18 settembre 2024
Plotino Enneadi
Siamo a pagina 1293. Dobbiamo forse interrogarci anche sugli dèi e chiederci se qualcosa dipenda da loro? /…/ Dobbiamo ricercare come si debba intendere questo “potere”… L’Uno può tutto. …affinché non ci accada di distinguere da un lato “potenza” e dall’altro “atto” e, per di più, un atto che ha ancora da venire. Perché nell’Uno potenza e atto naturalmente si identificano. A pag. 1295. Qui sta parlando del Bene. ...se gli impulsi secondo natura, o essi appartengono al vivente in quanto composto, e allora l’anima segue la necessità della natura; oppure, se essi appartengono all’anima sola, molti atti, considerati finora come liberi, non sarebbero tali. E poi, anche se un certo ragionamento puro semplice precede le passioni, allora una immagine che lo domini o un impulso che lo porti ovunque voglia, come ci lasceranno i padroni di noi stessi? Egli vive infatti secondo la conformazione che ha ricevuto dall’altro; in questo modo anche gli esseri inanimati potrebbero attribuirsi il libero arbitrio… Non sta parlando dell’Uno ma del vivente. Ma se al vivente, cioè all’anima, spetta il libero arbitrio, perché conosce ciò che fa, allora ciò avviene o per opera della sensazione: e allora Importanza ha questa aggiunta per il libro arbitrio? La sensazione, infatti, non può renderci padrone di un’azione, perché essa vede soltanto. A pag. 1303. Diventa sempre più evidente che è libero ciò che è immateriale e che ad esso si deve far risalire il libero arbitrio… Questo è importante, lo vedremo poi nella teologia medievale. …e che in esso consiste la volontà, la quale è la vera sovrana e rimane in se stessa anche quando essa ordini, per necessità, azioni esteriori. Tutto ciò che deriva da essa e per essa è libero arbitrio, sia che la volontà si volga al di fuori o resti in se stessa… E conclude: …essa (l’intelligenza) riposa nel Bene ed è priva di bisogni, è piena di sé e vive, diciamo così, secondo la sua volontà; la sua volontà è il suo pensiero, il quale è chiamato volontà perché è conforme all’Intelligenza: infatti si chiama volontà l’immagine di ciò che si conforma all’Intelligenza: ora la volontà vuole il Bene, e il pensare dell’Intelligenza è veramente nel Bene. L’Intelligenza, dunque, possiede quello che vuole la sua volontà, la quale, in quanto così lo raggiunge, diventa pensiero. Ciò che si vuole, di fatto, è il Bene, e questo è il libero arbitrio, perché non c’è qualcosa che costringa al Bene, ma è il Bene che in qualche modo è già presente. L’Intelligenza partecipa del Bene e, quindi, è come se fosse un processo naturale, non c’è nessuna costrizione: la volontà è del Bene, perché sappiamo che ciò che ciascuno vuole, alla fin fine, è il Bene, così almeno per Plotino. Quindi, Il libero arbitrio non è nient’altro che seguire il Bene. A pag. 1305. L’anima dunque diventa libera quando, senza alcun ostacolo, tende al Bene per mezzo dell’Intelligenza; ciò che essa fa per Lui dipende soltanto dal suo libero arbitrio. L’Intelligenza invece è libera per se stessa, mentre la natura del Bene è di essere “desiderabile” in sé,… Il Bene non può desiderare qualche cosa, non desidera niente. …e per Lui posseggono il libero arbitrio le altre cose, qualora possano o raggiungerlo senza ostacoli o possederlo. Come, dunque, il Bene che è sovrano di tutti gli esseri superiori che vengono dopo di Lui e occupa il trono eccelso al quale ogni altra cosa desidera risalire e al quale è sospesa, il Bene dal quale ogni cosa fra il suo potere fino ad avere il suo libero arbitrio, come possiamo tirarlo giù fino a quello che è il mio e il tuo arbitrio? Cioè, dove anche l’Intelligenza era stata trascinata con fatica e tuttavia con forza? A meno che qualche discorso temerario, venuto da un’altra scuola, affermi che solo per caso l’Uno sia quello che è… Per caso? …e che non sia padrone di essere