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18-6-2003

 

Questa estate ci occuperemo di migliorare le nostre argomentazioni, perché ne abbiamo tante di argomentazioni, però dovremo trovare la via più efficace e anche, se volete, una minore modestia… la potenza del nostro discorso è notevole, per cui possiamo anche tranquillamente attaccare anziché difendere il nostro discorso, cioè cambiare registro: non difendere più il nostro discorso ma darlo come acquisito, implicito e assolutamente assodato, e attaccare chiunque pensi altrimenti. Stavo pensando di scrivere in questi giorni, e di proporvi anche di scrivere, un libello di una quindicina, venti cartelle almeno in cui esponiamo in termini molto semplici e molto chiari il nostro pensiero. D’acchito l’ho immaginato diviso in tre o quattro parti. Dapprima mostrare che il linguaggio è la condizione dell’esistenza, poi mostrare che la psicanalisi non è altro che il non potere non tenere conto di queste condizioni e nella terza parte porre la psicanalisi come la dignità del pensiero e poi, se si vuole, aggiungerne ancora una sezione che può riguardare il fatto che questa sia l’unica via e che non ce ne sono altre…

Intervento: l’unica via per cosa?

Questo emergerà dalle cose precedenti… l’unica via dopo i passi precedenti risulta l’unica via praticabile se si vuole pensare, se si vuole cessare di essere stupidi. Cimentarsi dunque con una cosa del genere, adesso io ho dato dei capitoli ma assolutamente arbitrari, cimentarsi con una cosa del genere. Chi tra voi avrebbe voglia, animo in questo momento, in questo istante di riassumere in poche parole tutto il nostro percorso, i punti, i capisaldi del nostro percorso? Questo è sempre un buon esercizio da fare cioè partire dalla necessità del linguaggio. Cosa è avvenuto in questi dodici anni? Siamo partiti da Freud, se vi ricordate, ma da Freud in che modo? Cosa ci ha detto Freud di importante rispetto a ciò che andiamo facendo? Ci ha insegnato a porre delle domande, porre delle domande tenendo conto che le cose possono essere altrimenti da come si immagina che siano, il passo successivo che abbiamo compiuto, e che nessun altro ha compiuto, è stato quello di porre questo stesso domandare alla teoria di Freud; muovendo in questo modo abbiamo avuto la necessità di reperire degli strumenti un po’ più precisi, logici e linguistici, e così abbiamo fatto. Interrogando tale teoria, cioè applicando ciò stesso che lui ci insegnava a fare alla sua stessa teoria, abbiamo reperito che questa teoria non era fondata, né fondabile, e quindi? E quindi a questo punto un certo disorientamento, perché questo metodo di applicare le stesse domande che una teoria propone, alla teoria stessa, risulta devastante per qualunque teoria, ma a questo punto ecco il colpo di genio: cos’è che ci consente di porci queste domande? Di considerare delle teorie? Di accogliere qualche cosa come una risposta? Che cos’è? È un’altra teoria? No, ché qualunque altra teoria risulta infondabile oltreché infondata, la condizione per potere porre domande a una qualunque teoria che cos’è? È il linguaggio. Il linguaggio come struttura ovviamente, che poi abbiamo individuata come struttura inferenziale, senza di questa non soltanto non posso interrogare nulla ma non posso accorgermi di nulla, non posso considerare alcunché e quindi, a questo punto, abbiamo trovato che questa condizione per potere interrogare una teoria riguarda anche il criterio che è necessario non soltanto per costruire qualunque teoria, ma l’unico criterio possibile, perché non posso costruire nessuna teoria fuori da un sistema inferenziale, perché non posso concludere niente, e non potendo concludere niente non posso fare niente. Sì perché quale altro criterio al di fuori di questo risulta così necessario? Ché già Wittgenstein ci aveva avvertiti che una qualunque dimostrazione, di fatto non avrà fatto nient’altro che dimostrare che ci siamo attenuti alle regole che abbiamo stabilite per fare quella dimostrazione, nient’altro che questo, perché il criterio sarà comunque sempre arbitrario, invece ponendo un criterio necessario allora è possibile fondare una teoria, che è quello che abbiamo fatto, qual è la forza di questo