18 giugno 1998
Intervento: (sui tre principi aristotelici posti come procedure - a seguito lettura “Giochi linguistici” Luciano Faioni - giugno 96)
Non è tanto o soltanto la questione della simultaneità, dell’impossibilità di dire simultaneamente i vari significanti, ma il fatto che proprio linguisticamente occorre che ciascun elemento sia necessariamente identico a sé. Se non fosse identico a sé, cioè se fosse simultaneamente altri elementi, questo comporterebbe la dissoluzione o, più propriamente, la non praticabilità del linguaggio, quindi la sua dissoluzione dal momento che se ciascun termine significa ciascun altro o può essere indifferentemente sostituito con qualunque altro perderebbe la sua specificità. Poi, i linguisti hanno ripreso in parte la questione a proposito dei tratti distintivi, cioè di quegli elementi che consentono di distinguere per esempio il cane dal pane, sono cose diverse, vanno distinte tramite un tratto distintivo che è quello che fa la differenza fra una cosa e l’altra, per cui non sono identiche. La questione centrale in tutto ciò è l’impossibilità che degli elementi linguistici siano identici fra loro, impossibilità proprio logica perché, se fossero identici, il linguaggio non potrebbe funzionare perché ciascun elemento sarebbe ciascun altro, quindi, perderebbe la sua particolarità. Ora, per quanto riguarda i tre principi, in effetti è una questione linguistica e non filosofica, in quanto ciascun elemento non può essere identico ad un altro, né è possibile affermare e negare lo stesso elemento simultaneamente, non tanto per una questione temporale, che è marginale, ma per una questione logica. Così anche il fatto che non sia possibile in nessun modo una terza possibilità, una cosa o è vera o è falsa, ma vera o falsa sempre in accezione linguistica, e logica sempre nell’accezione che stiamo proponendo ovviamente, non nell’accezione logica tradizionale, la quale, come tu hai rilevato, in effetti può almeno parzialmente fare a meno di queste tre istanze. Per esempio, la logica modale e tutte le logiche paraconsistenti, Lukazievich ha eliminato almeno parzialmente la necessità di una logica vero-funzionale, almeno parzialmente, poi, di fatto, comunque la questione rimane, la necessità cioè di potere stabilire la verità anche se in termini differenti, rimane comunque la necessità di stabilire se una proposizione è vera o falsa. Quando parliamo di questioni linguistiche, parliamo in effetti anche di logica e di retorica, di entrambe le cose, visto che abbiamo indicato ultimamente la logica come un sistema di elementi, chiamati procedure, che non possono essere eliminati, salvo la dissoluzione del linguaggio. Pertanto, l’impossibilità è logica, tra l’altro non potrebbe neanche essere temporale anche se abbiamo detto varie volte che, certo, non è possibile dire due cose simultaneamente ma non è per questo, è proprio per una questione logica, di esistenza del linguaggio. Se il linguaggio esiste è perché ciascun elemento è differente dall’altro, se non lo fosse non avrebbe la struttura che ha e quindi sarebbe un’altra cosa, necessariamente. (…) Occorre tenere sempre conto di questo aspetto che è importante. Il fatto che ciascun elemento sia identico a sé è una procedura, non è una deduzione o un teorema. E’ una procedura, come dire è un qualche cosa che non può essere negato, non lo puoi provare e neanche confutare, non puoi provare che un elemento è identico a sé, cioè puoi provarlo ma puoi provare anche il contrario, se lo vuoi. Anche la proposizione che afferma che non c’è uscita dal linguaggio non può essere provata né confutata oppure può essere provata e confutata ma soprattutto non può essere negata, ha questa prerogativa. (…) Una figura retorica è una variante in quanto produce una variazione nel senso. Ma perché si produca una variazione occorre che qualcosa non vari, che ci sia un elemento che non varia sul quale poi applicare una variazione. Se questo elemento non fosse identico a sé ma una variante, un elemento mutevole non identificabile, la variazione avrebbe qualche problema perché non saprebbe su che cosa appuntarsi e quindi occorre che necessariamente l’elemento sia identico a sé. Diciamo che logicamente occorre che sia identico a sé, poi la retorica è appunto quell’apparato di regole che consente infinite variazioni tant’è che si diceva forse la volta scorsa, che affermare per esempio che non c’è uscita dal linguaggio è una affermazione retorica in quanto non è possibile dire una procedura se non attraverso un atto retorico il quale constata il funzionamento di una struttura. Tuttavia, il dirsi di questo rilevamento della struttura non è mai necessario, qualunque cosa si dica non è mai necessaria, ma ciò che si dice può rilevare una struttura necessaria ma che non può dirsi se non attraverso una proposizione la quale necessariamente sarà una proposizione retorica (....) Quello che stiamo facendo in questo momento è una sorta di artificio; di fatto non è possibile, come abbiamo detto in varie occasioni, separare la logica dalla retorica, non esiste una retorica senza la logica che le faccia da supporto, né d’altra parte potrebbe sussistere la logica senza la retorica che è il suo dirsi continuamente. E’ una distinzione, quindi, che facciamo a scopo puramente didattico ma che non esiste di per sé, è solo per intendere un po’ meglio come funziona il tutto. Certamente, se potesse darsi una procedura fuori dalla retorica allora incapperemmo in questo problema che tu hai sollevato, qualcosa che esiste