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18 settembre 2019

 

Fenomenologia dello spirito di G.W.F. Hegel

 

Siamo a pag. 249 (69). Volgendosi ora in se medesima… Sta parlando dell’autocoscienza. …e dirigendosi al concetto che è effettuale in quanto anche libero, l’osservazione trova anzi tutto le leggi del pensare. Questo è l’obiettivo della scienza: si accorge di pensare e vuole trovare le leggi di quel pensiero. Questa singolarità che non è altro se non il pensare in lui stesso, è l’astratto movimento del negativo,… Dicendo che è l’astratto movimento del negativo Hegel ci dà a intendere che questa singolarità del pensare non è altro che un’astrazione. Qui “astratto” potete intenderlo come lo poneva Severino: isolare un elemento dal racconto in cui è inserito e per cui esiste. Per esempio, se io voglio trovare le leggi del pensiero, mi trovo in una posizione particolare, e cioè devo considerare il pensiero come oggetto del pensiero. È come se in qualche modo dovessi astrarre il pensiero e, quindi, questo astratto movimento del negativo non è altro che l’astrazione di ciò che è negativo rispetto al mio pensiero, cioè il pensiero del pensiero. …movimento riattratto interamente nella semplicità; e le leggi sono al di fuori della realtà. Si immagina che queste leggi siano al di fuori della realtà. Intanto, la realtà per Hegel, come sapete, è il vero, cioè il concreto, l’intero. Infatti, dice “Il vero è l’intero e l’intero è vero”. La questione che interessa a Hegel in questo capitolo sulla ragione osservativa è che cosa accade nell’osservazione, o meglio, che cosa la rende possibile. È chiaro che da tutto ciò che ci ha detto fino adesso l’osservazione comporta dei problemi. Il problema principalmente è che per osservare devo astrarre dal concreto quell’elemento che osservo. Per osservare la lampada devo astrarla da quella proposizione che dice “questa lampada che è sul tavolo”, devo considerare questa lampada per sé. Quindi, che cosa accade per Hegel? Accade che in questa astrazione mi trovo a dovere stabilire delle leggi, quindi, un universale, da applicare poi al singolare, all’evento, all’immanente, a ciò che accade. Quindi, da una parte una legge, un universale, un estremo; dall’altra parte, l’altro estremo, e cioè l’immanente, ciò che accade. Voglio che ciò che accade rientri dentro una legge. La domanda che si pone Hegel è se questo sia possibile; la risposta che dà è no. Non è possibile nel senso che hegelianamente questi due estremi, questi due lati, il singolare e l’universale, devono rimanere separati, perché la legge è universale, non può ovviamente essere il singolare; si tengono separati proprio per questo. Adesso trascendo un po’ Hegel, ma il problema è che per trovare una legge devo mantenere separati l’universale dal singolare nel tentativo di trovare una legge universale che renda conto del movimento del singolare. Ma, sempre hegelianamente, il movimento, che Hegel chiama dialettica e che consente l’esistenza sia del singolare sia dell’universale, è propriamente ciò che impedisce di mantenere separati i due elementi. Questi due elementi, questi due estremi, sono in una relazione tale per cui non può darsi l’uno senza l’altro. Ma qui vedete subito che ciò che dice Hegel contrasta immediatamente con tutti i principi dell’osservazione perché, se non può darsi l’uno senza l’altro, non posso astrarre l’uno dall’altro, non posso tenerli separati, perché così facendo nego il movimento dialettico, cioè, nego la possibilità che un elemento possa essere se stesso. Cercando una legge che vincoli il singolare all’universale, devo trovare un qualche cosa che si applichi universalmente al singolare, ma, se si applica universalmente al singolare, per Hegel, nel momento in cui io pongo il singolare pongo anche immediatamente il suo opposto, che in questo caso sarebbe l’universale. Quindi, perché ciò che accade sia effettivamente qualcosa che accade è necessario che il per sé, il significato di questa cosa, ritorni sull’accadere modificandolo e dando a questo accadere un significato. Ma, se tengo separate le due cose, e sono costretto a farlo se voglio porre una legge universale, ché non posso sovrapporla all’evento, non possono essere la stessa cosa, non può l’uno ricadere sull’altro, la legge universale deve rimanere separata dall’evento. È questo il problema dell’osservazione, che tenta proprio questo, e cioè di mantenere separate le due cose ma poi, una volta tenute separate, si trova nella condizione di non potere attribuire una relazione necessaria tra le due, e non c’è una relazione necessaria perché le ha tenute separate. A pag. 256 (78). Viene allora a cadere quell’essere che sarebbe in sé e per sé e che dovrebbe costituire l’un lato di una legge, e precisamente il lato universale. L’individualità è ciò che è il suo mondo in quanto mondo suo;… Qui sta ponendo la differenza tra individualità