criterio? L’abbiamo detto in varie circostanze: qualunque modo, qualunque via io tenti per confutare questa affermazione, per esempio quella posta così un po’ come emblema, e cioè che qualsiasi cosa questo è un elemento linguistico, dunque qualunque tentativo di confutarla dovrà utilizzare ciò stesso che deve negare, ora una proposizione così fatta risulta autocontraddittoria e cosa succede quando una proposizione è autocontraddittoria, cioè che è vera se e soltanto se è falsa? È inutilizzabile, ma perché una proposizione siffatta non è utilizzabile, quella dicevo autocontraddittoria? E chi dice che non è utilizzabile? Sono tutte domande legittime e noi ce le siamo poste e siamo giunti a considerare che in effetti non è utilizzabile perché a questo punto il linguaggio non segue una direzione, perché di fronte a una cosa del genere si arresta, tant’è che di fronte al paradosso, uno qualunque compreso quello del mentitore che citasti nella tua conferenza, non c’è nessuna possibilità di muoversi né da una parte né dall’altra, cioè è indecidibile. Che ne è di una affermazione indecidibile o autocontraddittoria? Non è utilizzabile, non è utilizzabile per nessuna direzione e quindi che se ne fa? Nulla, la abbandona al suo destino. Tutti i tentativi che sono stati fatti per risolvere i cosiddetti paradossi, cosiddetti perché in effetti l’unico paradosso è quello che afferma che esiste qualcosa fuori dal linguaggio, sono stati fatti perché? Perché uno dovrebbe risolvere il paradosso? Per dare finalmente una direzione e perché dovrebbe farlo? Chi lo muove a fare una cosa del genere? Chi muove chiunque a cercare la soluzione a qualunque problema? La struttura di cui è fatto, cioè il linguaggio, e da qui abbiamo cominciato a fare alcune considerazioni sul funzionamento del linguaggio, abbiamo cominciato a supporre che lo scopo del linguaggio non sia nient’altro che quello di proseguire se stesso, visto che ogni cosa ci portava in quella direzione, ma proseguire se stesso a che scopo? Nessuno, ma sapevamo con assoluta certezza che era il linguaggio che ci consentiva di porci questa domanda e cioè che scopo avesse il linguaggio. E che cosa comporta che sia il linguaggio a consentirci di fare una cosa del genere? Comporta innanzi tutto che qualunque risposta daremo a questa domanda sarà comunque un elemento linguistico, cioè sarà una serie di proposizioni, una sequenza linguistica e che virtù avrà questa sequenza? A quali condizioni la accoglierò come una risposta a questa domanda? E chi detta queste condizioni? Scartata l’eventualità di un dio, perché ci pareva insufficiente, inadeguata oltreché risibile, visto che il tutto si svolge all’interno del linguaggio, ché se io accolgo una certa cosa la accolgo in base a delle altre stringhe di proposizioni, delle regole alle quali penso, alle quali mi attengo, allora tutto questo non può avere che nel linguaggio le sue condizioni e cioè una regola del linguaggio. Allora, ci siamo chiesti, per funzionare il linguaggio di che cosa necessita esattamente? Cosa gli serve per funzionare, sempre tenendo conto che questa domanda è il linguaggio che ci consente di porcela e tenendo conto anche che qualunque risposta ci saremmo dati, a questo punto c’è l’eventualità che la accoglieremo come risposta in base a delle regole che il linguaggio ci impone, ecco allora dunque che cosa serve al linguaggio per funzionare? Un sistema inferenziale, qualcosa che da un elemento consenta di passare a un altro elemento, ma come? Attraverso un sistema deduttivo ma non soltanto, com’è che so che il conseguente è coerente con l’antecedente? Come faccio a saperlo? È il linguaggio che mi dice che è così, ma come? Attraverso che cosa? Perché io posso da un elemento vero concludere a uno vero ma non consequenziale “se questa sera siamo a Torino allora i leoni sono carnivori”, sono entrambe vere ma non coerenti, cos’è che ci fa accorgere che queste due affermazioni, pur essendo entrambe vere, non sono coerenti tra di loro? La prima cosa che viene da pensare è che la seconda non è deducibile dalla prima…

Intervento:

Sì però è possibile fare esempi dove c’è qualche elemento che può rientrare, ma cionondimeno risulta non coerente per esempio…