quello che è, e che sia ciò che ciò che è non per se stesso, e che non possegga la libertà né il libero arbitrio, e che non dipenda da Lui il creare o non creare ciò che è costretto a creare o non creare. Questo discorso, rude e imbarazzante, distrugge completamente la natura dell’atto volontario e libero e persino il concetto di libero arbitrio, come se le nostre parole siano state dette invano e siano puri suoni di cose che non esistono: in questo modo si viene ad affermare che nulla dipende da nulla… Democratico. …ma perfino negare che si possa pensare o comprendere il senso di questa parola. Vero. Poi, dopo, faremo un discorso. Ma sopra questi esseri c’è il Bene in sé, e perciò è assurdo andare a cercare un altro Bene al di sopra di quello. E nemmeno è giusto dire che “Egli esiste per caso”, poiché il caso esiste soltanto nelle cose molteplici e secondarie; ma del Primo non possiamo dire né che esista per caso, né che non sia padrone del suo nascere, poiché Egli non è mai nato. Ed è assurdo dire che Egli non è libero perché crea conforme alla sua natura: è come sostenere che la libertà ci sia soltanto quando Dio crei o agisca contro natura. Un essere che possegga l’unicità non è privato per questo della sua libertà, purché questa unicità Egli non l’abbia a causa di un ostacolo esterno, ma sia identica alla sua stessa essenza… Capitolo 8, a pag. 1307. Noi vediamo che la libertà non è una cosa accidentale per Lui, ma, partendo dalla libertà che c’è negli altri esseri ed eliminando i contrari, osserviamo la libertà in sé: noi così trasferiamo a Lui le qualità inferiori che vediamo negli esseri inferiori, poiché non siamo in grado di cogliere ciò che dovremmo dire di Lui. Nulla, noi sapremmo trovare che lo riguardi… Teologia negativa, abbiamo detto varie volte. …tanto meno, poi, che sia attinente alla sua essenza. Tutto ciò che è bello e santo è posteriore a Lui, poiché di tutto questo Egli è il Principio… /…/ È necessario negare che egli abbia un qualsiasi rapporto con esse… Cioè, le cose a posteriori, ecc. …poiché Egli è quello che anche prima di esse. Gli togliamo infatti anche il termine “è” e, con esso, qualsiasi rapporto con gli esseri. Questo per dire che l’Uno è irrelato, non ha relazione con nulla. A pag. 1309. …dobbiamo dire che non è possibile che Egli, Principio di tutte le cose, sia qualcosa di accidentale… Ancora ce l’ha con questa storia, perché il fantasma di Democrito ancora aleggiava. Democrito non era molto ben visto. …né che sia inferiore, né che sia buono, non buono in sé ma in senso limitato, cioè manchevole; al contrario, il Principio di tutte le cose deve essere superiore a tutto ciò che è dopo di Lui. Su questo insiste continuamente: Lui è sempre superiore, qualunque cosa si pensi è superiore. Egli è, cioè, assolutamente determinato, e dico “determinato” in quanto è unico e non per necessità: la necessità infatti non ci fu allora, poiché la necessità esiste soltanto nelle cose che vengono dopo il Principio, del quale non esercita alcuna violenza su di esse; e l’unicità Egli la trae da se stesso. Questo Egli è e non altro, ed è ciò che doveva essere: dunque non per accidente, ma per necessità; e questa necessità è il principio di tutte le altre necessità. Quindi, qui, secondo Plotino, avrebbe detto perché esiste per necessità, ma non l’ha di fatto detto, l’ha soltanto affermato. A pag. 1317. Ma se è necessario adoperare queste espressioni che non sono esatte per la nostra indagine, diciamo ancora una volta che, rigorosamente parlando, non dobbiamo ridurlo a dualità nemmeno per astrazione logica. Se diciamo che l’Uno è qualche cosa, che è se stesso, già è una dualità. Se dunque gli attribuiamo degli atti e se i suoi atti si compiono, diciamo così, per mezzo della sua volontà, e su questi atti costituiscono la sua cosiddetta essenza, la sua volontà e la sua essenza saranno