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18 agosto 2021

 

Lezioni sulla storia della filosofia di G.W.F. Hegel

 

Questa seconda parte della storia della filosofia di Hegel non è, come dice lui stesso, di grande interesse teoretico. Quest’ultima parte riguarda gli stoici, gli epicurei e gli scettici. Giustamente dice che non ha grande interesse teoretico perché non aggiungono un granché, però ci sono alcune cose che invece a noi servono per riflettere sulla questione che più ci interessa, e cioè la volontà di potenza. Come ciò che era prevalso era la volontà astratta di un singolo padrone del mondo, così anche il principio interno del pensiero non poteva non essere astratto e tale da fornire una conciliazione soltanto formale e soggettiva. La volontà astratta del singolo, come dire, ciò che penso io è giusto per il solo fatto che lo penso. Allo spirito romano poteva dunque convenire soltanto un dogmatismo costruito su un principio che si facesse valere attraverso la forma dell’intelletto. Le filosofie di cui parliamo sono quindi congeniali allo spirito del mondo romano… Qui di nuovo Hegel se la prende con i Romani …come del resto la filosofia corrisponde sempre a puntino al modo di rappresentarsi il mondo. Il mondo romano creò bensì un patriottismo formale con la corrispettiva virtù e un perfezionato sistema giuridico, ma da questa morte non poteva nascere filosofia speculativa, sibbene soltanto buoni avvocati e la morale di Tacito. queste filosofie, eccettuato lo stoicismo, anche presso i Romani vennero a contrasto con le antiche superstizioni; del resto la filosofia prende in generale il luogo della religione. I tre principi dello stoicismo, dell’epicureismo e dello scetticismo sono necessari. In primo luogo il principio del pensiero, dell’universalità medesima, però in modo da essere determinato in sé; il criterio decisivo della verità è qui il pensiero astratto… Il principio del pensiero diventa l’universale, ma un universale che si ritiene posseduto. Quindi, il particolare cessa di avere importanza – qui c’è l’influsso platonico, ovviamente – rimane soltanto l’universale, che lo stoico crede di possedere, e cioè crede di possedere una verità universale. Questi sono i principi delle filosofie stoiche ed epicuree. Questi due principi sono unilaterali e, in quanto positivi, diventarono scienze intellettuali. Qui occorre ricordare quello che diceva Hegel dell’intellettuale rispetto alla ragione: l’intelletto coglie la cosa ma ancora non sa che cosa sta facendo. Infatti, poiché codesto pensare non è lui stesso concreto ma astratto… Non coglie il concreto, il tutto, ma soltanto l’astratto … la determinatezza cade fuori del pensiero e deve essere elevata per sé a principio. Esso ha difatti un diritto assoluto contro il pensiero astratto. Per esempio, l’universale è qualche cosa che non riguarda più il pensiero ma è come se avesse vita propria. All’infuori dello stoicismo e dell’epicureismo c’è in terzo luogo lo scetticismo, cioè la negazione di entrambe quelle due unilateralità, che non possono non venire riconosciute come tali. Il principio dello scetticismo è dunque la negazione attiva di qualsiasi criterio, di ogni principio determinato quale esso sia: sapere sensibile, rappresentarsi della riflessione o conoscenza pensante. Il risultato immediato è che non si può conoscere niente. Tuttavia, punto di vista comune e scopo comune di tutte queste filosofie è l’imperturbabilità e l’equilibrio dello spirito in se stesso, che niente può appassionare e che non può essere determinato né dal piacere né dal dolore né da alcun altro vincolo qualsiasi. Si può muovere rimprovero allo scetticismo d’essere la filosofia della dispersione, si può tacciare l’epicureismo di bassezza; tuttavia, a loro modo essi sono state filosofie. Si capisce che Hegel non ha una grande stima di questi pensatori. Qui parla della logica degli stoici, che è una logica abbastanza banale, è quella del sillogismo anapodittico, che non è altro che il modus ponens: “se A allora B, ma A dunque B”, oppure “se A allora B, ma non-B dunque non-A”. Come dire che la logica stoica è questa: se piove prendo l’ombrello, ma piove, quindi, prendo l’ombrello. Si capisce subito la semplicità e la banalità di una cosa del genere, perché uno può prendere