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18 luglio 2018

 

Concetti fondamentali della metafisica di M. Heidegger

 

Il libro che stiamo concludendo affronta adesso la questione centrale, quella che a noi più interessa. Siamo a pag. 356, § 67. Intanto, vi ricordate la definizione di mondo in Heidegger: la manifestatività dell’ente in quanto tale, nella sua totalità. In base a questa, un carattere del mondo è l’accessibilità dell’ente, dell’ente in quanto tale. L’ente è accessibile perché è presente in quanto tale. L’animale è povero di mondo, non perché ha meno cose ma perché non c’è l’ente in quanto ente. L’essenza del mondo non si esaurisce in questa definizione. Anzi, la questione è se il carattere suddetto manifesti qualcosa dell’essenza intrinseca del mondo, o non sia piuttosto ancora una determinazione derivata. /…/ Con mondo intendiamo di solito la globalità dell’ente, tutto insieme, tutto ciò che c’è. /…/ Ma è evidente che il concetto di mondo cui abbiamo accennato non vuole dire questo; piuttosto, invece dell’ente in sé, l’accessibilità del medesimo in quanto tale. Qui c’è un passaggio: non è l’ente in quanto tale ma l’accessibilità dell’ente. Qui incomincia intravedersi la soluzione finale, che poi porrà. Quindi, la questione della metafisica non è quella di porre l’ente in quanto tale per vedere che cos’è esattamente l’ente, ma che cosa dà accesso all’ente in quanto tale. È per questo che Heidegger in questo testo parla di condizioni di pensabilità della metafisica, non che cos’è la metafisica ma a quali condizioni è possibile pensare una cosa come la metafisica. In base a ciò l’ente fa certamente parte anche del mondo, ma soltanto nella misura in cui è accessibile, nella misura in cui l'ente stesso ammette e rende possibile ciò. /.../ Ciò implica che prima l’ente non è manifesto, che è chiuso e velato. L’accessibilità si fonda in una manifestatività possibile. Di conseguenza mondo non significa l’ente in sé, bensì l’ente manifesto? No, bensì la manifestatività dell’ente di volta in volta manifesto. Quindi, le condizioni per cui l’ente mi si dà, non l’ente. È chiaro che per Heidegger l’ente non è qualcosa che sta lì, soggetto-oggetto, l’ente è qualcosa della quale cosa lui vuole cogliere la manifestatività, cioè come si manifesta l’ente, perché c’è un ente. Che è poi la domanda tipica della metafisica, della filosofia: perché c’è qualcosa anziché nulla? A pag. 358. L’esser-ci dell’uomo porta già da sempre con sé in se stesso la verità su se stesso. Oggi siamo ancora ben lontani dal vedere queste connessioni fondamentali in riferimento al carattere della conoscenza di sé dell’uomo, e siamo ancora di gran lunga troppo imbrigliati nella riflessione soggettiva e nelle forme che favoriscono la medesima. Non si tratta semplicemente di dimostrare teoreticamente che questa è falsa: occorre eliminarla mercé lo sradicamento, in modo che la mancanza di radici provochi sgomento. Qui deve tuttavia venir imboccato un altro cammino. Il problema, dice lui, è che si è imbrigliati, e anche imbrogliati, dalla soggettività, soggetto-oggetto. Siamo talmente abituati a pensarla in questo modo che sradicare una cosa del genere è un’operazione complicatissima. A pag. 359. La questione di cosa sia l’uomo /.../ La questione dell’uomo è importante. Ricordate, lui dice l’uomo come costruttore di mondo. Se l’uomo costruisce il mondo, una domandina non ce la vogliamo fare? La questione di cosa sia l’uomo, se posta realmente, affida esplicitamente l’uomo al suo esser-ci. Questo affidamento all’esser-ci è il segno indicatore della sua intima finitezza. L’uomo è l’esser-ci e, in quanto esser-ci, è finito perché è un esser-ci qui e adesso, non in eterno. La questione intorno alla formazione di mondo è la questione intorno all’uomo che noi stessi siamo, e dunque la questione intorno a noi stessi, e cioè intorno a come stanno le cose a nostro proposito. Un inciso che non c’entra nulla. Sarebbe interessante leggere un brevissimo scritto, sempre di Heidegger, La svolta, dove si pone la questione del linguaggio. Affronta la questione del linguaggio, anche se non nei termini con cui l’affrontiamo noi, ovviamente, ma c’è un indirizzarsi preciso verso la questione del linguaggio come problema. Indica proprio