INDIETRO

 

 

18 ottobre 2017

 

M. Heidegger, Essere e Tempo 

 

Siamo a pag. 376, § 64, Cura e ipseità. Dice, dunque. L’unità dei momenti costitutivi della Cura, esistenzialità, effettività e deiezione, ha reso possibile una propria delimitazione ontologica della totalità dell’insieme strutturale dell’Esserci. La struttura della Cura ha trovato espressione nella formula esistenziale seguente: avanti-a-sé-esser-già-in (un mondo) come esser-presso (l’ente che si incontra dentro il mondo). Questa definizione che dà Heidegger è precisa e importante, perché la Cura, che non è altro che l’essere dell’Esserci, la sostanza dell’Esserci, dice che è un essere-avanti-a-sé in un mondo come esser-presso il mondo, cioè, come essere presso gli utilizzabili. Quindi, è un essere già sempre avanti a sé, e questa è la nozione di gettatezza, essere già sempre avanti a sé. Più avanti a pag. 377. L’articolazione della totalità dell’insieme delle strutture si è fatta più ricca, e con ciò si è fatto più acuto il problema dell’unità di questa totalità. Come già sapete, Heidegger cerca l’unità, la totalità dell’Esserci. Come dobbiamo concepire questa unità? In qual modo l’Esserci può esistere unitariamente nelle suddette maniere e possibilità del suo essere? Manifestamente solo a patto che esso stesso sia questo essere nelle sue possibilità essenziali e che sia sempre io questo ente. La questione essenziale rimane sempre questa, e cioè che l’Esserci può esistere unitariamente, come unità, soltanto a patto che questo essere sia continuamente gettatezza. È il fatto di essere questa gettatezza che rende la sua totalità. In questa gettatezza c’è tutto quanto, c’è tanto l’Esserci, cioè io, quanto l’essere dell’Esserci, cioè io in quanto prendentesi cura di ciò che incontro: io sono in quanto mi prendo cura. E qui introduce l’Io. L’“io” sembra essere ciò che “tiene assieme” la totalità dell’insieme delle strutture. Già le più antiche “ontologie” di questo ente intesero l’“io” e il “se-Stesso” come il fondamento che sostiene (sostanza e soggetto). Soggetto, ciò che sta sotto, subjectum, ποκείμενον, sono tutti termini che indicano la soggiacenza. Anche questa analitica, sin dalla caratterizzazione preparatoria della quotidianità, si imbatté nel problema del Chi dell’Esserci. Risultò allora che, innanzi tutto e per lo più, l’Esserci non è se stesso, ma è per il Si-stesso. Dunque, l’Esserci non è se stesso. L’Esserci, riflettendo su stesso, come abbiamo visto, trova la nullità del fondamento. Ma, dice, è perso nel Si-stesso, non dice il se stesso ma il Si-stesso, cioè, è perso nella deiezione. Il Si-stesso è una modificazione esistentiva del se-Stesso autentico. A pag. 378. È apparso chiaro fino in fondo che la Cura non è deducibile ontologicamente dalla realtà, né è costruibile con categorie desunte dalla realtà. Dicendo che la Cura non è deducibile dalla realtà ci sta dicendo che la Cura non è qualcosa che appartiene alla realtà delle cose, è un oggetto contrapposto a me che sono soggetto. Non è deducibile perché la Cura compare nel momento stesso in cui compare l’Esserci, perché l’essere dell’Esserci è la Cura, quindi è già sempre questa cosa. Non è che a un certo punto la traggo, sono già sempre questa cosa in quanto Esserci, in quanto mi prendo Cura delle cose, sono queste cose qui, non ho altri modi di essere. La Cura cela già in sé il fenomeno del se-Stesso, se almeno è legittimo affermare che l’espressione “cura di sé”, costruita in analogia all’aver cura in quanto Cura degli altri, è una tautologia. Dice che prendersi cura di sé è una tautologia, nel senso che non può non prendersi cura di sé in quanto il primo elemento con cui ha a che fare è se stesso, per cui se è Cura è innanzitutto cura di sé, oltre che del mondo. Sappiamo, però, che il mondo sono io e, quindi, prendendomi cura del mondo prendo cura di me. È in questo senso che è una tautologia. Poi, parla di Kant. A pag. 379 dice Il fatto che egli chiami questo io “soggetto logico” non significa che l’io sia un concetto ottenuto solo con un procedimento