l’ombrello anche se non piove ma per altri motivi. Ma ciò che importa qui e che vedremo anche negli epicurei e negli scettici è che è già iniziata la fine del pensiero. Come dire che queste tre filosofie in effetti non si pongono più alcuna domanda ma lavorano su ciò che viene ritenuto un’ipostasi, cioè qualcosa che vale di per sé ma che non richiede più nessun domandare: è così e basta. Questo naturalmente in seguito a Platone e ad Aristotele. Questa logica, la cui essenza sta soprattutto nell’attenersi alla semplicità della rappresentazione, a quello che non si contrappone a sé, senza ricercar ciò che entra in contraddizione, prende qui il sopravvento. Una logica della semplice rappresentazione, che non si cura di ciò che si contrappone a sé ma contrappone una ragione a un’altra, non l’elemento a se stesso. Questa semplicità, che non ha in se stessa la negatività né il contenuto… Non ha la negatività, cioè, non contiene l’opposto. …ha bisogno di un contenuto dato che esso non può superare, ma perciò è anche incapace di arrivare per se stessa a un vero e proprio altro. Gli Stoici hanno molto contribuito a svolgere la logica nei più minuti particolari. Ciò che sta a fondamento di questo lavoro è che il mondo oggettivo corrisponde al pensiero, sicché essi cercarono di investigare più dappresso questo pensiero. Orbene, se per un certo rispetto è giustissimo che l’universale è il vero e che il pensiero ha un contenuto determinato, che deve anche essere concreto, gli Stoici tuttavia non hanno saputo risolvere la difficoltà principale di derivare dall’universale la determinazione particolare, in modo che quello, in questa determinazione, rimanga tuttavia identico a sé; deficienza di cui acquistarono coscienza gli Scettici. È una questione naturalmente, Hegel la rileva perché è quella che lui in un certo senso ha risolta, e cioè gli Stoici mantengono questa separazione tra i due momenti. Ma la questione più interessante negli Stoici è la morale: la morale stoica. Perché? Hegel dice così. Per gli Stoici vivere secondo natura è vivere secondo ragione... Naturalmente, è una ragione che non viene interrogata perché è la “mia” ragione. …il che ha tutto l’aspetto di ricette, che gli Stoici diano per trovare giusti motivi della virtù. Infatti, loro principio è in genere questo: si deve vivere secondo natura, cioè secondo virtù; a questa infatti ci conduce la razionale natura. Ecco il bene supremo, lo scopo finale di tutto, una forma fondamentale della morale stoica, che si presenta in Cicerone come finis bonorum o summum bonum (il fine di ogni bene). Per gli Stoici esso è la retta ragione medesima ed essi considerarono come supremo principio il tener fermo ad essa per se stessa. Quindi, questa ragione è data come acquisita. Senonché anche qui ci accorgiamo subito d’essere trascinati in un circolo del tutto formale che virtù, conformità a natura e ragione si determinano l’una mediante l’altra; la virtù consiste nel vivere secondo natura e ciò che è conforme a natura è virtù. Qui si vede anche la banalità del pensiero stoico. Così pure il pensiero deve determinare che cosa sia conforme a natura, ma ciò che è conforme a natura non è altro a sua volta che ciò che viene determinato dalla ragione. L’altro lato, al bene è ora l’esistenza esteriore e l’accordo delle circostanze della natura esteriore con lo scopo finale dell’uomo. Qui oramai l’accordo (l’ρθτης) è diventato la legge, è la correttezza, l’esattezza, la questione dell’λήθεια è scomparsa totalmente. La verità non è più qualcosa che si interroga ma, come dicevamo, è qualcosa che si utilizza. Infatti, se anche gli Stoici hanno affermato che il bene è conformità alla legge, nei riguardi della volontà pratica essi però, secondo Diogene Laerzio, lo determinarono a un tempo come l’utile o come immediatamente utile in sé o come non lontano dall’utilità, sicché in generale per così dire l’utile l’accidenza della virtù. Ciò che mi è utile in questo momento è vero. Il bene in sé è il perfetto, ciò che adempie il suo fine. Ciò che adempie il suo fine è il bene e il bene è la conformità alla natura, secondo la natura del razionale. Ora, codesto è la virtù. /…/ Questa energia stoica, per cui l’uomo deve cercare soltanto di rimanere uguale a se stesso, è adunque collegata a quel