questo viraggio verso… come dire? Il problema dell’essere, che si è sempre posto sin da Essere e tempo, diventa il problema del lógos, il problema del linguaggio. A pag. 360. Ci troviamo dinanzi al compito di richiamare alla mente in modo originario quei momenti del concetto di mondo che abbiamo conosciuto come caratteri provvisori, ritornando nella direzione che ‘interpretazione della noia profonda, come uno stato d’animo fondamentale dell’esser-ci umano, ci ha dischiuso. Verrà in luce come questo stato d’animo fondamentale e tutto ciò che vi è racchiuso, siano da delineare e distinguere nei confronti di ciò che abbiamo affermato come essenza dell’animalità, nei confronti dello stordimento. Questa delineazione diverrà per noi tanto più decisiva perché proprio l’essenza dell’animalità, lo stordimento, viene apparentemente a trovarsi in una vicinanza estrema a quanto abbiamo descritto come elemento caratteristico della noia profonda e abbiamo denominato esser-incantato-incatenato dell’esser-ci all’interno dell’ente nella sua totalità. Ricordate che avevo fatto questa prossimità tra lo stordimento e la chiacchiera, che non è propriamente un stordimento perché anche nella chiacchiera l’ente è in quanto ente, però non c’è la possibilità, nella chiacchiera, di tenere conto di questo; quindi, c’è come possibilità, ma questa possibilità non viene posta in essere. A pag. 363. Il concetto ingenuo di mondo è compreso in modo che “mondo” significa lo stesso che l’ente, addirittura non distinto da “vita” ed “esistenza”, semplicemente l’ente. Nella caratterizzazione del modo e della maniera in cui l’animale vive, abbiamo visto che, se parliamo del mondo e della formazione di mondo dell’uomo con cognizione di causa, “mondo” deve significare in ogni caso qualcosa come accessibilità dell’ente. Questo è ciò che l’animale non ha, non ha accessibilità all’ente, vive, ente fra enti, non ha accessibilità all’ente perché l’ente non c’è in quanto tale. Il mondo ha sempre – anche se nel modo più vago possibile – carattere della totalità unitaria, compiutezza o comunque vogliamo prenderla e indicarla per il momento. Cioè, il mondo è sempre un tutto, come totalità di qualche cosa, degli enti, in genere. Questo “nella sua totalità” – è un attributo dell’ente in sé, oppure è soltanto un momento della manifestatività dell’ente, o nessuna delle due cose? Chiediamoci, provvisoriamente: “ente nella sua totalità” significa non già una mera somma, ma tuttavia proprio tutto l’ente nel senso dell’universalità di ciò che, in generale, è in sé, come ritiene il concetto ingenuo di mondo? Se intendessimo questo, non potremmo certo dire che in uno stato d’animo fondamentale ci è manifesto l’ente nella sua totalità. Quindi, come risolve il problema? Più avanti si pone un’altra domanda: /.../ l’uomo è formatore di mondo? ciò infatti equivale palesemente a dire: il mondo non è niente in sé, bensì è un prodotto formato dall’uomo, è soggettivo. Questa sarebbe una possibile interpretazione di quanto fino ad ora abbiamo detto sul problema e sul concetto del mondo/.../ Il mondo – secondo la tesi – fa parte della formazione di mondo. La manifestatività dell’ente in quanto tale nella sua totalità, si forma, e il mondo è ciò che è, soltanto in una tale formazione. Chi forma il mondo? Secondo la tesi, l’uomo. Ma cos’è l’uomo? Forma il mondo così come magari forma un’associazione di canto, oppure forma il mondo in quanto uomo? L’“uomo” - così come lo conosciamo oppure come colui che per lo più non conosciamo? Sta ponendo delle domande intorno all’uomo. Dà tre significati dell’uomo come formatore di mondo. L’esser-ci nell’uomo forma il mondo: 1. lo produce; 2. dà un’immagine, una visione di esso, lo rappresenta; 3. lo costituisce, è ciò che lo circonda, che lo abbraccia. Ora dovremo documentare questo triplice significato per mezzo di una interpretazione accurata del fenomeno del mondo. Parlando di questo triplice significato di formazione di mondo, ci lasciamo sedurre da un gioco linguistico? Certo, e più precisamente un giocare insieme al suo gioco. Un “giocare insieme al suo gioco”, è questo che si fa quando si gioca il linguaggio: si gioca insieme al suo gioco. Questo gioco del linguaggio non è giocoso, bensì scaturisce da una legalità che