logico. L’io è piuttosto il soggetto del comportamento logico, del collegare. “Io penso” significa: io collego. Ogni collegare è un “io collego”. È interessante perché pone questo “io collego” come la relazione. Alla base di ogni operazione di collegamento e di ogni relazione c’è già sempre l’io – ύποϰείμενον. Perciò il soggetto è “coscienza di sé”; non è una rappresentazione, ma la “forma” della rappresentazione. Il che vuol dire: l’io penso non è affatto qualcosa di rappresentato, ma la struttura formale del rappresentare come tale, in base alla quale è possibile qualcosa come un rappresentato. “Forma” della rappresentazione non significa né un’intelaiatura né un concetto universale, ma ciò che, in quanto είδος, porta ogni rappresentato e ogni rappresentare a essere ciò che è. Concepire l’io come forma della rappresentazione equivale a dire: l’io è un “soggetto logico”. (pagg. 379-380) Qui Heidegger fa un giro in più, però, la questione è sempre la stessa. Dice che l’io non è una rappresentazione ma la forma della rappresentazione, quindi, la struttura formale del rappresentare. Questa struttura formale del rappresentare procede da una relazione, da una relazione tra cose, altrimenti non si può formalizzare assolutamente niente. A pag. 382. Nel “dire-io” si esprime l’Esserci come essere-nel-mondo. Questo è importante. Dicendo “io” esprimo l’Esserci ma in quanto essere nel mondo, non in quanto rappresentazione logica, ecc. Ma il dire-io quotidiano intende forse se stesso come essente-nel-mondo? Qui bisogna distinguere. Certamente l’Esserci, dicendo-io, intende l’ente che esso sempre è. Mi intendo come ente, come una cosa fra le tante. Ma l’autointerpretazione quotidiana ha la tendenza a comprendersi partendo dal “mondo” di cui si prende cura. Qui c’è la distinzione fondamentale. Dice che l’autointerpretazione quotidiana, cioè il Si, tende a comprendersi a partire dal mondo, come dire che considera il mondo un qualche cosa da cui desume se stesso. Per Heidegger non è affatto così, perché il mondo, da cui dovrei desumere me stesso, è me stesso. Nell’autointendersi ontico l’Esserci non si vede rettamente quanto al modo di essere dell’ente che esso stesso è. E ciò vale particolarmente per la costituzione fondamentale dell’Esserci, l’essere-nel-mondo. E ciò vale particolarmente per la costituzione fondamentale dell’Esserci, l’essere-nel-mondo. Nell’autointendersi in quanto ente a partire dal mondo, è come se quell’ente che io sono si dimenticasse che io sono già quel mondo dal quale suppongo di desumere me stesso. Questo me stesso è già il mondo. Ecco, qui c’è una frase importante, perché è come se racchiudesse in poche parole tutta l’analitica esistenziale, cioè la filosofia di Heidegger. Dice Si è ciò di cui ci si prende cura. Sembra una cosa abbastanza banale, però, sta dicendo tutto: io sono, cioè l’Esserci, ciò di cui si prende cura. È per questo che dice che l’essere dell’Esserci, cioè la sostanza dell’Esserci, è la Cura, perché io sono ciò di cui mi prendo cura, sono quel mondo di cui mi prendo cura occupandomi dei vari utilizzabili che incontro. Mi prendo cura continuamente di cose, nel senso che il modo con cui io mi approccio a una qualunque cosa non è naturale, ma mi approccio a qualche cosa perché voglio farci qualcosa di quella cosa, essendo un utilizzabile la voglio utilizzare in qualche modo. Quindi, io sono ciò di cui mi prendo cura, sono quelle cose che intervengono nel mio progetto e che intervengono in quanto io sono gettatezza. A pag. 383. La Cura esprime se stessa come “io” innanzi tutto e per lo più nel “fuggente” dire-io del prendersi cura. Il fuggente “io” è quell’io preso nella deiezione, che dice “io” immaginando di desumersi dal mondo. Il Si-stesso dice più frequentemente e più ad alta voce: “io-io”, perché, in realtà, non è autenticamente se-Stesso e fugge dal suo poter-essere autentico. Non ne vuole sapere del poter essere autentico, cioè, dell’accorgersi, del prendere atto che è pura possibilità, ma vuole essere qualcosa di determinato, di preciso, esattamente come