formale, che ho precedentemente messo in rilievo; infatti, allorché il mio fine, la coscienza della libertà, in questo fine universale della pura coscienza della mia indipendenza scompaiono tutte le determinazioni particolari della libertà, che costituiscono i doveri e le leggi. Questo adunque ha costituito la forza di volontà dello stoicismo, di non tener conto del particolare nella propria essenza, il sottrarsi anzi ad esso. Vediamo che questo da un lato è un principio verace, ma resta d’altro lato altresì astratto. Questa forma della morale stoica è interessante perché qui Hegel avrebbe forse potuto ravvisare qualcosa di molto prossimo a ciò che ha elaborato come “l’anima bella”, vale a dire, colui che immagina di essere il depositario dell’universale, cioè, della verità. Ora, essendo depositario, conoscendo l’universale, che a questo punto diventa un astratto dell’astratto, si trova nella condizione di potere e dovere insegnare a ciascun altro qual è il bene. È quella buffa arroganza che caratterizza l’anima bella, determinata dall’idea di essere colui che conosce l’universale, mentre gli altri non lo conoscono. Questo gli dà una forza che è irrinunciabile e che non cesserà mai di esserlo, perché questa idea di conoscere l’universale è ciò che gli dà l’illusione di avere un potere assoluto, incrollabile. Siamo a Epicuro. La filosofia di Epicuro non è l’affermazione di un sistema di concetti ma piuttosto invece della rappresentazione o, meglio ancora, dell’essere sensibile che, assunto come sensazione nella maniera volgare dell’intuizione, Epicuro ha fatto a fondamento e criterio della verità. Soltanto ciò che è sensibile, che avverto in qualche maniera, è vero. In effetti, in Epicuro non c’è nessun pensiero. La rappresentazione è dunque a un tempo concetto (κατληψις), la retta opinione o il pensiero o il pensiero universale insito in noi, vale a dire, il ricordo di ciò che è apparso spesso. Ecco, l’immagine che è il ricordo che è apparso spesso. Per esempio, quando io dico “ecco un uomo” subito mediante la rappresentazione io riconosco la sua figura, in quanto ci sono state prima le sensazioni. Per Epicuro sono le sensazioni a dare la direzione, il criterio di verità. Mediante la ripetizione la sensazione diventa in me una rappresentazione permanente che constata se stessa. Ecco il solido fondamento di tutto ciò che riteniamo vero. È vero perché l’ho già visto altre volte, perché è così e, quindi, è così. Di Epicuro non è che ci sia un granché da dire. L’opinione è vera quando concorda con la rappresentazione e ha il suo criterio nell’avvertire con la sensazione se essa si ripete identica. Ora, che cosa garantisce questo? Identica in base a che cosa? Appunto al fatto che l’ho visto spesso: questo è il criterio teoretico del pensiero di Epicuro. Su questo fondamento è costruita la filosofia della natura di Epicuro. In essa però c’è un lato interessante poiché è ancora in fondo il metodo specifico dell’età nostra. Per quanto in sé meschini e senza interesse siano i pensieri epicurei, sui singoli lati della natura, come quelli che contengono solo un miscuglio di rappresentazioni d’ogni specie dal quale è assente il pensiero. Abbandoniamo Epicuro e passiamo allo scetticismo, che fra i tre è quello che ha avuto maggiore successo, anche se la morale stoica è ancora molto ben presente, perché è quella morale dell’anima bella, quella che immagina di conoscere l’universale e, quindi, di avere il sacro ufficio di divulgarlo al mondo intero. D’altra parte, c’è quella sensazione di onnipotenza che dà l’idea di conoscere l’universale, la verità. Lo scetticismo portò a compimento la concezione della soggettività di ogni sapere... Ogni sapere è soggettivo, è mio. …col sostituire in generale nel sapere in luogo dell’essere l’espressione parere. Cioè: non dico che “le cose sono così” ma “le cose mi paiono così”. Questo scetticismo appare certamente come un che veramente imponente di fronte al quale gli uomini provano grande rispetto. In tutti i tempi e oggi ancora esso è stato considerato il più pericoloso, anzi, l’invincibile avversario della filosofia essendo l’arte di dissolvere tutto ciò che è determinato e dimostrarne la nullità. Sembra quasi che esso venga considerato in sé insuperabile e agli individui non rimanga