e universalità. …è essa stessa il circolo del proprio operare, circolo in cui essa si è rappresentata come effettualità; e, senz’altro, è soltanto unità dell’essere in quanto già dato, e dell’essere in quanto costruito; unità i cui lati non cadono l’uno fuori dell’altro;… In questa unità tra le due cose, poste hegelianamente, chiaramente i due lati non cadono uno fuori dell’altro in quanto partecipano entrambi del movimento dialettico. …il che invece avveniva nella rappresentazione della legge psicologica, - come mondo dato in sé , e come individualità essente per sé; ossia, considerando questi lati ciascun per sé, non sussiste necessità né legge alcuna del loro rapporto reciproco. Se li considero separati, e devo farlo, non c’è nessuna necessità del loro rapporto reciproco. Pag. 264, (89). Hegel considera tre aspetti riguardo all’osservazione: le leggi psicologiche, la fisiognomica e la frenologia. Non le considereremo separatamente in quanto la questione che si pone è la stessa. L’individualità… Considera sempre l’individualità contrapposta all’universalità. …L’individualità abbandona quell’esser-riflesso in sé che è espresso nei tratti,… Questa è la fisiognomica, i tratti del viso, ecc. …e pone la propria essenza nell’opera. Qui inserisce un elemento importante: l’opera, il fare. L’individualità contraddice allora a quella relazione che viene stabilita dall’istinto della religione, allorché esso si mette a osservare l’individualità autocosciente per ricercare ciò che debba essere l’interno o l’esterno di lei. Sappiamo che pone l’interno come l’essenziale e l’esterno come inessenziale, pur essendo ciò che si mostra. Questo punto di vista ci conduce al pensiero tipico che sta a base della scienza fisiognomica, - se pur di scienza si possa parlare. L’opposizione alla quale questo osservare è riuscito, e, secondo la forma, l’opposizione di pratica e di teoretica, poste tuttavia entrambe entro la pratica stessa; - è l’opposizione dell’individualità attuantesi nell’azione… Ciascuno agisce, fa delle cose, e in questo c’è l’individualità, riguarda l’individuo, non c’è una legge universale. …e dell’individualità stessa, a quel modo ch’essa, svincolatasi in pari tempo dall’azione, si riflette in se stessa in guisa che l’azione le divenga oggetto. Qui incomincia a porre una questione importante, che poi svilupperà ulteriormente nel corso di tutta la Fenomenologia: l’opera, il fare. Tutta la filosofia di Hegel è una filosofia pragmatica, non c’è nulla di intellettualistico nel pensiero di Hegel, ma è tutto volto a considerare il fare, l’agire, perché è questo che conta. Come dire che il vero che attiene a una persona, a una individualità, è nel suo fare, nel suo operare. A questo osservare, l’operazione stessa e l’opera, - sia del linguaggio, sia di un’effettualità maggiormente consolidata, - hanno il valore dell’esterno inessenziale… Questo osservare cerca tratti che permangono e, quindi, non può propriamente fissarsi sull’opera. L’opera è qualcosa che si effettua qui e adesso, mentre l’osservazione cerca ciò che permane per poterne stabilire delle leggi universali. …mentre l’esser-entro-sé dell’individualità ha quello dell’interno essenziale. C’è sempre questo aspetto nell’osservazione: l’interno e l’esterno, dove l’esterno dovrebbe rendere sempre conto dell’interno. Tra i due lati che la coscienza pratica ha in lei (l’intenzione e l’operazione, l’opinione circa la propria azione e l’azione stessa)… C’è una differenza tra ciò che penso di ciò che faccio e ciò che faccio. Questo anche Freud, molti anni dopo, lo aveva colto: io dico di non volere fare una certa cosa ma poi la faccio. Ciò che conta per Hegel, così come anche per Freud, non è tanto quello che dico ma ciò che faccio. Se io dico di non volere fare una certa cosa e poi continuo a farla ininterrottamente, è questo mio fare che importa. Non è lontano da ciò che diceva Freud rispetto al diniego, quando diceva “ho sognato una donna ma non era mia madre”. Importa, certo, il fatto che lo neghi ma ciò che conta è la presenza della madre nel suo discorso. Ciò che dunque l’osservazione ha a suoi oggetti è un’esistenza opinata; ed ivi l’osservazione trasceglie delle leggi. Ciò che l’osservazione pone come prioritario è qualcosa che ha un’esistenza opinata, cioè, io penso che sia così ma, siccome ho scartato l’opera, il fare, non mi resta che ciò che penso del fare; assumo quello che penso del fare come la parte prioritaria, cancellando, quindi, l’opera. A pag. 268. L’operazione è questo, e la creatura umana individuale è ciò che è l’operazione; nella semplicità di tale essere l’uomo, per altri uomini, è un’essenza universale nell’elemento dell’essere, e cessa di essere essenza puramente opinata. Diventa quello che è in base al fatto che fa certe cose, quindi, gli altri vedono che fa certe cose, indipendentemente da quello che dice. Nell’operazione l’uomo non è posto