identiche. Ma allora, se è così, Egli è come volle. Perciò dire che “Egli vuole agisce secondo la sua natura” è come dire che il “suo essere corrisponde al suo volere e al suo agire”. Egli è dunque padrone di sé poiché il suo essere dipende dalla sua libertà. Lui non è altro che volontà. Il che potrebbe anche costituire un problema perché, se è volontà, è sempre volontà di qualche cosa che manca, perché se ce l’ho già non posso volerlo, ce l’ho. A pag. 1319. Non si può pensare un bene che sia privo della volontà di essere, per se stesso, ciò che è: Egli è perciò concorde con se stesso, in quanto vuole essere quello che è ed è quello che vuole, e la sua volontà e il suo essere sono una cosa sola, e tuttavia Egli non è meno unità, poiché non c’è differenza fra ciò che Egli si trova ad essere e ciò che voleva essere. Qui c’è un elenco di cose, ma che portano tutte alla teologia negativa, cioè non si può dire nulla dell’Uno. La natura del Bene è realmente la sua volontà: Egli non è sedotto né attratto dalla sua propria natura, ma sceglie liberamente se stesso, poiché non c’è nient’altro da cui Egli possa essere attratto. C’è solo quello. Non è neanche una scelta, c’è solo lui. Se dunque il Bene esiste ed esistono con Lui la scelta e la volontà, e se è necessario che Egli non sia molteplicità, dobbiamo ridurre ad unità la volontà e l’essenza. Egli possiede necessariamente il volere che deriva da Lui ed essere che deriva da Lui. Perciò il nostro ragionamento ha scoperto che Egli ha creato se stesso: se dunque la volontà deriva da Lui ed è, per così dire, opera sua, ed è inoltre identica alla sua esistenza, vuol dire che Egli stesso si è dato l’esistenza: non è dunque per caso ciò che è, ma è quello che Egli stesso ha voluto. Qui Plotino si arrampica sugli specchi. Questa cosa – l’Uno, che ha voluto lui essere – quindi, prima non c’era. Che cosa ha incominciato a esistere, per cui ha voluto essere? I problemi che sorgono sono enormi, e sono quei problemi che, vedremo, la teologia cristiana ha cercato di approcciare in qualche modo. Egli stesso si è dato l’esistenza. Come? Volendolo, dice lui. Certo, volendolo, ma per volere qualcosa deve già esistere. E allora come funziona questa cosa? A pag. 1333. Se ci fosse un tempo in cui Egli cominciò ad essere, non potremmo dire di Lui, in senso veramente rigoroso, che “Egli ha creato se stesso”; ma poiché Egli, prima ancora che ci fosse l’eternità, era quello che è, quando diciamo che “Egli ha creato se stesso”, intendiamo dire che l’“aver creato” e il suo “essere” sono la stessa cosa; cioè che su essere consiste nel suo creare e, diciamo pure, nel suo generare eterno. A pag. 1335. …Egli è nulla e non ha bisogno di nulla per sé; e tu, quando parli o pensi a Lui, elimina ogni altra cosa. Ma eliminando e tenendo per te soltanto “Lui”, non cercare ciò che potresti aggiungergli, ma vedi se per caso tu non abbia ancora eliminato qualcosa da Lui nel tuo pensiero. Poiché è possibile che tu sia in contatto con qualcosa che non permette che si dica o si comprenda più nulla. Egli, solo nella sua altezza è veramente libero, perché non è sottomesso nemmeno a se stesso, ma è soltanto Lui e veramente Lui, mentre ogni altra cosa è essa stessa e qualcosa d’altro. Quindi, essere in contatto con lui è l’unico modo per accedere a lui. Ma bisogna essere purificati. Siamo all’ultimo trattato della sesta enneade. Tutti gli enti sono enti per l’Uno, sia quelli che sono tali in primo grado, sia quelli che partecipano in qualche modo dell’Essere. Che cosa starebbero infatti se non fossero uno? Poiché nessuno di essi, privato della sua unità, non è più quello. Per esempio, non c’è l’esercito se non è uno, né sono il coro o il gregge se non sono uno; neppure la casa o la nave sono uno e, tolta l’unità, la casa non sarebbe più casa, né la nave più nave. Così le grandezze continue non