se non scegliere fra esso e una filosofia positiva dogmatica. Questo apparentemente. Lo scetticismo dunque si volge contro un pensiero intellettualistico…Quello che immagina che l’intelletto possa dipanare ogni aporia. …che fa delle differenze determinate un ultimo, un essere. Invece il concetto è esso medesimo questa dialettica dello scetticismo. Infatti, questa negatività, insita nello scetticismo, è necessaria anch’essa alla vera conoscenza dell’idea. Dice che tutto sommato lo scetticismo a modo suo ha avuto e ha una certa utilità, limitata, ma una certa utilità. La differenza sta solo in ciò, che gli scettici si arrestano al risultato come un negativo… Celeberrima la frase “non esiste nessuna verità”. …questo o quest’altro reca in sé una contraddizione, quindi, si scioglie e non c’è nulla da fare con esso. Senonché questo risultato, in quanto puramente negativo, è anch’esso a sua volta una determinazione unilaterale di contro al positivo, cioè, lo scetticismo si comporta soltanto some intelletto astratto. Cioè, non si accorge che, volendo fare di questo negativo un universale ne fa un altro astratto, un altro particolare. Esso disconosce che questa negazione è a un tempo in se stessa un determinato contenuto affermativo. Se io dico che non c’è la verità, affermando questo affermo qualcosa. Infatti, essa come negazione della negazione, cioè la negatività riferentesi a se medesima, è più precisamente l’affermazione infinita. Lo scetticismo moderno si volge soltanto contro il pensiero, il concetto, l’idea, quindi contro ciò che vi è di più alto nella filosofia. Accetta con ciò come assolutamente indubitabile la realtà delle cose e solo afferma che da esse non si può inferire nulla per il pensiero. Ma questa è una filosofia indegna persino di contadini, perché questi sanno benissimo che tutte le cose terrene sono passeggere e che quindi tanto vale il loro essere quanto il loro non essere. Hegel sta dicendo che in effetti lo scetticismo non ha apportato nulla. Lo scettico non intende le sue affermazioni, per esempio non determinar nulla, niente più, niente è vero, ecc., nel senso che esse in realtà siano. Cioè, lo scettico non dice che queste affermazioni sono, non dice mai che è ma che pare. Infatti, egli ritiene per esempio che la proposizione “tutto è falso” afferma falsa insieme con le altre anche se stessa e con ciò si limita. In tutte le proposizioni scettiche, dunque, si deve sempre tenere presente che noi non affermiamo in modo assoluto che esse siano vere; diciamo difatti che esse si possono annullare da se medesime in quanto circoscrivono se stesse insieme con le cose di cui si dicono. La banalità di un pensiero del genere appare subito evidente. Se io non affermo nulla, è chiaro che non posso negare nulla, non posso quindi porre nessuna differenza, non posso porre nulla. Quindi, ciò che dico non significa assolutamente niente, perché è esattamente identico al suo contrario. Orbene, anche la nuova accademia di Carneade si astiene dall’affermare che alcuna cosa sia vera e sussistente o ci sia alcunché cui il pensiero possa acconsentire, sicché gli scettici sono stati molto vicini all’accademia. Lo scetticismo puro non può fare altro che rimproverare all’accademia se non quello di essere ancora impura. È manifesto tuttavia, dice Sesto Empirico, che si discostano da noi nel giudicare del bene e del male. Infatti, essi affermano che alcunché è buono o cattivo, cioè, buona sia la sospensione dell’assenso e cattivo l’assenso, e ciò facendo sono convinti che sia probabilmente più buono quello cui applicano il predicato di buono che non il suo opposto. Dunque, i neoaccademici non si elevano alla purezza della scepsi, in quanto parlano di essere e non di parere. Ma tutto questo è pura forma /…/ Dunque, la forma è, vi è un bene, ma il contenuto è che nulla si deve considerare come buono, come vero. Questo punto di vista viene presentato dagli scettici anche nel modo seguente: per essi tutte le rappresentazioni sono parimenti degne e indegne di fede, per quel che concerne il fondamento, la verità. Un’affermazione, potremmo dire, vale quanto la sua contraria. Quindi, non posso affermare nulla; pertanto, in teoria non potrei nemmeno affermare questo, non potrei affermare niente. Non è una cosa poi così