viene prima di ogni “logica” e richiede un vincolo più profondo che il seguire le regole della formazione di definizioni. Però – a questo intimo gioco del filosofare con il linguaggio sta dolorosamente vicino il pericolo del giocherellare e del rimanere impigliati nella sua rete. E nondimeno dobbiamo osare questo gioco, per uscire fuori – come vedremo meglio più avanti – dall’incanto del discorso quotidiano e dei suoi concetti. Però, anche se volessimo concedere che mondo significhi la forma soggettiva della concezione che l’uomo ha dell’ente in sé, cosicché non ci sarebbe alcun ente in sé e tutto si svolgerebbe nel soggetto, bisognerebbe domandarsi tra l’altro: come giunge l’uomo, in generale, anche solo ad una concezione soggettiva dell’ente, se l’ente non gli era manifesto in precedenza? Una domanda del genere non se l’era mai posta nessuno. È una domanda legittima: per dire che l’ente è soggettivo, che il mondo è soggettivo, ci deve essere già una conoscenza di ciò che io dico che è soggettivo, altrimenti, che cosa è soggettivo? Come stanno le cose riguardo a questa manifestatività dell’ente in quanto tale? Se il “nella sua totalità” fa parte di questa manifestatività, non è forse sottratto alla soggettività dell’uomo, vale a dire al suo piacere momentaneo? Sta parlando del linguaggio, che non è soggettivo. Il linguaggio è quella struttura che consente di avere a portata di mano ogni cosa. A pag. 374. Parla dell’“in quanto”, dell’ente in quanto ente. Se ora ci chiediamo, in relazione a quanto abbiamo detto, che cosa abbiamo compiuto nella precedente caratterizzazione della struttura dell’“in quanto” e come abbiamo proceduto, possiamo concordare quanto segue: il mondo è stato indicato dal carattere della manifestatività dell’ente in quanto tale nella sua totalità. La domanda che sta ponendo Heidegger è questa: come succede che si manifesti qualcosa? Come può accadere una cosa del genere? A quali condizioni? Quali sono le premesse? Insomma, come succede questo fenomeno? Perché è un fenomeno, e non a caso lui si occupava di fenomenologia. Alla manifestatività appartiene l’“in quanto” – ente in quanto tale, in quanto questo o quello. Una più precisa chiarificazione dell’“in quanto” ci ha condotti all’asserzione e alla verità assertoria. L’“in quanto”, poi dirà di che si tratta, ha a che fare con la verità assertoria, cioè, asserisce. Adesso spiega bene qual è la questione. Qual è stato il primo passo per avvicinarsi all’“in quanto”? abbiamo affermato: l’“in quanto” non può sussistere per sé, è una relazione che corre da un membro all’altro – qualcosa in quanto qualcosa. Da un punto di vista formale questa caratterizzazione è corretta, nella misura in cui possiamo in effetti comprendere l’“in quanto” sotto forma della relazione. Ma vediamo facilmente: con questa determinazione dell’“in quanto” – relazione dell’“in quanto” -, vuota al massimo grado, abbiamo già abbandonato l’essenza peculiare del medesimo. Infatti anche l’“e” è una relazione fra due membri, e inoltre anche l’“o” – a e b, c o d. Ora si potrebbe obiettare: la caratterizzazione dell’“in quanto” come “relazione” è innocua fintantoché si tenga conto che la definizione specifica di questa relazione deve venir ripresa e introdotta nel suo differire, ad esempio, dalla relazione dell’“e”. Ma proprio qui viene in luce il carattere funesto di questa caratterizzazione formale. Infatti è dubbio che coglieremo ancora, in generale, l’essenza dell’“in quanto”, anche se tentiamo di stabilire il suo carattere specifico. È dubbio perché già con la caratterizzazione apparente innocente – perché sempre corretta – dell’“in quanto” nel senso di una relazione, viene livellato l’intero fenomeno. Dicendo che l’“in quanto” è una relazione non si intende nulla della sua portata metafisica, ché l’“in quanto” è qualcosa che ci dice che è così com’è. Se io dico che è una relazione va bene, però appiattisco tutto, non intendo più niente. È vero che è una relazione ma non è solo questo. …se qualcosa viene definito, per esempio, come relazione, viene omessa la dimensione nella quale la relazione in questione può essere ciò che è. In virtù di questa omissione della dimensione, la relazione risulta equiparata a qualunque altra. A pag. 375. Se dunque abbiamo delucidato