sarebbero se in esse non fosse presente l’uno: infatti, se vengono divise, in quanto perdono l’unità, perdono il loro essere. Non è propriamente vero, però, qui coglie la questione dell’Uno: per parlare bisogna ridurre all’unità, ed è vero, ma questa unità rimane fatta di molti, inesorabilmente. Sì, certo, l’esercito è uno, ma, se togliamo questo uno, non c’è più l’esercito, è vero, ma se togliamo anche tutti i suoi membri? Togliamoli tutti, rimane l’esercito? Rimane niente. Quindi, l’esempio che fa può essere utilizzato tranquillamente contro di lui. A pag. 1339. Prima però si è detto che un essere, se perde la sua unità, cessa di esistere. Perciò bisogna esaminare se siano identici il singolo uno e l’essere, e se siano identici l’essere in generale e l’Uno. Ora, se l’essere singolo è molteplicità, ed è impossibile che l’Uno sia molteplice, l’uno e l’altro saranno differenti fra loro. “Uomo”, indubbiamente, vuol dire “animale”, “razionale” e molte altre cose, e questa molteplicità è tenuta insieme mediante l’unità: perciò altro è “uomo”, altro è “uno”, poiché il primo è divisibile e il secondo è indivisibile. La questione su cui insiste da sempre è quella di un uno che necessariamente deve essersi. In fondo, queste sono le ragioni per cui sostiene la presenza dell’Uno; perché ogni cosa per poter essere compresa deve essere unificata in un qualche cosa. È vero, ma questa unificazione …Gli esempi che fa sono pericolosi per lui, perché è come se dicesse che ogni volta questa unificazione unifica i molti; quindi, anche l’Uno è il risultato di molti. A pag. 1341. Ora, poiché noi andiamo cercando l’Uno e scrutiamo il Principio di tutte le cose, cioè il Bene è il Primo, non dobbiamo allontanarci dai primi esseri per cadere nelle cose ultime, ma dobbiamo elevarci ai primi, svincolandoci dalle cose sensibili che sono le ultime, e da qualunque malizia; proprio perché desiderosi di avvicinarci al Bene, dobbiamo salire al Principio che è immanente in noi e raccoglierci, via dalla molteplicità, nell’unità, per raggiungere la contemplazione del Principio e dell’Uno. Ci si raccoglie e, quindi, si contempla l’Uno. A pag. 1343. Appunto perché l’essenza dell’Uno è la generatrice di tutte le cose, essa non è nessuna di esse: perciò essa non è “qualcosa”, né è qualità, né quantità, né Intelligenza, né Anima; non è “in movimento” e nemmeno “in quiete”; non è “in uno spazio” né “in un tempo”; essa è in sé solitaria, tutta chiusa in se stessa, o meglio, è l’Informe prima di ogni forma, prima del moto, prima della quiete: poiché tali proprietà appartengono all’essere e lo fanno molteplice. Ma, se Egli non è in moto, perché non è nemmeno in quiete? Perché l’una di queste due alternative, o ambedue, aderiscono necessariamente solo all’essere; e poi, ciò che è inquiete è quieto in virtù della quiete ma non si identifica con essa: perciò quiete e moto gli aderirebbero solo per accidente, ed Egli non sarebbe più semplice. Anche quando lo riconosciamo come causa, non vuol dire che noi gli attribuiamo un accidente: questo termine vale solo per noi, in quanto noi abbiamo qualcosa da Lui, mentre Egli è sempre in se stesso. /…/ E le difficoltà ci si presentano soprattutto perché la conoscenza di Lui non si ottiene né per mezzo della scienza, né per mezzo del pensiero, come per gli altri oggetti dell’Intelligenza, ma per mezzo di una presenza che vale di più della scienza. L’anima, quando acquista la conoscenza di qualche cosa, si allontana dalla sua propria unità e non resta completamente una: la scienza, infatti, è un processo discorsivo, e codesto processo è molteplicità: perciò, una volta caduta nel numero e nella molteplicità, essa perde l’Uno. È dunque necessario oltrepassare la scienza e non deviare mai dall’unitarietà del nostro essere: è necessario allontanarsi sia dalla scienza, sia dai suoi oggetti e da ogni altra