Intervento: …

Ma che cos’è quell’elemento che il linguaggio impone e che ci fa accorgere se una cosa è o no coerente con quell’altra? Il fatto che il conseguente sia incluso nell’antecedente, e cos’è l’inclusione? L’inclusione non è altro che il fare parte, il partecipare ad un campo semantico, vincolato cioè alle stesse regole che consentono la formazione dell’antecedente, ciò che comunemente si chiama argomento, è implicito, fa parte della premessa. Può non essere evidente, può non vedersi ma se è “coerente” fa parte della premessa. Qui potremmo aggiungere qualcosa però andiamo avanti, dunque accoglierò una risposta a questa condizione cioè se risponde a questi requisiti, se fa parte della premessa se no, no. E questo mi dice che è coerente ma non mi dice ancora che è vero, ché non basta che sia coerente deve essere anche vero. E anche qui dove troviamo questo criterio di verità? Visto che tutto questo, cioè tutto ciò che stiamo dicendo, che diremo e che abbiamo detto non sono altro che proposizioni e dunque troveremo nelle regole che mano a mano il gioco linguistico, cioè quell’insieme di proposizioni del quale insieme talune funzionano come regole, tali altre come passaggi e un’altra ancora come conclusione impongono, esattamente come in qualunque gioco, ed è per questo che li abbiamo chiamati giochi linguistici, perché muovono da alcune proposizioni che funzionano come regole cioè come input, sono delle istruzioni: questo si può fare, questo no. A questo punto queste regole impongono che sarà vero soltanto l’elemento che risponderà a certi requisiti, ma perché? Perché se no non sarebbe un gioco, per lo stesso motivo per cui è vero che due assi battono tre Jack. A questo punto abbiamo a disposizione una serie di buoni elementi che ci dicono con una buona precisione come funziona il linguaggio, sappiamo allora che il linguaggio deve proseguire e prosegue comunque attraverso queste procedure: un sistema inferenziale, coerenza degli elementi tra loro e l’elemento che conclude la serie che deve essere vero, tutto qui, non c’è nient’altro per farlo funzionare. Ma stabilito che funziona così allora se io ho paura del babau questa paura del babau, anche questa chiaramente è inserita all’interno di un gioco linguistico, e allora abbiamo stabilito che cosa? Che ci mancava un elemento: le emozioni, ci abbiamo riflettuto un momento e abbiamo considerato che le emozioni non sono nient’altro che delle proposizioni, delle conclusioni che intervengono in modo inatteso perlopiù e che si ritengono fortissimamente vere. Tanto vere da essere inconfutabili, assolutamente. Sì, è che a questo punto l’elemento che è assolutamente vero ed è assolutamente vero perché per esempio non ha elementi sufficienti per stabilire il contrario, produce quella cosa che noi chiamiamo emozione, l’elemento vero, assolutamente vero. Perché vero? Perché assolutamente vero? Sapete qual è la questione? Perché diventa vero e inconfutabile? Perché lo sento. E cosa vuol dire questo? Lo sento e cioè a partire dalla struttura del linguaggio che costruisce proposizioni che consentono di distinguere il discorso che si sta facendo da qualunque altro, l’io, in pratica, dal resto del mondo allora consente di dire anche “io sento questo” e cioè di riferire a questo operatore deittico il rilevamento di una differenza, come un sensore. Questa differenza viene attribuita, e non può essere altrimenti visto che è all’interno di quel discorso, diciamola così al mio discorso, ma sappiamo che il linguaggio non consente d’acchito di distinguere il discorso da tutto il resto o più propriamente non consente di accorgersi che io sono il discorso, o ponendo questo io come altro dal discorso, e a questo punto ecco che diventa un io che sente delle cose, crea questa serie di proposizioni e stabilisce queste proposizioni come assolutamente vere, anzi come il criterio di verità perché non può negarsi di sentire. È una sorta di trasposizione allo stesso modo, dicevamo tempo fa, perché la struttura è la stessa per cui il linguaggio, il discorso in questo caso più propriamente, non può negare una volta che ha posto un elemento linguistico, non può negare di averlo posto. Non può affermare che è falso se lo ha posto, in questo caso si autocontraddirebbe e si bloccherebbe e questo non lo fa né lo può fare. Non lo può fare perché in questo caso, come vi dicevo, non può proseguire e l’unico obiettivo che ha è quello di proseguire il gioco, continuare a costruire proposizioni che è esattamente quello che fa, anche in questo istante che sto parlando…

Intervento: non si renderebbero inutilizzabili degli elementi

Non può il linguaggio negare l’esistenza di un elemento che ha posto. Cosa avviene quando io dico che sento qualcosa e quindi questo qualcosa è vero? Il linguaggio stabilisce un elemento, però non c’è la possibilità di accorgersi che è il linguaggio, perché a questo punto ha già creato un io che si distingue dal mondo esterno e a questo punto afferma “io sento”, ma questo io è già posto fuori dal linguaggio cioè ci sono io e il discorso che faccio, il linguaggio consente di fare questo e quindi posso affermare “io sento” e non posso negarlo perché sarebbe una contraddizione in termini, il linguaggio non lo può fare, per questo una persona dice se io lo sento e non posso non sentirlo, è il linguaggio che la costringe a dire questo, e ha perfettamente ragione, l’unico inghippo è che non si accorge che questo io di cui sta dicendo non è altro che uno shifter…

Intervento: ma il fatto di non riuscire a distinguere che io sono uno shifter? Ha presente la famosa botta in testa?