l’“in quanto” per mezzo di questa definizione come “relazione”, ciò implica che improvvisamente prendiamo come dimensione per questa relazione l’ambito del sussistente in generale. Qua è sottile la cosa. Io pongo l’“in quanto” come una relazione tra due membri. È sì una relazione, certo, dice lui, però facendo così do come sussistente questa dimensione di relazione in cui la relazione accade, do come pre-supposta la relazione, questa cosa che propriamente non si sa in che cosa propriamente consista. È vano voler ancora tentare di cogliere l’essenza dell’“in quanto” a partire da qui – a meno che non abbiamo già in precedenza scorto qualcosa della vera essenza dell’“in quanto”. Quindi, è qualcosa che va molto al di là della reazione. Ciononostante possiamo continuare a definire l’“in quanto” come relazione e a parlare della relazione dell’“in quanto”. Dobbiamo soltanto considerare che la caratterizzazione formale non fornisce l’essenza, bensì indica tutt’al più il compito decisivo di afferrare concettualmente la relazione a partire dalla propria dimensione, invece di livellare la dimensione per mezzo della caratterizzazione formale. La relazione tra a e b è un modello di relazione, quindi, anche l’“in quanto” che è una relazione, è ascrivibile a questa formula; sarebbe questo il livellamento. A pag. 381, sottoparagrafo b). Dice a un certo punto /.../ tutti i concetti formalmente indicanti e tutte le connessioni interpretative chiamano in causa colui che comprende in relazione all’esser-ci che è in lui, viene fornita in tal modo anche una connessione affatto particolare di tali concetti. Dice che questi concetti non sono quello che sono per virtù propria, sono concetti interpretativi. Questa non consiste nelle relazioni che possono venir ottenute mettendo in campo dialetticamente questi concetti l’uno contro l’altro, trascurando il loro carattere di indicazione ed escogitando qualcosa come un sistema dell’esser-ci, bensì: l’originaria e unica connessione dei concetti è già istituita dall’esser-ci stesso. Questo è uno dei motivi per i quali non è possibile schiacciare l’“in quanto” nella formuletta della relazione. Lo dice chiarissimamente, l’originaria e unica connessione dei concetti è già istituita dall’esser-ci stesso, quindi, è qualcosa che precede la relazione. Quindi, l’“in quanto” è ciò che precede la relazione. Posso anche dire che è una relazione, e lo è, ma non è soltanto questo. la vitalità della connessione dipende da questo: fino a che punto l’esser-ci giunge di volta in volta a se stesso (che non è la stessa cosa del grado della riflessione soggettiva). Badate bene, quando lui parla dell’esser-ci che pensa se stesso, tutto questo non ha niente a che fare con la soggettività. Il rivenire dell’esser-ci a se stesso è un ripensare dell’esser-ci che, come diceva anche in Essere e tempo, cerca il suo fondamento e trova niente, cioè trova il non-ente; quindi, nulla a che fare con la soggettività. La connessione è in sé storica, celata all’interno della storia dell’esser-ci. Questa connessione è storica, non è una connessione data, riconducibile o riducibile a una formula, che è quella che è sempre, perché è storica, muta, cambia continuamente. Pertanto per l’interpretazione metafisica dell’esser-ci non c’è un sistema dell’esser-ci; /.../ Non c’è un sistema per che un sistema, per definizione, è astorico. /.../ la connessione concettuale interna è a connessione della storia stessa dell’esser-ci, che in quanto storia si trasforma. Questo è importante perché è il motivo per cui l’esser-ci non potrà mai essere un sistema. L’uomo non potrà mai essere un sistema, non potrà mai essere sistematizzato perché è storico e, pertanto, si trasforma. Per dirla con Eraclito, è in continuo divenire, anche se Severino avrebbe qualche rimostranza. Con il divenire non va d’accordo. È l’evidenza ingannatrice ma pur sempre un’evidenza che le cose cambino: io muovo un dito e la situazione è cambiata, è evidente per tutti. Eppure, per Severino, questa è esattamente la follia: pensare che le cose divengano, cioè, che vengano dal nulla e tornino nel nulla. Io sono in questa posizione, muovo una mano, questo movimento viene dal nulla, prima non c’era, e torna nel nulla quando io smetto di muovere la mano. Perciò