geniale. Vedremo tra poco l’aspetto più interessante che si può ricavare da questo. Tuttavia, come ragioni contrapposte non consideriamo necessariamente affermazione e negazione, ma semplicemente ragioni che si combattono tra loro. Non c’è mai la considerazione dell’elemento che si nega, nel senso che contiene già in sé il suo opponente; no, è sempre uno scontro tra ragioni – la mia ragione contro la tua. Questo ci induce a una considerazione, e cioè che lo scetticismo non sia niente altro che retorica, un’applicazione della retorica, un esercizio di retorica, che mira semplicemente ad annichilire l’avversario, senza rendersi conto che il modo che utilizza per annichilire l’avversario può essere usato contro di lui. Queste guise determinate dal contrapporre, in virtù delle quali si compie la sospensione del consenso, dagli scettici sono state chiamate modi (τρόποι in greco, sono le figure retoriche). Essi vengono applicati ad ogni pensato e sentito per mostrare che esso non è in quella data maniera in sé ma soltanto in una relazione con altro, che esso medesimo appare dunque in un altro e lascia apparire quest’altro in se stesso e, quindi, in generale ciò che è non fa che apparire, e ciò immediatamente dalla cosa medesima, non da un altro posto come vero. Vediamo qui come in effetti questa contrapposizione, che Hegel riprenderà nella sua Fenomenologia dello spirito, contrapposizione che è ancora presente sia in Platone che in Aristotele, anche se lì c’è già il tentativo di cucire questo strappo, ecco, qui la cucitura è già compiuta. È compiuta nel senso che non si tratta più in nessun modo di porre delle domande, ma soltanto di mostrare, utilizzando la retorica, che qualunque affermazione vale quanto la sua contraria, perché ciascuna affermazione contiene già la sua negazione. Ma questo non è stato inteso come qualcosa di strutturale. Per fare un esempio tratto da Hegel, l’in sé e il per sé non sono visti come due momenti dello stesso ma come due ragioni che si contrappongono e che devono combattersi. È chiaro che ciascuna non può in nessun modo vincere sull’altra, perché sbaragliando l’altra sbaraglia anche se stessa, che è poi di fatto ciò che fanno gli scettici. Riassumendo tutto ciò si ha che il determinato essere o pensato è: a) essenzialmente come determinato il negativo di un altro, ossia è riferito ad un altro, è per quest’ultimo quindi in relazione con ciò propriamente e tutto esaurito; b) in questo riferirsi ad un altro quest’ultimo, posto come sua universalità, è la prova di esso; ma questa prova, in quanto contrapposta al comprovato, è anch’essa un determinato, ha perciò la sua realtà soltanto nel comprovato. Per il fatto che io considero daccapo questo universale in generale come un che determinato, esso è condizionato da un altro, come il precedente, e così via all’infinito; c) poiché questo determinato, per il quale come nella coscienza vi è altro abbia a essere, deve esservi appunto questo altro, giacché il primo ha la sua realtà nel secondo e poiché questo suo oggetto è anch’esso per altro si condizionano reciprocamente e si negano l’un l’altro ma nessuno è in sé. Qui è evidente il movimento dialettico, che però non viene inteso né posto come movimento dialettico ma come contrapposizione di due ragioni. Poiché l’universale come fondamento ha la sua realtà nell’essere e questo essere ha la sua realtà nell’universale, si ha così la reciprocità in forza della quale quelli che sono in sé opposti si fondano reciprocamente; d) ma ciò che è in sé è appunto tale da non essere mediato da altro, come immediato, cioè perché è, è però un presupposto; e) se dunque viene ammesso come presupposto questo determinato, può mettersi anche altro. Ancora più brevemente possiamo dire che il difetto di ogni metafisica intellettualistica consiste: a) da una parte nella dimostrazione, per cui essa cade nell’infinito; b) dall’altra, nella presupposizione, che è solo un sapere immediato. Qui c’è il nocciolo di tutto il scetticismo, e cioè tu affermi un qualche cosa ma non lo dimostri. Per es. tu dici “questa è la verità”, però, a questo punto questa affermazione vale qualunque l’altra, perché lo dici tu ma non è dimostrato; ma se lo dimostri, questa dimostrazione va all’infinito, quindi, non puoi dimostrarlo, non puoi fare né