Esatto, sto parlando di questo, lui lo sente e non può non sentirlo, è la struttura, esattamente così come il linguaggio non può una volta che ha posto un elemento linguistico negarne l’esistenza, non lo può fare, perché creerebbe una proposizione autocontraddittoria…

Intervento: e non può accorgersi che l’io è uno shifter perché è lo stesso linguaggio che glielo impedisce

Non è che lo impedisca propriamente, è che non ha bisogno di questo per funzionare, non ha bisogno che lui si accorga che lui sta parlando…

Intervento: il linguaggio pone questa distinzione fra l’io e qualche cosa che non sono io, pone già la condizione per cui l’io sia una entità dal non io che è un’altra entità

La pone il linguaggio certo, è costruita dal linguaggio, e il lavoro che abbiamo fatto noi in definitiva in tutti questi anni non è altro che accorgerci di questo, cioè che l’io non è altro che uno shifter, un operatore deittico. Il problema di tutto è questo, fare in modo che l’io possa diventare un operatore deittico, finché questo non accade dirà: “ma io la botta in testa la sento”, legittimamente, perché questo io per lui non è un operatore deittico, è una entità…

Intervento: …

Sì perché il linguaggio inventa la realtà, la costruisce, la subisce, la utilizza fa tutto quello che vuole…

Intervento: diciamo che il linguaggio per funzionare non ha bisogno di queste distinzioni

No, è una cosa che abbiamo imposta noi, certo, è questo che abbiamo fatto in questi ultimi dieci anni, e arrivati a questo punto ecco che pur mantenendo sempre le questioni aperte possiamo cimentarci con un’operazione ancora più ardua che è quella di operare questo passaggio in altri discorsi, fare in modo che il discorso possa accogliere questa ineluttabile considerazione che l’io di cui parla il discorso è uno fra i tanti elementi linguistici, e che la supposizione che ci sia un’entità è un’altra costruzione del linguaggio, al pari di qualunque altra. Questo è un po’ il riassunto degli ultimi dodici anni di lavoro…

Intervento: anche le domande a cosa mi serve quello che vado dicendo, è chiaro che posta in questi termini uno non può intendere le implicazioni del discorso che andiamo facendo, perché a quel punto non c’è più nulla che mi serve quando l’io è rientrato al suo posto, non ci sono più contraddizioni e quando c’è contraddizione è la chance per accorgersi che si sta considerando in modo metafisico una certa questione

Intervento: stavo pensando che questa è la questione fondamentale …la psicanalisi dice l’io produce un discorso, noi la poniamo in termini differenti cioè che soltanto un discorso quello dalla psicanalisi può compiere questa operazione

In qualche modo il progetto di questa estate mira anche a questo: che il libello produca un effetto del genere…

Intervento: …

Sì, quindi e in base all’esistenza dell’io quindi il non io, quindi la realtà esterna e quindi la fisica…

Intervento: sì noi non abbiamo capovolta la questione ma…

L’abbiamo riportata nei suoi termini legittimi. L’io è una regola del gioco, consente al discorso di distinguersi da tutto ciò che è altro discorso, anzi il discorso non è altro che il procedere del linguaggio una volta che si è individuata la differenza con altri discorsi, lo distingue: questo è il mio, questo è il suo etc., qualunque discorso necessita di distinguersi da qualunque altro se no non potrebbe fare niente, esattamente come necessita di distinguere qualunque elemento da qualunque altro, è la stessa cosa. Sono un po’ queste le questioni che ci hanno condotti fino a qui, a questo punto dobbiamo costruire delle argomentazioni e il lavoro di questa estate è appunto questo… c’era una cosa che volevi leggerci…

Intervento: sì l’altra volta parlavamo della meraviglia…

Sì dicevamo che occorre produrre della meraviglia, piacevole meraviglia (un testo del barocco : “Il cannocchiale aristotelico” del 1670 di Emanuele Tesauro.