come spirito; ma dacché si tratta del suo essere come essere, e dacché, da una parte, un essere duplicato, - quello della figura e quello dell’operazione, ciascuno dei quali deve essere l’effettualità umana, - si contrappone, ecco che come genuino essere dell’uomo devesi affermare solo l’operazione, - non la figura la quale dovrebbe esprimere ciò ch’egli opina rispetto alle proprie operazioni o ciò che si opinerebbe ch’egli abbia la sola possibilità di fare. Hegel sta dicendo che quello che importa è quello che la persona fa, è il suo agire. Questo pone l’accento per Hegel sulla questione del fare, dell’operazione. L’operazione è, sì, qui posta come un operare in termini generali, però ci sta anche dicendo tra le righe che questo operare non è altro che l’operare del linguaggio, facendosi, dicendosi. Ciò che importa è ciò che il linguaggio fa, è con questo che ci si confronta continuamente. Che cosa fa il linguaggio? Lavora: il famoso passaggio dal significante al significato, dove il significato è il lavoro che consente al significante di essere quello che è. Quindi, questa opera, questo lavoro – che poi Marx riprenderà in tutt’altro modo, naturalmente – è fondamentale per Hegel, è il perno di tutta la sua filosofia, di tutto il suo pensiero, dove si tratta di intendere, per quanto ci riguarda, come questo operare non sia altro che l’operare del linguaggio, il lavoro del linguaggio. Parlando di lavoro del linguaggio parliamo del suo funzionamento, ovviamente; l’opera del linguaggio è il suo funzionamento, è il modo in cui sta funzionando qui e adesso. A pag. 269. Lo smembramento di questo essere in intenzioni e simili finezze, per cui l’uomo effettuale, ossia la sua operazione, si dovrebbe spiegare ritornando all’opinato essere, quali si siano le intenzioni ch’egli potrà fabbricarsi a proposito della sua effettualità, deve venir lasciato all’oziosità dell’opinare; oziosità la quale, quando mettendo in pratica la propria inerte saggezza, neghi il carattere della razionalità a chi agisce e lo maltratti affannandosi a spiegare come l‘essere di lui sia on l’operazione, ma la figura e i tratti, merita di provare l’efficacia della replica già rammentata che le dimostrerà come qualmente la figura, lungi dall’essere un in-sé, sia invece un oggetto da toccar con mano. Sta dicendo che è inutile cercare nella intenzione un qualche cosa che non ha a che fare con ciò che una persona fa, come dire: “sì, ha fatto questo ma voleva fare un’altra cosa”. Anche Freud, se ci pensate, tiene propriamente conto di questo. Prendete l’atto mancato: non volevo fare questo, ma l’ho fatto. Hegel sta dicendo che è questo che importa: ciò che io faccio. Ciò che io faccio è ciò che io sono; propriamente, potremmo dire che io sono ciò che faccio. Ma il fare precipuo è il dire; quindi io sono ciò che dico, quindi, ciò che penso; sono questa effettualità continua del mio dire, questo effettuarsi ininterrotto della parola. Questa è la questione principale per Hegel su cui baserà anche tutta la sua etica e anche l’estetica. Questa opera, che è l’operare del linguaggio, è propriamente ciò che a noi interessa di più. L’operare del linguaggio, vale a dire, ponendo un elemento si pone anche il suo opposto, cioè, il suo significato, perché il significato, nonostante sia ciò che rende il significante quello che è, comunque si oppone al significante; quindi, il significante trae la propria essenza da ciò che propriamente il significante non è. Il che rende conto bene del funzionamento del linguaggio: ciascuna cosa è quella che è in virtù del fatto che non è quella che è. Questa opposizione, se ci pensate bene, non è poi così lontana da ciò che diceva Eraclito rispetto al πόλεμος (polemòs), tradotto generalmente con guerra, ma è l’opposizione, la contrapposizione, l’antitesi. Eraclito diceva che il πόλεμος è il padre di tutte le cose, cioè questa contrapposizione tra ciò che è e ciò che fa, vale a dire, ciò che quella cosa non è; è questa cosa che non è che fa della prima cosa quella che è. Questo è il πόλεμος, l’opposizione, che poi non è altro che la distanza che il linguaggio instaura. Andiamo a pag. 287. La questione è sempre la stessa, e cioè il fatto che l’osservazione tenta di stabilire delle leggi universali tra due cose che, per poterle considerare, deve tenere separate, ma tenendole separate non può trovare nessuna legge che le metta in relazione, perché ciò che evita è proprio la relazione, ciò che invece Hegel ha instaurato: la relazione tra i due elementi è ciò che fa l’intero, è ciò che fa l’unità, ciò in cui consiste il concreto, e potremmo dire che il concreto è l’opera, è il fare. Quando io dico “questa lampada che è sul tavolo”, questo mio dire è l’intero, nel senso che metto in atto questo racconto, questa cosa che funziona come un’unità, appunto come un intero, che poi io lo smembro nei vari elementi che lo compongono, gli astratti.