il Si del mondo gli impone di essere, per cui deve essere qualche cosa. Che la costituzione ontologica del se-Stesso non si lasci ricondurre né a una sostanza-io né a un “soggetto”, ma, al contrario, il dire io-io quotidiano e fuggente debba essere inteso a partire dal poter-essere autentico, non significa però che il se-Stesso sia il fondamento costante e semplicemente-presente della Cura. Il che vuol dire, molto semplicemente, che questo io quotidiano fuggente è inteso a partire dal poter essere autentico, perché soltanto se, uscendo dal Si, io divento autentico posso riconoscere il Si, altrimenti non lo riconosco perché ci sono immerso dentro, non vedo nulla. L’ipseità deve essere esistenzialmente rintracciata soltanto nel poter-essere-se-Stesso autentico, cioè nell’autenticità dell’essere dell’Esserci in quanto Cura. È lì che si ritrova l’ipseità, è lì che mi accorgo di essere autenticamente me stesso, non nel Si ma nella Cura. In base a essa si spiega la stabilità del se-Stesso, cioè la presunta permanenza del soggetto. Qui c’è una questione intorno alla quale possiamo dire qualcosa. Dicendo che l’ipseità può essere rintracciata soltanto nel se-Stesso autentico, sta dicendo che questa autenticità, cioè la Cura, è ciò che consente la stabilità, la permanenza di quella cosa che chiamiamo soggetto. Perché? Perché se mi prendo cura di qualche cosa sono io che me ne prendo cura, e allora, se ci rifacciamo al discorso di prima, se io immagino di essere desumibile dal mondo che vedo, allora, se mi prendo cura di qualche cosa, è in base a questo qualche cosa, di cui mi prendo cura, che io posso dirmi io e posso desumermi come soggetto. L’Esserci è autenticamente se-Stesso solo nell’isolamento originario della decisione tacita e votata all’angoscia. Quando l’esserci trova se stesso ma trovando se stesso trova il nulla, da cui poi l’angoscia. L’esser-se-Stesso autentico, essendo come tale tacito… Tacito perché ha zittito il Si, non c’è più il Si che fa rumore. …non dice affatto “io-io”, ma “è”, nel silenzio, quell’ente gettato che, come tale, può essere in modo autentico. Cessa di continuare a dire “io”, che viene dal Si, ma è nel silenzio. Non dice più “io sono questa cosa qui”, questo io, io, io, che interviene sempre, ma, dice Heidegger, è nel silenzio, cioè, diventa, è quell’ente gettato. In un certo qual modo l’io non c’è più. Il se-Stesso, quale è svelato nel silenzio dell’esistenza decisa, costituisce il terreno fenomenico originario per la posizione del problema dell’“io”. Soltanto a questo punto c’è qualche possibilità di pensare l’io in modo interessante, non dicendo io, io, io, ma quando mi accorgo che sono quell’ente gettato allora posso pensare l’io, ma solo a questa condizione, e cioè quando esco dal Si. La Cura non ha bisogno di esser fondata in un se-Stesso; è invece l’esistenzialità, come costitutivo della Cura, a fornire la costituzione ontologica della stabilità autonoma dell’Esserci in cui, in corrispondenza con il pieno contenuto strutturale della Cura, rientra la deiezione effettiva della instabilità. Il che vuol dire in altri termini che la Cura non deve essere fondata, neanche in un se-Stesso… L’Esserci è questo prendersi Cura. Come potremmo, infatti, fondare la Cura? Su che cosa? Se la Cura è l’essere dell’Esserci e se l’Esserci che pensa se stesso trova la nullità, non c’è nessun fondamento. Dice, invece, che la Cura è l’esistenzialità, che è costitutiva della cura, e cioè, nel momento in cui io mi prendo cura del mondo, nel in cui incomincio a esistere come Esserci, in quel momento esisto. E, quindi, questa mia esistenza è la stessa cosa della Cura, in quanto io esisto come prendentesi cura. Se mi prendo cura allora accade che io esisto, io esisto in questo prendermi cura. Dice che è questo a fornire la costituzione ontologica della stabilità autonoma dell’Esserci, autonoma nel senso che non dipende da altro che da se stesso, in cui, in corrispondenza con il pieno contenuto strutturale della Cura, rientra la deiezione effettiva della instabilità. Cosa vuol dire? Nel