i concetti – e tanto più concetti fondamentali formalmente indicanti non possono mai, in un senso particolare, venir presi isolatamente. Questa è un’altra questione importante: un concetto non può mai venir preso isolatamente. Chi fa questo? Chi prende i concetti isolatamente come se fossero delle pietre miliari? La scienza. Per esempio, il concetto di gravità, per la scienza, è quello che è, non si discute, è una specie di monolite. Quello che Heidegger, invece, ci sta dicendo è che mai possono venire presi isolatamente, cioè, in modo astorico. Ancor più che una sistematica, la storicità dell’esser-ci impedisce ogni tipo di isolamento e di ripresa isolata di singoli concetti. In queste tre righe c’è tutto il pensiero di Heidegger, in un certo senso. La tendenza a ciò è insita anch’essa nell’intelletto comune ed è congiunta in modo peculiare con la tendenza a considerare tutto ciò che viene incontro come sussistente. Potremmo aggiungere noi: sussistente per sé, isolatamente. Anche in questo caso forniamo un esempio – beninteso: non per illustrare il fallimento dell’intelletto comune, bensì al fine di rendere più acuto lo sguardo per la difficoltà e le esigenze interne della retta comprensione. In questa sede l’esempio verrà solo accennato per sommi capi. Esser-ci significa tra l’altro: essendo, rapportarsi all’ente in quanto tale, di modo che questo rapportarsi contribuisce a costituire l’esser-ente dell’esser-ci, essere che noi definiamo esistenza. Questa è un’altra definizione di esser-ci. L’esser-ci, esistendo, si rapporta all’ente in modo tale che a questo punto possiamo parlare di esistenza. L’esser-ci è un ente fra gli enti, ma è un ente che può pensare se stesso, e l’esistenza non è niente altro che questo, cioè il rapportarsi dell’esser-ci all’ente che lui stesso è. Da qui può dire che esiste; non che prova la sua esistenza, assolutamente no, ma può dire “esisto!”, perché l’esistenza è questa: essere in relazione con l’ente in quanto ente. Ciò che l’esser-ci è, è insito nel come esso è, cioè esiste. Ed esiste, aggiungiamo noi, storicamente. Il “cos’è” dell’esser-ci, la sua essenza, consiste nella sua esistenza. Questo è il programma dell’esistenzialismo. Tradizionalmente, in filosofia si è sempre considerato che l’esistenza procede dall’essenza: una cosa è quella che è, e se è quella è allora esiste. Per Heidegger, ma anche per Sartre, sebbene in altri termini, è l’esistenza che stabilisce l’essenza, è il come io esisto; esistendo in un certo modo io sono quella cosa lì, e non il contrario, cioè io sono in questo modo e, quindi, la mia esistenza è quella. L’essenza è immutabile, per definizione, è ciò che una cosa realmente è, che propriamente è. Quindi, è chiaro che se io faccio derivare la mia esistenza dalla mia essenza, allora la mia esistenza sarà bloccata da quella essenza. Se faccio il contrario, come fa l’esistenzialismo – Heidegger, Sartre e altri, allora cambia tutto: io sono quello che sono in questo momento ed è questa la mia essenza. È un po’ come se dicessi, come abbiamo detto varie volte: io sono ciò che dico, cioè, la mia essenza è quello che dico. Ma quello che dico cambia continuamente e io di volta in volta sono quella cosa lì che sta cambiando continuamente. Ogni rapportarsi dell’uomo all’ente in quanto tale, è in sé possibile solamente se esso è in grado di comprendere il non-ente in quanto tale. Il non-ente e la nullità sono comprensibili solamente se l’esser-ci che comprende, si mantiene a priori e per sua natura in rapporto al niente, è tenuto-fuori nel niente. Io posso cogliere un ente se immagino che possa anche non esserci. Se colgo un ente è perché questo ente si staglia rispetto ad altre cose che non sono quell’ente. Bisogna comprendere l’intimo potere del niente /.../ Tenete conto che quando lui parla del niente non parla del nihil absolutum, del nulla assoluto, ma del niente come non-ente, cioè parla dell’essere. L’essere e il nulla, diceva Sartre, ma nulla in questa accezione, come non-ente, come altro rispetto all’ente, qualcosa che non può mai essere ricondotto all’ente. Ora se l’intelletto comune si imbatte in questa chiarificazione dei rapporti fondamentali dell’esser-ci e della sua esistenza, e sente parlare dl niente e del fatto che l’esser-ci