostrare l’assunto di partenza, e cioè provare che il piacere dato dalla musica è nobile, occorrerebbe che ogni piacere fosse nobile, perché sennò potrebbe esserci un qualche piacere che la musica produce e che magari non è nobile. Pertanto, ecco la necessità dell’“ogni”: occorre muovere dalla considerazione che le cose stanno così. Questa è la premessa universale: le cose stanno così, quindi… È come se ogni volta si dicesse: le cose stanno così, oppure, le cose non stanno così, è la stessa cosa, quindi, di conseguenza, accade questo o quest’altro. Ma le cose, come sappiamo, non stanno esattamente così. Il passo successivo è il come produrre sillogismi: individuare i termini utili a comporre le premesse. È una questione che poi riprenderà nei Topici, che sono più divertenti degli Analitici. A pag. 551. Ora è ormai il momento di dire come fare a procurarci noi ogni volta una buona dotazione di sillogismi relativi al problema posto, e per quale via arriveremo ad assumere i principi concernenti ciascun singolo problema. Ché non possiamo certo limitarci a studiare il venire in essere dei sillogismi in teoria: bisogna anche avere la capacità di produrli. Ecco la retorica! Parlando della logica, quando vuole dire cose importanti, si trova a parlare della retorica.