momento in cui l’Esserci accade come Cura, in questo stesso riconoscersi come Cura, considera la deiezione, lui dice, come un’effettiva instabilità. Diciamo la cosa in un modo un po' rozzo: perde l’interesse per la deiezione. Nel § 65 incomincia a dire delle cose complesse, le pagine che seguono sono molto dense. Siamo a pag. 384. Il paragrafo si intitola La temporalità come senso ontologico della Cura. La Cura, che io sono in quanto Esserci, è l’essere dell’Esserci, ha un senso ontologico nella temporalità. Abbiamo già visto in altre occasioni come la temporalità sia il già essere sempre una possibilità e comporta che io mi porto appresso qualunque possibilità, cioè io sono tutte le possibilità. Quindi, questa temporalità, di cui sono fatto, oltre la decisione che io prendo scegliendone una e tralasciando le altre, mi porto appresso tutto ciò che io ho deciso anche in passato, tutto ciò che sarei potuto essere o diventare. Tutte le mie scelte, tutte le mie decisioni, sono qui, in questo momento. Per Heidegger la temporalità non è soltanto questo ma anche qualche altra cosa di più complesso, che adesso iniziamo ad affrontare. L’Esserci si fa “essenziale” nell’esistenza autentica che si costituisce in quanto decisione anticipatrice. La decisione anticipatrice non è che il fatto di accorgermi di essere un poter essere. In questo essere un poter essere anticipo perché il poter essere è sempre rivolto in avanti. Questo modo dell’autenticità della Cura implica la stabilità e la totalità originarie dell’Esserci. La messa in chiaro del senso ontologico dell’essere dell’Esserci deve aver luogo mediante uno sguardo concentrato ed esistenzialmente comprendente su tale totalità. Che cosa si cerca ontologicamente cercando il senso della Cura? Che significa senso? La ricerca ha incontrato questo fenomeno nel corso dell’analisi della comprensione e dell’interpretazione. In essa è risultato che “senso” significa ciò in cui la comprensibilità di qualcosa si mantiene, senza venire in luce esplicitamente e tematicamente. Senso significa ciò rispetto-a-cui ha luogo il progetto primario, ciò in base a cui qualcosa può esser concepito nella sua possibilità così com’è. Il progettare apre possibilità, ossia è tale da render possibile. Qualche chiarimento. Il senso, dice, è ciò in cui si mantiene la comprensibilità di qualcosa. Sappiamo che la comprensibilità è l’apertura. Quindi, si mantiene un’apertura verso qualche cosa. Il senso mantiene, quindi, l’apertura verso qualche cosa, l’apertura mantiene come possibilità. Potremmo dire che qualcosa ha senso per l’Esserci, per noi, se si mantiene l’apertura di una certa possibilità, quale non è essenziale. Heidegger dice che il senso è il mantenersi dell’apertura di una certa possibilità. Infatti, specifica che Senso significa ciò rispetto-a-cui ha luogo il progetto primario. Il progetto primario è il progetto che progetta la morte. E prosegue dicendo ciò in base a cui qualcosa può esser concepito nella sua possibilità così com’è. Qui sta tutta la questione. Il senso è mantenere aperta una possibilità. Quando diciamo che qualcosa ha senso, cosa stiamo dicendo, per Heidegger? Che rispetto a quella cosa si mantiene aperta una certa possibilità. Anche se non quale sia esattamente il senso… come dire, io vedo qualche cosa, non so esattamente che cosa sia propriamente, però, per me ha un senso, cioè so che ci sono delle possibilità rispetto a questa cosa, possibilità di qualunque tipo, non ha importanza quale. Se io vedo un pezzo del motore di un’automobile che non riesco a individuare, questo pezzo ha comunque senso per me perché so che ha delle possibilità, possibilità di essere un pezzo di un motore e, quindi, di avere delle funzioni, che magari io ignoro totalmente, però, so che questo aggeggio ha delle possibilità rispetto a una certa cosa. Quindi, questo aggeggio si mantiene aperto per me come possibilità, anche se non cos’è, a che cosa serve, ecc. Heidegger dice tutto questo in modo più complesso ma è questa la questione. Mettere in chiaro il rispetto-a-che di un