Intervento: Non è possibile, allora, stabilire la legge universale di un fenomeno?

Per Hegel propriamente no. Per Hegel questa legge universale rimane sempre e comunque qualcosa che è riferito a un elemento che, sì, può accadere, certo, ma potrebbe anche non accadere ciò che la legge universale stabilisce. Questo lo aveva già discusso precedentemente, ogni legge universale è posta per induzione: tutte le mattine sorge il sole, ma questo non offre certezza, domattina sorgerà il sole? Sì, lo speriamo tutti, ma non possiamo stabilirlo come una certezza. Quindi la legge universale ha sempre questo limite: è induttiva; muove da elementi singoli, dalla singolarità, per imporre una universalità. Ma questa universalità – è questo il discorso che fa Hegel – non toglie mai la singolarità, non riesce a toglierla, come, invece, accade nella dialettica; non riuscendo a toglierla rimane la singolarità a fianco della universalità, cioè, l’universalità è sempre debitrice della singolarità; quindi, è una universalità sui generis, che non offre la certezza assoluta.

Intervento: Mi pare da avere inteso che la scienza debba isolare l’oggetto dal mondo che lo fa esistere. Hegel dice che l’oggetto non è conoscibile se isolato, separato dal mondo, cioè dalla relazione che fa essere quell’oggetto quello che è.

Certo. Quello che appare, il fenomeno. È esattamente quello che diceva Severino: il fatto che ciascun elemento è quello che è in una relazione. Per es. “la lampada che è sul tavolo”: “la lampada che è sul tavolo” è “la lampada che è sul tavolo” perché non è la lampada ma è “la lampada che è sul tavolo”, cioè è inserita all’interno di questa proposizione. All’interno di questa proposizione questa lampada è una certa cosa, se io la astraggo, come fa la scienza…

Intervento: Se io la astraggo io non posso comunque considerarla perché va bene che non è “questa lampada che è sul tavolo” ma è comunque una lampada che è inserita in un altro intero.

Esattamente. Diciamola così: è inserita in un altro racconto.

Intervento: Si potrebbe dire che l’astrazione pura non esiste…

È quello che ci dice qui Hegel rispetto all’osservazione. L’osservazione vorrebbe l’astrazione pura: io osservo quella cosa per quello che è quella cosa, indipendentemente da tutto ciò… La stessa cosa fra cinque minuti non è più la stessa cosa, perché il mondo che la fa esistere nel frattempo è cambiato: io mi sono spostato da qui e mi sono messo qua, il mondo è cambiato. A pag. 287 (11). Da tal mutevole linguaggio ritornata alfine al saldo essere, l’osservazione, secondo il proprio concetto, proclama che non come organo, non come linguaggio e segno, ma come morta cosa l’esteriorità costituisce l’effettualità esterna e immediata dello spirito. La cosa non è più viva, nel senso che non è più inserita all’interno del racconto in cui questa cosa esiste, che la fa vivere, perché relazionata con infinite altre cose. Per osservare, è come se si dovesse uccidere la cosa, toglierle la vita. Il che naturalmente comporta nell’osservazione la necessità di sbarazzarsi di tutto ciò che fa vivere una cosa, ma la cosa è viva nel senso in cui questa cosa partecipa di tutte le cose che la circondano e che la fanno essere quella che è. È viva nel senso che muta continuamente; come dicevo prima, basta un movimento e il mondo cambia.