cosa, anche se sia bella da contemplare: perché ogni bellezza è inferiore all’Uno, come la luce del giorno deriva tutto dal sole. Perciò si dice che Egli è ineffabile e indescrivibile. E tuttavia noi parliamo e scriviamo per avviare verso di Lui, per destare dal sonno delle parole alla veglia della visione, come coloro che mostrano la strada a chi vuole vedere qualcosa. L’insegnamento può riguardare soltanto la via e il cammino, ma la visione è tutta opera personale di colui che ha voluto contemplare. Noi ti mostriamo la strada, ma poi sta a te aprirti all’Uno. A pag. 1345. Egli è presente, ma è presente soltanto a coloro che possono accoglierlo e che si sono preparati ad armonizzare e ad entrare in contatto con Lui in virtù di un’affinità di una potenza insita in Lui, consustanziale a ciò che da Lui deriva… La questione della consustanzialità la vedremo poi abbondantemente nella teologia medievale. …qualora questa potenza si conservi così com’era quando uscì da Lui, essi, allora, sono capaci di contemplarlo nel modo in cui Egli è, per sua natura, visibile. Se quello, dunque, non è ancora giunto lassù, ma se ne sta al di fuori a causa degli ostacoli che abbiamo menzionato o per la mancanza della ragione che lo guidi e gli sappia infondere una convinzione su di Lui, allora incolpi pure se stesso per tutti quegli impedimenti e cerchi di starsene solo, lontano da tutti. La colpa è sua. Se non partecipi dell’Uno, non raggiungi l’Uno ed è soltanto colpa tua. A pag. 1347. Concludendo, ciò che è anteriore a quanto v’è di più prezioso nel campo dell’essere, poiché necessario che ci sia qualcosa prima dell’Intelligenza, la quale vorrebbe essere una ma non lo è ed è appena uniforme - intendo dire che l’Intelligenza ha la forma dell’Uno perché per lei non c’è frazionamento ma è tutta raccolta in se stessa, senza divisioni e scissioni perché vicina a Lui, subito dopo di Lui, ed osò staccarsi, non so come, dall’Uno… Ecco, qui arriva la questione centrale: non so come. Cioè, tutto è sostenuto sulla processione dall’Uno all’Intelletto e all’Anima. Ora, qui ci dice esattamente come avviene questa processione. È chiarissimo: l’Intelligenza tutta raccolta in se stessa, senza divisioni e scissioni perché vicino a Lui, subito dopo di Lui ed osò staccarsi, non so come, dall’Uno. Non si sa come si è staccata dall’Uno, non si sa come. …quella meraviglia, che è anteriore all’Intelligenza, è veramente l’Uno. Egli non è “ente”, altrimenti l’Uno sarebbe predicato di un altro essere, mentre a Lui non si addice alcun nome; ma poiché è inevitabile dargli un nome, lo potremmo dire volgarmente, con una certa convenienza, “Uno”, non tuttavia nel senso che Egli sia prima un’altra cosa e sia “Uno” in un secondo momento. È difficile certamente conoscerlo per questa via, ma Egli è conoscibile piuttosto per mezzo della sua creatura, l’essere; ed è l’Intelligenza che porta all’essere. Dell’Uno è tale la natura da essere fonte delle cose migliori e potenza che genera gli esseri e tuttavia permane in se stessa, né si sminuisce nemmeno nelle cose che nascono da essa... A pag. 1349. In che modo lo diciamo Uno e possiamo adattare a Lui il nostro pensiero? Certamente, l’Uno va affermato di Lui come una unità maggiore di quella che non sia un’unità numerica o un punto geometrico. Nel campo matematico, infatti, l’anima, eliminando dal numero grandezza e molteplicità, va a finire in un termine minimo e trova una certa base in qualcosa di indivisibile che era nel divisibile ed è tutt’ora in altro; l’Uno invece non si trova in un altro, né si trova nel divisibile, e non è indivisibile come il termine della matematica; anzi, è il massimo di tutti, non per grandezza ma per potenza, anzi, è privo di grandezza proprio per la sua potenza; tant’è vero che gli esseri che vengono subito dopo di Lui sono indivisibili e indivisi, non per la loro massa