è tenuto-fuori nel niente, sente soltanto il “niente” – qualcosa che in qualche modo sussiste -, e conosce anche l’esser-ci soltanto come qualcosa di sussistente. E quindi conclude: l’uomo è sussistente nel niente, non ha propriamente niente e quindi è anch’esso niente. Una filosofia che afferma questo è puro nichilismo, la nemica di ogni cultura. Ciò è perfettamente giusto, se si comprendono le cose come se queste stessero su un giornale. Qui il niente è isolato, e l’esser-ci è, come sussistente, posto-dentro il niente, invece di vedere che l’essere-tenuto-immerso nel niente non è una sussistente proprietà dell’esser-ci risetto ad un altro ente sussistente, bensì una maniera fondamentale di come l’esser-ci in quanto tale temporalizza il suo poter essere. Sta dicendo che il senso comune e la filosofia in generale immagina che questo niente che interviene, questo niente viene posto come un’altra cosa, ci sono io e dall’altra parte il niente. No, dice Heidegger, l’esser-ci coesiste con il niente, sono due facce della stessa cosa. Non c’è la possibilità di separare per cui uno sta da una parte e l’altro dall’altra. Il niente non è il vuoto che non lascia sussistere niente, bensì, la potenza che allontana sempre da sé la quale, unica, sospinge nell’essere e ci rende padroni dell’esser-ci. Questo niente, dice, non è il vuoto che non lascia sussistere niente ma spinge nell’essere e ci rende padroni dell’esser-ci, perché soltanto questo niente, cioè l’essere, quindi, soltanto se c’è l’essere, il progetto e la storicità, c’è l’esser-ci. Non posso distinguere l’esser-ci dal niente: se l’esser-ci è un ente avrà pure il suo essere da qualche parte! Se l’esser-ci è un ente, l’essere che fa di questo ente l’ente che è, dov’è? Questo niente è ciò che rende possibile l’ente, l’esser-ci, è la sua più intima possibilità. A pag. 384, § 71. Riprendiamo l’“in quanto” che avevamo momentaneamente lasciato da parte. Abbiamo affermato: mondo significa manifestatività dell’ente in quanto tale nella sua totalità. Lo sviluppo del problema ha preso l’avvio dall’“in quanto”. Abbiamo trovato che è un momento strutturale della proposizione, o più precisamente: esprime qualcosa che in ogni asserzione proposizionale è già sempre compreso. Ora, però, bisogna vedere in che modo è sempre compreso, perché qui ne va di tutta la logica. Il pensiero logico è retto da questa sorta di pre-supposizione che le cose siano quelle che sono “in quanto” quelle che sono. Ma è una presupposizione, cioè, qualcosa che si immagina, dice Heidegger, da sempre compreso: si sa che è così, e bell’e fatto. Ma con ciò sorge il dubbio se l’“in quanto” appartenga in senso primario alla proposizione e alla sua struttura o non sia piuttosto presupposto dalla struttura proposizionale. È la proposizione che produce l’“in quanto” o è l’“in quanto” che produce la proposizione. Ma il ritornare a questa origine dovrà aprirci poi l’itero contesto nel quale dispiega la sua essenza quanto noi intendiamo con manifestatività dell’ente, con il suo “nella sua totalità”. A pag. 389, § 72. Questo ci può interessare. Il titolo del paragrafo è La caratterizzazione della proposizione assertoria (λόγος άποφαντικός) in Aristotele. La proposizione assertoria: l’affermare, l’asserire qualcosa. Per garantire al nostro compito il suo intimo collegamento con la tradizione, ma al tempo stesso per porre in evidenza l’elemento basilare del problema in tutta la sua semplicità, mi rifaccio alla caratterizzazione della proposizione assertoria così come l’ha fornita Aristotele i diversi suoi trattati. Ma prima dobbiamo richiamarci alla memoria ancora una volta i termini del problema: il mondo è manifestatività dell’ente in quanto tale nella sua totalità. Sono stati messi in evidenza l’“in quanto” e il “nella sua totalità”. Entrambi sono connessi alla manifestatività. L’“in quanto” è stato concepito nel senso di una relazione introdotta solamente come indicazione formale dell’“in quanto”. Questa relazione appartiene alla struttura della proposizione. La proposizione è ciò che è vero oppure falso, cioè quanto misurandosi su ciò di cui fa un’asserzione, dà notizia, e lo rende manifesto. Questo fa un’asserzione, dice se una cosa è vera o falsa, se è o non è. La totalità di questi rapporti