progetto significa aprire ciò che rende possibile il progettato. Mettere in chiaro il rispetto-a-che di un progetto significa sapere che cosa sto progettando. Questa messa in chiaro richiede, quanto al metodo, un esame del progetto che, per lo più inesplicitamente, è alla base di un’interpretazione, affinché ciò che nel progettare è progettato si apra e risulti accessibile nel suo rispetto-a-che. (pagg. 384-385) Dice che questa messa in chiaro, questo vedere di che cosa si tratta nel progettato, tutto questo è alla base di un’interpretazione, non più solo della comprensione. La comprensione è l’apertura, l’interpretazione è ciò che è resa possibile dalla comprensione. Lui aveva invertito, vi ricordate… Generalmente, si pensa che ci sia prima un’interpretazione, dopo la quale so di che cosa si tratta e quindi comprendo. Per Heidegger no, c’è prima la comprensione, l’apertura, solo in seguito a questa apertura io posso interpretare qualcosa, cioè, chiedermi che cos’è quel pezzo del motore, che non sapevo che cosa fosse. Quando interpreto questa cosa, allora so ciò di cui si tratta. Delucidare il senso della Cura significa quindi: indagare il progetto che guida e fonda l’interpretazione originaria ed esistenziale dell’Esserci, in modo tale che, nel corrispondente progettato, si renda visibile il rispetto-a-che del progetto. Diciamola in modo molto semplice. Sta dicendo che intendere il senso della Cura, quindi questa apertura che mostra le possibilità, qualunque esse siano, comporta, dice lui, indagare il progetto che guida e fonda l’interpretazione, vedere quest’apertura, questa possibilità che io ho di fronte, in che cosa consiste esattamente, in modo che si renda visibile il rispetto-a-che del progetto. È una cosa banalissima, cioè, io indago per vedere rispetto a che cosa il mio progetto è un progetto di qualche cosa. Come dire, indago per vedere quel pezzo del motore della macchina in che cosa consiste, a che cosa serve, ecc. Però, se lo volgiamo, anziché al pezzo della macchina, all’Esserci… perché dice che il progettato è l’essere dell’Esserci. Qui la cosa si complica perché l’essere dell’Esserci è la Cura stessa. Il progettato è l’essere dell’Esserci che viene aperto in tutto ciò che lo costituisce come autentico poter-essere-un-tutto. Qui parla del progettato, non del progetto, cioè, ciò a cui mi rivolgo. Non il rivolgermi verso qualcosa ma ciò a cui mi rivolgo. Ciò a cui mi rivolgo, dice, è la Cura stessa, è l’essere dell’Esserci. Questa Cura, quindi, viene aperta in ciò che la costituisce come autentico poter-essere-un-tutto. Se io mi rivolgo al progettato e se intendo questo progettato come la Cura… non soltanto come il progettante, che è l’Esserci, il progettato è la Cura, ciò che rende l’Esserci quello che è, perché l’Esserci è soprattutto questo: il suo essere Cura nei confronti di qualcosa. Quale progetto può rendere l’Esserci un autentico essere un tutto? Lo sappiamo: la morte. Quindi, ciò di cui la Cura si prende cura autenticamente è la morte. Solo a questa condizione, come abbiamo già visto, può essere un tutto, nel senso che accoglie la morte anticipandola e facendola partecipare dell’Esserci. Il rispetto-a-che di questo progettato, cioè dell’essere così costituito e aperto, è ciò che rende possibile questa stessa costituzione dell’essere in quanto Cura. Questo progettato è sempre rispetto a qualche cosa, rispetto a un’intenzione, rispetto a quel che io voglio fare. Il rispetto a che dell’essere progettato, ciò che io voglio fare, è ciò che rende possibile questa stessa costituzione dell’essere in quanto Cura, cioè, ciò che io voglio fare è al tempo stesso l’Esserci, cioè io, il mio prendermi cura di qualche cosa e ciò di cui mi prendo cura. Tutte queste cose insieme non sono niente altro che l’essere dell’esserci, la Cura stessa. Non posso distinguere una cosa dall’altra, non posso distinguere l’Esserci dalla Cura, dal progettare e dal progettato, tutte queste cose sono l’Esserci, se ne tolgo una non c’è più nulla. Che cos’è ciò che rende possibile la totalità dell’insieme