una cosa né l’altra. Ecco, questo è il nucleo dello scetticismo. Contro tutte queste filosofie dogmatiche, non escluse il criticismo e l’idealismo, i tropi scettici (figure retoriche) hanno la forza negativa di dimostrare che non in sé ciò che esse affermano essere l’in sé. Infatti, questo in sé è un determinato e non può resistere alla negatività, al suo proprio superamento. Fa onore allo scetticismo l’aver avuto codesta coscienza del negativo, l’aver pensato in maniera così determinata le forme del negativo. Lo scetticismo non procede come si suol dire col presentare un’obiezione, una possibilità di rappresentarsi la cosa anche altrimenti, che sarebbe soltanto una trovata qualsiasi puramente accidentale di contro a questo affermato sapere. Lo scetticismo non è un operare empirico di questa fatta ma contiene una determinazione scientifica. I suoi tropi mirano al concetto, all’essenza della determinazione medesima e sono esaurienti contro il determinato. Lo scetticismo va contro il concetto: uno ha un certo concetto, crede che sia vero, ma gli scettici gli dicono “No, o lo affermi semplicemente” – ma allora questa affermazione ha di contro il suo negativo, cioè vale quanto la sua negativa – oppure “lo dimostri, ma non lo puoi fare”. In questi momenti lo scetticismo intende affermarsi e lo scettico riconosce in essi quella che egli si immagina essere la grandezza del suo proprio individuo. Questo dà allo scettico l’idea di essere onnipotente, cioè di potere distruggere tutto, non costruisce niente, però crede di potere cancellare ogni cosa, senza tenere conto che cancellando ogni cosa cancella anche se stesso. Questi tropi attestano una coscienza dialettica nel processo dell’argomentazione più sicura e più matura della logica comune, della logica degli Stoici e della canonica di Epicuro. Questi tropi sono opposizioni necessarie in cui cade l’intelletto; anche nell’età modera ci si imbatte di frequente, soprattutto nel progresso all’infinito e nella presupposizione di un sapere immediato /…/ L’autocoscienza scettica è questa coscienza sdoppiata per la quale, da un lato, il movimento è uno scompigliarsi del suo contenuto. Essa è per l’appunto questo movimento che distrugge ogni cosa, nel quale per essa è affatto accidentale e indifferente ciò che le si offre; essa opera secondo leggi che per lei non hanno valore di verità ed è un’esistenza perfettamente empirica. Qui si vede anche come in fondo nello scetticismo permanga ancora la morale stoica. Il discorso dello scettico in fondo è questo: io posso con la mia ragione distruggere ogni cosa e, quindi, non c’è nulla che mi si possa opporre. Quindi, di che cosa vivo? Vivo di ciò che mi piace, di ciò che mi soddisfa. Ma, e qui sta la questione che ormai sancisce la distanza infinita tra un pensiero come questo e i presocratici, non vivo più di pensiero, questo è cancellato; vivo di quattro cose che ho intorno, ma il pensiero non c’è più perché è scomparso il domandare. Perché questa posizione scettica funzioni, e cioè distruggere tutto, occorre che abbia alle spalle una metafisica potente, che è quella che gli ha fornita Aristotele, e cioè che le cose siano quelle che sono; solo a questa condizione posso distruggere. Occorre qualcuno che affermi che una certa cosa è così. Ora, questa è un’affermazione metafisica, certo, ma è anche la condizione per poterla distruggere, secondo la modalità scettica. Questo è l’aspetto che anche Hegel, tutto sommato, reputa positivo negli scettici, cioè, un metodo, anche se teoreticamente per nulla interessante, che però serve a sgrezzare il pensiero, a togliere cioè le credenze più popolari. Questa retorica scettica è un primo modo di mostrare alle persone più ingenue e più sprovvedute quanto le loro credenze siano fittizie e non sostenibili. È chiaro che invece di fronte a un pensiero più avvertito e più potente crolla tutto, gli scettici non hanno armi contro il pensiero autentico. Di fronte al pensiero autentico, al pensiero che domanda, lo scettico non può nulla; può tutt’al più mettere in difficoltà, come dicevo prima, il pensiero più ingenuo. Questo è il massimo che Hegel riconosce agli scettici, che appunto non hanno nessuna profondità di pensiero, nessuna questione teoretica, negli scettici non c’è nulla che dia da pensare.