ma per la loro potenza. Quindi, è grande per la potenza e non per la quantità numerica; per la sua potenza infinita, perché può tutto, perché lui continua a creare continuamente cose, come dirà tra poco. Bisogna concepirlo anche infinito, non perché sia interminabile in grandezza o in numero, ma perché la sua potenza non è limitata. Infatti, se tu lo pensi come Intelligenza o Dio, egli è da più; se lo raccogli in unità col tuo pensiero, allora Egli è uno ancor più di quanto possa rappresentarlo il tuo pensiero, poiché egli è in sé e per sé senza alcuna accidentalità. Quanto la sua autosufficienza, nessuno potrà negarne l’unità. Infatti, se fra tutti gli esseri Egli è il più dotato e il più autosufficiente, ne consegue che Egli non ha assolutamente bisogno di nulla. È molto preoccupato dell’idea che possa avere bisogno di qualcosa, cioè, che dipenda da qualche cos’altro, che cioè sia in relazione con qualcosa. A pag. 1351. In realtà, ciò che è bisognoso, è bisognoso in quanto tende al suo principio; ma se l’Uno è bisognoso, può cercare evidentemente questo soltanto: di non essere Uno. Sicché Egli avrebbe bisogno del suo distruttore! Se l’Uno è tutto completamente, l’unica cosa che può mancagli è non essere l’Uno. Cioè, l’unica cosa che gli manca, di cui potrebbe avere bisogno, è ciò che lo distrugge. È un po’ il discorso dell’essere e del non-essere, stessa cosa. Ma tutto ciò che noi chiamiamo bisognoso, è bisognoso di bene: ha bisogno, cioè, di chi lo conservi. Perciò nulla è bene per l’Uno e quindi non avrà voglia di nessun bene… Ecco il pericolo di volere ciò che lui non è, che sarebbe ciò che lo distrugge. Ma il bisogno è bisogno di bene; quindi, il problema è risolto. Perciò nulla è bene per l’Uno, e quindi non avrà voglia di nessun bene, anzi, Egli è Super-Bene, e non è bene per se stesso, ma è bene per gli altri esseri che possono parteciparne. Cioè, lui non si riconosce come bene, sennò ci sarebbe il due, e quindi la catastrofe. Infatti, a che cosa dovrebbe pensare? A se stesso? Ma allora, prima del pensiero, dovrebbe essere ignorante e dovrebbe ricorrere al pensiero per conoscersi, Egli che basta a se stesso! Perciò in Lui non ci sarà mai ignoranza, in quanto Egli non conosce né pensa se stesso: poiché l’ignoranza sussiste quando esiste un secondo essere e l’uno e ignora l’altro. Ma Colui che è solo non conosce nulla, e nemmeno ha qualcosa da ignorare; invece, essendo uno e con se stesso, non ha bisogno di pensare se stesso. Veramente, nemmeno dovremmo dire che Egli è con se stesso, se vogliamo conservare l’unità; dovremmo anche eliminare sia il pensare sia il conoscere, cioè il pensiero di sé e delle altre cose. Ci sta dicendo fra le righe, non lo dice esplicitamente, che se vogliamo pensare l’Uno, così come dovremmo pensarlo, non dobbiamo pensare niente. Si deve infatti porlo non nell’ambito del pensante, ma in quello del contenuto del pensiero: infatti, il contenuto del pensiero non pensa, ma è causa del pensare per altri. Ma la causa non si identifica col causato; eppure, la Causa di tutte le cose non è alcuna di esse. Perciò, non dobbiamo nemmeno chiamarlo Bene, Egli che lo elargisce, ma chiamarlo in tutt’altro senso Bene superiore agli altri beni. Perché non possiamo chiamarlo in assolutamente in nessun modo. A pag. 1357. Di fatto, noi non siamo ne scissi né separati da Lui, anche se la natura corporea si è insinuata in noi e ci ha trascinati con sé; anzi, se noi respiriamo e siamo conservati in vita, non è perché Egli ce l’ha donata una volta e poi si sia ritirato; ma Egli ce la dona perennemente, finché è ciò che è. Cioè, noi siamo perché Dio continuamente vuole che siamo, non è che ci ha creati e poi se n’è andato a fare altre cose; no, lui continua a volere che noi siamo, e noi siamo perché lui continua a volerlo. Inoltre, la vita vera è soltanto lassù, poiché la vita