Intervento: Lo aveva già detto Hegel: se stabilisco una cosa la faccio morire, non si muove più.

No, non ha più relazione con niente. Il che è vero, perché se io isolo un elemento linguistico, per osservarlo, - che è quello che poi fa la linguistica – questo elemento è morto, non c’è più. È quello che trova Trubeckoj quando considera il fonema: dice che “p” esiste nella sua esecuzione, cioè in quanto viva, ma “p” in quanto tale non c’è, non esiste: non c’è da nessuna parte “p”. Dalla prima osservazione della natura inorganica fu superata la posizione secondo la quale il concetto dovrebbe esser dato come cosa; ora invece l’ultimo modo dell’osservazione ripristina quella posizione in quanto essa riduce a cosa l’effettualità stessa dello spirito… L’effettualità stessa dello spirito è quella che prima vi indicavo come la vita della cosa, che è viva in quanto inserita in un racconto, in quanto mutevole continuamente. …o, per esprimerci inversamente, in quanto essa dà al morto esserci il significato dello spirito. Così l’osservazione è giunta ad enunciare ciò ch’era il nostro concetto di lei: che cioè la certezza della ragione cerca se stessa come effettualità oggettiva. Ciò che la ragione, l’osservazione, cerca, lo trova in se stessa, cioè, nella ragione che osserva; lì trovo ciò che cerco. Io voglio sapere tutto di questo aggeggio, quindi, lo osservo; ma che cosa osservo? In questo mio osservare c’è il mio mondo, come direbbe Heidegger. Quindi, in questa cosa che osservo, se c’è il mio mondo, io mi trovo a osservare il mio mondo. Osservando il mio mondo non faccio altro che osservare me. Siamo a pag. 288. Qui riprende la questione dell’autocoscienza infelice, del discorso religioso. L’autocoscienza infelice alienava la sua indipendenza e lottava fino a tradurre il suo esser-per-sé in cosa. Così essa da autocoscienza ritornava a coscienza,… Rinunciava, cioè, all’autocoscienza, alla consapevolezza di sé, offrendosi totalmente a Dio e, quindi, ritorna a coscienza, a qualcosa, cioè, che non ha coscienza di sé. …ma ciò che è cosa è l’autocoscienza; - essa è dunque l’unità dell’Io e dell’essere: la categoria. Essendo l’oggetto determinato così per la coscienza, questa ha razionalità. Se l’oggetto è determinato per la coscienza vuole dire che è razionale, senza la razionalità la coscienza non determina niente. La coscienza, non meno dell’autocoscienza, è in sé propriamente ragione;… Qui torniamo alla vecchia questione, e cioè che sia la coscienza che l’autocoscienza sono in quanto già inserite nella ragione; la ragione non è l’ultimo elemento di un percorso che porta dalla scemenza fino alla ragione; no, la ragione è già da prima, è la condizione perché possa innescarsi tutto il processo. Se volete dirla con Heidegger, ciascuno nasce già nel linguaggio. Perché qualunque cosa possa accadere, io devo già essere nel linguaggio o, per dirla con Hegel, devo già essere nella ragione, sennò non c’è coscienza né autocoscienza, non c’è niente. …ma soltanto di quella coscienza cui l’oggetto si è venuto determinando come categoria può dirsi che sia fornita di ragione;… Se è determinato allora è ragione, ma se non è determinato non è niente. …ciò non pertanto resta ancora ben distinto il sapere che cosa sia ragione. Occorre riflettere bene su che cosa sia ragione. La categoria che è l’unità immediata dell’essere e del Suo… Qualcosa è ed è quello che è per sé. …deve percorrere entrambe queste forme; e la coscienza osservativa è appunto ciò cui la categoria stessa si presenta nella forma dell’essere. Nel suo resultato questa coscienza esprime come proposizione ciò di cui essa è l’inconsapevole certezza; esprime quella proposizione che è insita nel concetto della ragione. La coscienza, come dice lui, esprime come proposizione ciò di cui essa è l’inconsapevole certezza. Qualunque cosa esprima una proposizione è ciò che è già certezza per la coscienza, nel senso che l’unica certezza che ha è quella di essere pensante, di essere coscienza. Naturalmente, sa di essere coscienza, e questo la porta all’autocoscienza, ma tutti questi