Intervento: Diciamo che si manifesta ancora oggi…

Assolutamente sì. E questo è il motivo per cui poteva essere di qualche interesse leggere anche queste cose, perché il pensiero, così come si è stabilito dopo la Metafisica di Aristotele, ormai non pensa più ma dà soltanto, come dice qui Hegel riferendosi agli stoici, delle ricette morali. Hanno istituito quella cosa che Hegel chiamava anima bella, la quale, come dicevamo prima, immagina di conoscere l’universale, che invece ha trasformato nell’astratto dell’astratto. Conoscendo questo universale, lo stoico immagina di avere la verità, perché sa che non c’è altro all’infuori dell’universale, mentre lo scettico utilizza la retorica per demolire qualunque affermazione. Sono due modi di affermare la volontà di potenza: il primo mostrando la propria onnipotenza di pensiero in quanto conosce l’universale, quindi sa come stanno veramente le cose; lo scettico invece nel mostrare la sua capacità nel distruggere, demolire ogni cosa, che abbiamo visto essere falsa, in definitiva, perché non può fare questo di fronte a un pensiero potente e avvertito. Ricordo un intervento di Severino, che riportava anche lui ingenuamente questa cosa – non c’è nessuna verità, quindi anche questa affermazione non è vera – è un dibattito abbastanza sterile e ingenuo. La questione non è tanto che non c’è nessuna verità, ma quando dico che non c’è nessuna cosa che possa affermarsi come verità, che cosa sto intendendo esattamente con verità? Questo è il punto. Se non si pone questa questione, tutto il resto non significa niente. Nessuna cosa può essere vera, cioè, non può essere che cosa? Qui la cosa si fa interessante ma anche complessa ed è qui che lo scettico non sa assolutamente cosa dire perché non c’è pensiero, non c’è nessuna domanda, le cose sono già così. Difatti, diceva giustamente Hegel, per lo scettico la realtà è quella che è, solo che ciò che io penso della realtà non è mai adeguato. Epicuro non saprei… La celeberrima frase di Epicuro: “Non ho paura della morte, perché se c’è la morte non ci sono io e se ci sono io non c’è la morte”. Ma è proprio questo che mi irrita, il fatto che non ci sono più io, che non posso più fare le cose che mi interessano, che razza di discorso è? È ovvio che se mi preoccupo della morte vuole dire che sono vivo, mi sembra evidente, non ci vuole un genio per stabilire una cosa del genere. E, infatti, Hegel liquida gli epicurei in quattro e quattr’otto. Dicevo che comunque è interessante perché questi pensatori, gli stoici e gli scettici, hanno sancito la fine del pensiero. Mentre ancora con Platone e Aristotele la cosa è in discussione, con loro non lo è più: non si può affermare niente perché se lo affermi questa cosa si contraddice… Si può dire una cosa del genere solo se non si è pensato, perché se fosse così, e cioè che qualunque cosa si contraddice, ti stai già contraddicendo e, quindi, non puoi neanche affermare questo. Ma non è così, naturalmente, non sono le ragioni che si oppongono; certo, si oppongono retoricamente ma, diceva bene Hegel, sono cose da avvocaticchi: una ragione contro l’altra. No, la questione è che ciascun elemento ha in sé la sua negazione, cioè, si pone, come l’ha posta giustamente Hegel, come l’in sé e il per sé. Il per sé è il negativo dell’in sé, ma senza questo negativo non c’è neanche l’in sé. È per questo che lo scettico, distruggendo ogni cosa, ammesso che lo possa fare, distrugge se stesso, si autocancella. La cosa interessante è che questi pensatori hanno sancito il modo di pensare, dopo Platone e Aristotele, per i duemila anni successivi: oramai era tutto stabilito. Tutto si svolge o come gli stoici con le loro ricette di comportamento o come gli scettici, per i quali non si può affermare nulla perché ogni affermazione non è dimostrabile. Che cosa direbbero qui gli eleati? Prima dobbiamo quantomeno capire che cos’è una dimostrazione, sennò di che cosa stiamo parlando? Qui si incomincia a vedere come si stia parlando di niente, si parla ma non si sa di che cosa si sta parlando. Cosa che invece non era negli eleati, nei presocratici in generale, che ponevano domande intorno a questo: di che cosa stiamo parlando? Parlando di essere, di verità, ecc., di che cosa parliamo? Qui non c’è più niente, è finito tutto. Ecco perché, come dicevo in varie occasioni, il pensiero è nato con i presocratici ed è morto con loro. Dopo non c’è più stata traccia.