attuale senza Dio è una traccia di vita che imita la vita di lassù, mentre la vita di lassù è forza operante dell’Intelligenza; e mediante questa forza essa genera gli dei nel sereno contatto con Lui, genera la bellezza, genera la giustizia e la virtù. /…/ Infatti, il vivere quaggiù, fra le cose terrene, è “caduta”, “esilio”, “perdita delle ali”. A pag. 1359. Se l’uomo ignora questa esperienza, rifletta su questi amori terreni e si chieda che cosa voglia dire raggiungere ciò che si ama più di tutto il mondo, pensando che questi sono amori di creature mortali e caduchi, amori di fantasmi, poiché non sono ciò che è veramente amabile, né sono il nostro bene, né quello che andiamo cercando. /…/ Perché dunque l’anima non rimane lassù? Perché non è ancora uscita di qui completamente. Tempo verrà in cui la sua contemplazione sarà ininterrotta, senza che il corpo non la infastidisca più. Severino: tempo verrà in cui tutti gli astratti parteciperanno del concreto. Tuttavia, tale fastidio non riguarda la nostra virtù veggente, ma la parte superstite, la quale, quando il veggente è inoperoso nel contemplare, non lascia inattiva la scienza che si esercita in dimostrazioni, in argomentazioni e in un dialogare nell’anima; invece, il contemplare e il contemplante non sono più ragione, ma qualcosa di più grande della ragione, che vien prima della ragione e sovrasta la ragione, non meno della visione contemplata. L’Uno è al di sopra della ragione, chiaramente. A pag. 1361. È questo il significato della famosa prescrizione dei misteri: “non divulgare nulla ai non iniziati”: proprio perché il Divino non dev’essere divulgato, fu proibito di manifestarlo ad altri, a meno che questi non abbiano già avuto per sé stessi la fortuna di contemplare. Poiché, dunque, non erano due, ma il veggente era una cosa sola con l’oggetto visto, chi allora divenne tale quando si unì a Lui, se riuscisse a ricordare, possederebbe in sé un’immagine di Lui; egli però, in quel momento, era uno di per sé e non aveva in sé alcuna differenziazione né rispetto a se stesso, né rispetto alle altre cose; non c’era in lui alcun movimento, né collera, né desiderio erano in lui.... /…/ E invece, quasi rapito o ispirato, è entrato silenziosamente nella solitudine e in uno stato che non conosce turbamenti, e non si allontana più dall’essere di Lui, né più s’aggira intorno a sé stesso, essendo ormai assolutamente fermo, identico alla sua stessa immobilità. Egli ha trasceso ormai le stesse cose belle, anzi, ha trasceso il Bello stesso e il coro delle virtù: è simile a uno che, entrato nell’interno del penetrale, abbia lasciato dietro di sé le statue collocate nel tempio, quelle statue che, quando egli uscirà nuovamente dal penetrale, gli si faranno avanti per prime, dopo aver avuto l’intima visione e dopo essersi unito non con una statua, con un’immagine, ma con Lui stesso: quelle statue che sono, dunque, di secondo ordine. Quella però non fu una vera visione, ma una visione ben diversa… /…/ Tutto ciò è soltanto un’immagine, un modo allusivo, di cui si servono i profeti sapienti per indicare come il Dio supremo va contemplato; ma un saggio sacerdote che comprende l’allusione, può giungere alla vera visione solo che entri all’interno del penetrale. Anche se non vi entra, cioè se pensa che questo penetrale sia qualcosa di invisibile, la sorgente e il Principio, egli sa tuttavia che solo il Principio vede il Principio e che sono il simile si unisce al simile; e non trascurerà alcuno degli elementi divini… /…/ L’anima, infatti, non può mai arrivare al non-essere assoluto: se scende in basso, scende al male, e cioè verso il non-essere, ma non al non-essere assoluto; invece, se corre sulla via opposta, giunge non ad un altro ma a se stessa; e così, poiché non è in un altro, non può essere nulla ma solo in se stessa; ma “essere in se sola e non nell’essere” vuol