momenti sono momenti di un intero, non c’è prima uno e l’altro dopo. È chiaro che Hegel ha fatto un percorso dove prima parla di una cosa e poi di un’altra, perché non si può parlare di tutti simultaneamente, però ha mostrato come tutti questi elementi intervengano simultaneamente, e cioè che l’ultimo elemento, l’arrivo, è il primo, è la condizione perché tutto il percorso possa avviarsi. Tale proposizione è il giudizio infinito secondo il quale il Sé è una cosa, giudizio che toglie se medesimo. Questa proposizione, dice, è il giudizio infinito perché è continuamente mediato da qualche cosa. Non è immediato, non ha immediatamente accesso alla cosa, ma è mediato, per esempio, dal linguaggio, è mediato da una serie di altre proposizioni; infatti, è un giudizio infinito, perché non si ferma mai. Questo giudizio infinito è un giudizio che toglie se medesimo: per potere giudicare qualche cosa, questo giudizio deve togliersi a un certo punto, sennò non si ferma mai; quindi, deve dire a un certo punto che è così, sennò si va avanti all’infinito. Il momento di quel giudizio infinito è il passaggio della immediatezza nella mediazione o negatività. Questo giudizio infinito non è altro che il passaggio dell’immediatezza della sensibilità - che coglie qualche cosa ma che ancora non sa che sta cogliendo qualche cosa, pur cogliendo qualche cosa - nella mediazione o negatività. La negatività non è altro che la mediazione stessa, vale a dire, il tenere conto che una cosa è quella che è in virtù di altro, mentre la immediatezza immagina che qualche cosa sia quello che è in virtù di se stessa. L’oggetto dato è perciò determinato come oggetto negativo; ma, di contro ad esso, la coscienza è determinata come autocoscienza. Una volta che io pongo l’oggetto pongo anche qualche cosa che si oppone all’oggetto, ma a questo punto la coscienza si determina come autocoscienza, cioè sa che c’è del negativo nell’oggetto, che va tolto, ma facendo tutte queste operazioni si rende conto di ciò che è, cioè autocoscienza, sapere di sé, il famoso “Io sono Io”. Ovverosia la categoria che nell’osservare ha percorso la forma dell’essere, è posta ora nella forma dell’esser-per-sé;… Passa dall’essere puro, semplice, all’essere-per-sé, cioè, dal significante al significato. …non più la coscienza si vuole immediatamente trovare, anzi vuol produrre se stessa mediante la sua attività. Essa è a se stessa il fine del suo operare, così come nell’osservare era tutta dedita soltanto alle cose. Ciò che “alla fine” la coscienza trova… non è tanto se stessa che vuole trovare, per potersi definire, per potersi osservare, ma ciò che trova è se stessa che sta facendo tutte queste cose, cioè, trova se stessa in quanto fine del suo operare. Tutte queste operazioni non sono nient’altro che un operare continuo del linguaggio. E, allora, potremmo dire che il linguaggio, se volessimo osservarlo con estrema attenzione, come abbiamo fatto in questi anni, alla fine troveremmo, come abbiamo trovato, che ciò che fa il linguaggio è produrre se stesso all’infinito, cioè, linguaggio che si producendosi ininterrottamente. È questo che troviamo, così, come ci dice Hegel, la coscienza, che si ritrova come autocoscienza, a questo punto l’oggetto che vuole indagare, e cioè se stessa, e la porta a prendere atto del fatto che in questa operazione non fa altro che produrre se stessa. Quindi, potete vedere la stretta connessione fra ciò che dice Hegel e il funzionamento del linguaggio. In effetti, è come se avesse riassunto in un certo qual modo, anche se non era sua intenzione farlo, il percorso che abbiamo fatto in questi anni, quando abbiamo incominciato a cogliere il linguaggio e il suo funzionamento, cogliendo anche aspetti della logica. In tutto questo operare alla fine ciò che si incontra è l’operare stesso, e cioè l’autoprodursi continuo del linguaggio, il cui unico fine, come sappiamo, è produrre se stesso, nient’altro che questo. Siamo arrivati al punto B, L’attuazione dell’autocoscienza razionale mediante se stessa. Potremmo dire: l’attuazione del linguaggio mediante se stesso.