articolato delle strutture della Cura nell’unità della sua articolazione pienamente dispiegata? La sua articolazione dispiegata è l’agire di tutti questi elementi simultaneamente. A rigor di termini, senso significa il rispetto-a-che del progetto primario della comprensione dell’essere. L’essere-nel-mondo, aperto a se stesso, comprende cooriginariamente con l’essere dell’ente che esso stesso è anche l’essere dell’ente scoperto dentro il mondo, sebbene non tematicamente e anzi in maniera ancora indifferenziata nei suoi modi primari dell’esistenza e della realtà. L’essere-nel-mondo, l’Esserci, aperto a se stesso, aperto a se stesso significa che pone se stesso come una possibilità… comprende cooriginariamente con l’essere dell’ente che esso stesso è, essere nel mondo è l’essere dell’ente, è il significato dell’ente… oltre questo, dice, anche l’essere dell’ente scoperto dentro il mondo, quindi, il senso di una certa cosa scoperto in quanto soltanto possibilità, non ancora tematizzata, non è molto diverso da ciò che diceva prima: il senso come quell’apertura che mostra qualche cosa in quanto possibilità. Ogni esperienza ontica dell’ente, sia essa un calcolo ambientale dell’utilizzabile o una conoscenza scientifica positiva della semplice-presenza, si fonda in un progetto dell’essere dell’ente in questione, progetto che, di volta in volta, è più o meno trasparente. Questi progetti celano però in sé un rispetto-a-che, da cui per così dire la comprensione dell’essere trae alimento. Tutti questi progetti avvengono, direbbe Freud, a partire da fantasie, da fantasie che si connettono tra loro e costruiscono un desiderio di fare qualche cosa. Il rispetto-a-che, da cui per così dire la comprensione dell’essere trae alimento, se volete dirla con Nietzsche, è la volontà di potenza. È da questa che trae alimento il rispetto-a-che. Rispetto a che cosa voglio fare delle cose? Voglio comprendere, per che cosa? Come diceva Nietzsche, per la volontà di sapere come stanno le cose, per il bene comune, ecc.? No, è per la mia volontà di potenza. Il rispetto-a-che è sempre volontà di potenza. È da questo che la comprensione dell’essere trae alimento, dalla volontà di potenza. Quando diciamo che un ente “ha senso” significa che si è reso accessibile nel suo essere, essere che in quanto progettato nel suo rispetto-a-che è ciò che per primo “ha senso autenticamente”. L’ente “ha” senso soltanto se, in quanto essere anticipatamente aperto, è divenuto comprensibile nel progetto del suo essere, cioè in base al suo rispetto-a-che. Cosa vuol dire tutto questo? Nella prima frase ci sta dicendo che un ente ha senso quando si rende accessibile nel suo essere, ma questo suo essere trae alimento, per la sua comprensibilità, dalla volontà di potenza. La seconda frase è ancora più chiara. L’ente ha senso soltanto se, in quanto anticipatamente aperto come possibilità… dicevamo che il senso è l’apertura di possibilità, cioè io colgo delle possibilità in una certa cosa, solo a questa condizione quella cosa ha senso per me, e cioè se la posso utilizzare, ma la posso utilizzare per cosa? Per la volontà di potenza. Infatti, dice, L’ente “ha” senso soltanto se, in quanto essere anticipatamente aperto, è divenuto comprensibile nel progetto del suo essere, cioè in base al suo rispetto-a-che, è divenuto comprensibile in base al suo rispetto-a-che, cioè, alla sua volontà di potenza, cioè, ciò che io voglio farne e il motivo per cui ne voglio fare qualcosa. Per il mio superpotenziamento. Il problema del senso dell’essere di un ente ha come suo tema il rispetto-a-che… L’ha tematizzato. La comprensione è l’apertura a possibilità, possibilità a che cosa? Al suo rispetto-a-che della comprensione dell’essere che sta alla base di ogni essere dell’ente. Ciò, tirando un po' le cose, ci porterebbe ad affermare che il senso dell’essere dell’ente è la volontà di potenza. È quella che si pone come il rispetto-a-che di qualunque possibilità. Possibilità di farci che cosa? Rispetto a che? Conoscere la bontà, la bellezza? No, rispetto alla volontà di potenza.