dire “in Lui”; e contemplante diventa non essenza, ma “al di là dell’essenza”, poiché si unisce a Lui. Se uno si vede già trasformato in Lui, egli possiede dunque in sé un’immagine di Lui e se passa da sé, che è copia, all’originale, ha toccato finalmente il termine del suo viaggio. Ma se decade dalla contemplazione, egli può risvegliare la virtù che è in lui e, meditando sul suo ordine interiore, ritroverà la sua leggerezza e salirà all’Intelligenza sulla via della virtù e, mediante la saggezza, a Lui. Questa è la vita degli dei e degli uomini divini e beati: distacco dalle restanti cose di quaggiù, vita che non si compiace più delle cose terrene, fuga da solo a solo. Bene, questo è quanto aveva da dirci Plotino e che noi abbiamo ascoltato. Plotino ci ha detto tutto ciò che dovevamo sapere. C’è una cosa, però, ne parleremo, sulla quale stavo riflettendo. Plotino è come se avesse modellata una logica, in un certo senso. Questi passaggi, l’Uno, l’Intelletto, l’Anima, dice Plotino che non sa come si passa, però, c’è la processione; c’è la processione perché ciascuno in qualche modo appartiene all’altro. Questo è il modo della logica neoplatonica… Non so neanche se esista, se sia mai stata prevista da qualcuno una logica neoplatonica, perché i neoplatonici non è che si occupassero di logica propriamente, però, Plotino in fondo l’ha giustificata, l’ha sostenuta, perché questo passaggio, di cui parla Aristotele, dall’antecedente al conseguente, cioè dall’uno al due o dall’Uno all’Intelletto, Aristotele ci dice che non è garantito da niente. Plotino lo garantisce attraverso la processione, attraverso, potremmo dire, l’emanazione anche se non è il termine esatto che usa lui. Quindi, questo passaggio inferenziale dall’uno all’altro è garantito dalla processione, perché ciascuno di questi elementi appartiene all’altro. Cioè, lui aggira tutta la questione, che con la quale si scontra Aristotele, rilevando che di fatto non c’è modo di uscirne se non attraverso quella famosa parola, ύμάρχειν, un comando. Per Plotino, invece, c’è questa continua appartenenza dell’uno al due, cioè, dall’uno procede il due per emanazione, dall’uno e dal due procede il tre, sempre per emanazione, per processione. Non c’è più bisogno dell’inerenza, dell’appartenenza di cui parlava Aristotele, che costituiva un grosso problema, perché chi garantisce che A inerisca a B? Soltanto io che lo stabilisco, è così e basta. Invece, in Plotino tutto quanto si svolge a partire dall’Uno; è come se l’Uno, essendo il Bene, producesse anche il due, il tre, il quattro, il cinque, il sei, ecc.
Intervento: Che non abbia sentito la necessità di sviluppare una logica è coerente con quanto dice, perché poi, di fatto, è un testo di retorica… Se fosse stato più logico sarebbero nati i problemi.
Sì, lui da una parte cancella la logica, quella di Aristotele, dall’altra la sostiene, la giustifica, quasi la santifica, perché dall’uno si procede al due, cioè, dall’antecedente si procede al conseguente, come se il conseguente naturalmente appartenesse all’antecedente, e questo giustifica il passaggio dell’inferenza. Questa questione della logica, chiamiamola così, perché non esiste una logica neoplatonica, fa pensare a una questione interessante, e cioè che forse è il caso, magari mercoledì prossimo, di parlare di logica. Perché la logica è quella cosa che ciascuno utilizza per costruire le sue fantasie. Cominciando a porre delle definizioni intorno alla logica formale e alla logica modale, le due logiche di Aristotele. L’idea che mi è balenata è che la logica formale e la logica modale siano due momenti dello stesso, cioè, che non possa darsi l’una senza l’altra. Mercoledì vediamo di approfondire un po’ la questione, perché forse merita di essere accennata. Dopodiché, Porfirio, naturalmente, con L’Isagogé, l’introduzione alle categorie di Aristotele.