tra la relazione dell’“in quanto” con la struttura e la verità delle proposizioni, viene in luce, se osserviamo attentamente la prima decisiva interpretazione che Aristotele da del λόγος, anche se in un modo tale per cui non vediamo più oltre e non riusciamo ad afferrare immediatamente né il fenomeno dell’“in quanto”, né quel carattere di “nella sua totalità”. Per un’indicazione di carattere generale su come sviluppo il problema del λόγος, in vista della metafisica e in connessione con essa, rimando ad alcuni luoghi in cui ho trattato il problema del λόγος, e in una forma che si distanzia dalla presente; nel contesto del nostro problema infatti seguiremo altre direzioni dell’interrogare/.../ E qui cita il suo testo Kant e il problema della metafisica, che vedremo più avanti. Ora, c’è tutto un lungo discorso sul λόγος άποφαντικός, che è interessante. A un certo punto parla del simbolo, perché Aristotele parla del σύμβολον. A pag. 393. Dobbiamo guardarci dal tradurre σύμβολον con “simbolo” e introdurre per σύμβολον un concetto oggi corrente. Σύμβολον significa gettare-insieme l’uno con l’atro, tenere insieme qualcosa con qualcos’altro, cioè tenerlo unito con qualcos’altro, congiungere l’uno all’altro e l’uno nell’altro. Pertanto σύμβολον significa la compaginazione, la cucitura, la giuntura, dove l’uno e l’altro non sono semplicemente messi assieme, bensì tenuti uniti, cosicché l’uno sia adatto all’altro. Σύμβολον è ciò che, tenuto insieme, si adatta l’un l’altro, e si rivela così appartenente l’un l’altro. Σύμβολα, simboli nel senso concreto originario, sono per esempio le due metà di un anello che due ospiti si scambiano tra loro, e tramandano ai loro figli, cosicché questi in seguito, se si dovessero incontrare, mettendo insieme le due metà dell’anello, si riconosceranno, se quelle combaciano, come con-appartenenti, cioè amici a partire dai loro padri. /.../ Ora Aristotele afferma: il discorso è ciò che è, cioè forma un cerchio di comprensibilità, se è γένεσις di un σύμβολον, se si verifica un venir-tenuti-assieme, nel quale è insito al contempo un convenire. Discorso e parola sono soltanto nell’accadere del simbolo /.../ Cioè, di questa intesa, di questo scambio che tiene uniti ma che, tenendo uniti, crea un qualche cosa di diverso. Lui faceva l’esempio della cucitura delle pagine di un libro. Certo, vengono tenute insieme ma, tenute insieme, formano un tutto unico. /.../ Questo accadimento è la condizione di possibilità del discorso. Che accada questo σύμβολον, questo venire incontro l’un l’altro, questo scambiarsi qualche cosa che in qualche modo li accomuna e al tempo stesso ne fa una sorta di unità, pur mantenendoli come due. Un tale accadimento manca all’animale, che produce solo suoni. /.../ L’uomo si mantiene, e esattamente secondo la sua essenza, insieme a qualcos’altro, nella misura in cui si rapporta ad altri enti o in virtù di questo rapporto/.../ Qui sta dicendo che è in virtù del discorso che tutto ciò accade: perché possiamo parlare. /.../ e in virtù di questo rapporto con l’altro può intendere questo altro in quanto tale. Nella misura in cui all’interno di un tale accadimento emergono dei suoni e si sviluppano per questo intendere, entrano al servizio di significati, che, per così dire, spettano loro. Viene tenuto insieme soltanto ciò che, nell’emissione fonetica, è inteso in quanto tale o con il quale, unificandolo, esso conviene. I suoni che sorgono a partire da e per questo rapporto fondamentale del far convenire che tiene insieme, sono parole. Quindi, per Heidegger e per Aristotele, le parole sono: suoni che sorgono a partire da e per questo rapporto fondamentale del far convenire che tiene insieme. Vi ricordate anche il λέγειν, che tiene insieme, che tiene unito, da cui anche la radice di λόγος, qualcosa che tiene unite le cose. Ovviamente, per tenere unite queste cose occorre che queste cose siano manifeste. Ciò che Aristotele, in modo molto oscuro o approssimativo e senza alcuna spiegazione ha visto con uno sguardo geniale nella parola σύμβολον, non è altro che ciò che noi oggi chiamiamo trascendenza. C’è linguaggio soltanto presso un ente che per sua essenza trascende. Cosa vuole dire questo? Ci sta dicendo che possiamo parlare, che c’è linguaggio, perché ciascun ente si rivolge a una trascendenza, a un qualche cosa che non è lì, presente nell’ente Heidegger direbbe, ovviamente è l’essere di questo ente ciò che ci consente di parlare, perché se questo ente non avesse un qualche cosa che lo rende quello che è, sarebbe niente, sarebbe un mero suono, come per gli animali, ma c’è la trascendenza, c’è qualcosa che va oltre l’ente. Che cosa va oltre l’ente? Ciò che non è ente, niente, l’essere, cioè, il progetto, la mia storicità, il mio essere sempre progettato. Non dimentichiamoci mai che per Heidegger l’essere è progetto-gettato, l’esser-ci. A pag. 395. Le parole sorgono da quella convenzione essenziale reciproca degli uomini secondo la quale nel loro esser-l’un-l’altro sono aperti per l’ente che li circonda, sul quale convengono nei dettagli e tuttavia al temo stesso non possono convenire. Solo sulla base di questo essenziale convenire originario il discorso è possibile nella sua funzione essenziale, il σημαίνειν, il dare-a-comprendere quanto è comprensibile. Ma lui l’accento lo pone sul fatto gli umani sono aperti per l’ente che li circonda, e questa è la condizione perché tutto quanto sta dicendo possa darsi, possa accadere: essere aperti a ciò che li circonda, cioè, essere aperti al mondo, essere aperti all’ente in quanto ente, nella sua totalità. A pag. 396. Ogni λόγος è σηματικός (ogni discorso significa qualcosa), per cui Aristotele dice anche che il λόγος è φωνή σημαντική (un suono che significa qualcosa), un dar forma alla comprensibilità che diviene emissione fonetica, ma non ogni λόγος σηματικός è άποφαντικός. Άποφαντικός vuol dire: che mostra. Ora la questione è: quale λόγος è apofantico, e in virtù di che cosa è tale?  Άποφαντικός: che si mostra. Poi, apofantico nella logica è divenuto sinonimo di vero o falso; quindi, si mostra in un modo, si mostra o come vero o come falso. Cosa contraddistingue il discorso assertorio nei confronti di tutti gli altri? Aristotele dice: άποφαντικός è solo quel λόγος, έν τό άληθεΰειν ψεύδεσθαι ύπάρχει, nel quale è presente l’esser vero o falso. Questo è il discorso apofantico. Così suona la traduzione corrente – quella naturale /.../ Ma dobbiamo discostarcene, perché la traduzione apparentemente letterale non fornisce proprio per niente ciò che i Greci hanno compreso in questa definizione e che, primo fra tutti, ci può condurre al problema del λόγος. Aristotele dice έν /.../ ύπάρχει, un discorso è assertorio nella misura in cui in esso l’άληθεΰειν ψεύδεσθαι non semplicemente “è presente”, bensì perché è insito in esso come fondamento, come base che costituisce il suo fondamento e la sua essenza. L’άληθεΰειν è il dire il vero, il ψεύδεσθαι è il dire il falso. A pag. 397. Mostrante, apofantico, è dunque quel λόγος della cui essenza fa parte il disvelare oppure il velare. Disvelare, άληθεΰειν; velare, ψεύδεσθαι, cioè, nascondere. Da questa possibilità risulta definito cosa significhi apofantico: mostrante. Infatti anche il λόγος velante è mostrante. Anche se vela mostra. Se non lo fosse, per sua intima essenza, non potrebbe mai divenire ingannevole. Se inganno è perché c’è un qualche cosa che può ingannare. Infatti, se proprio voglio dare a intendere qualcosa a un altro, devo già prima essere nell’atteggiamento di chi vuole mostrare qualcosa. L’altro deve a sua volta subito prendere il mio discorso come caratterizzato da tale tendenza al mostrare; soltanto così posso ingannarlo su qualcosa. Con ciò è delineato il problema per l’interpretazione dell’essenza del λόγος. Dobbiamo chiederci: dove si fonda questa intima possibilità di velare e disvelare? Che è tipica del discorso, che, in definitiva, deve dire il vero o il falso. Si chiede da dove viene questa idea di vero o falso. Quando avremo risolto tale problema, potremo rispondere alla questione: che rapporto ha ciò che noi definiamo relazione dell’“in quanto” con la struttura interna del λόγος? Ecco che è tornato l’“in quanto”. Dice che l’“in quanto” è così; a in quanto b, per esempio, cioè, a in quanto questo, a è questo. Quindi, che relazione ha questo “in quanto” con il λόγος? La struttura dell’“in quanto” è solo una proprietà del λόγος o, in ultima analisi, qualcosa di originario, la condizione di possibilità perché un λόγος possa, in generale, essere ciò che è?