ma che non può dirsi, anche se della procedura, potremmo dirla così, non può dirsi perché è già detta, è già in atto in ciascuna proposizione, in qualunque cosa tu dica la struttura del linguaggio è già funzionante visto che stai parlando. Presa un po’ indirettamente questa è una questione notevole perché induce, lungo una serie di passaggi, a questa considerazione che può essere banale ma ha delle implicazioni non indifferenti, cioè il fatto curiosissimo che ciascuna parola che si dice non ha al di fuori di sé nessun referente. Abbiamo detto moltissime volte che non ha nessun senso di per sé, che lo acquisisce dalla catena in cui è inserito, come dire che ciascuno si trova a dire una infinità di cose quotidianamente e ininterrottamente, nessuna delle quali presa di per sé ha nessun senso; nonostante questo, vengono costruite proposizioni anche complesse e sofisticate utilizzando strumenti che non esistono se non connessi con altri. Questione abbastanza bizzarra, tutto sommato, e che in effetti comporta, come ha comportato, intoppi non indifferenti. Ad esempio, nessuno parlando potrebbe mai definire in termini assoluti quello che dice, come dire che qualunque significante che interviene non è definibile, rimane necessariamente e inesorabilmente indefinito. Questione che forse si nota con maggiore evidenza quando ci si trova di fronte a dei significanti che di per sé sono poco definibili come il bene, la verità, il male. Forse lì è più facile accorgersi che si utilizzano continuamente degli elementi che non sono definibili e, come abbiamo detto altre volte, una serie non indifferente di malintesi, di equivoci. Intendo dire che, posti in questi termini, l’equivoco è strutturale, inevitabile, cioè il fatto che parlando ci si trovi a dire delle cose di cui non si sa, si ignora in modo totale e quindi viene da domandarsi di che cosa esattamente si sta parlando ciascuna volta in cui si parla. Questione che non è così semplice da risolvere e che sottolinea la difficoltà che ciascuno incontra anche rispetto ai propri pensieri....(....) Invece l’illusione è di sapere esattamente che cosa si sta dicendo e cioè che ciascun significante abbia un referente fuori dalla parola per cui sia assolutamente definibile e quindi l’equivoco o l’ambiguità semantica o comunque il malinteso sia dipanabile prima o poi, il che non è, anzi più si cerca di andare a trovare il significato ultimo e più questo sfugge ovviamente perché rinvia per sua natura ad altro. (…) Le procedure non sono altro che gli aspetti logici del linguaggio e gli aspetti logici sono tutti quegli elementi che non possono venire tolti dal linguaggio perché, se tolti, il linguaggio si dissolverebbe. (...) In effetti lui, Aristotele, si è interrogato a lungo su che cosa fosse necessario che fosse e poi, certo, con qualche puntata metafisica però ...(....) Non sappiamo cosa lui volesse dire né ci interessa, interessa che lui ha trovato qualche cosa che linguisticamente ha una portata non indifferente, ha colto le condizioni per cui il linguaggio funziona. Non è poco, anche se lui non intendeva dire una cosa del genere probabilmente, così il famoso motore immoto è il linguaggio il motore immoto... (Fare un discorso logico ...) Nell’accezione che stiamo seguendo adesso? È impossibile perché la logica non può funzionare senza la retorica e cioè senza l’apparato che consenta al linguaggio di funzionare: funzionando il linguaggio produce proposizioni che sono negabili sempre. Tutto ciò che siamo riusciti a fare in questi anni è porre le condizioni per cui sia possibile tenere conto del fatto che qualunque affermazione è retorica e quindi è negabile e quindi non è provabile e quindi è confutabile o entrambe le cose insieme. Soprattutto, ci impedisce di fare quella sovrapposizione che è avvenuta e avviene per lo più sia nel quotidiano sia nell’ambito scientifico, filosofico: sovrapporre la retorica alla logica, immaginare che alcune proposizioni siano logiche e che quindi siano necessariamente vere. Non lo sono ovviamente, sono soltanto nelle migliori delle ipotesi un esercizio retorico fatto al solo scopo di farlo, nient’altro che questo, ma non ci sono le condizioni perché nessuna di queste proposizioni, parlo del discorso scientifico, filosofico, religioso, possa stabilirsi come vera, come necessaria, per cui la ricerca che è stata fatta in questi ultimi due o tre mila anni è una ricerca vana, cioè che non può portare a nulla direi per definizione. Trovare proposizioni o teorizzazioni che si avvicinino di più, che siano più vicine alla verità, come voleva Popper, è una follia, una contraddizione in termini e quindi non resta che l’ineluttabilità di una considerazione e cioè che tutto ciò che viene fatto in questi ambiti è assolutamente gratuito e quindi, come dicevo prima, non è null’altro che un esercizio, come fare le parole crociate o gli anagrammi o i rebus... (Il luogo comune di eliminare i luoghi comuni.) Questo è stato l’intento di ogni pensatore e anche il risultato, cioè sostituire a dei luoghi comuni altri luoghi comuni. Qui ciò che stiamo facendo è una prerogativa che è sfuggita ad altri, non evitiamo affatto i luoghi comuni né li cambiamo ma li utilizziamo al meglio, sapendo perfettamente che sono luoghi comuni, e quindi affermazioni assolutamente gratuite... (…) Abbiamo percorso gli scettici in lungo e in largo, costatando una sorta di ingenuità di pensiero, perché anche questo è diventato un luogo comune e cioè il fatto che se io nego la realtà di qualunque proposizione di fatto io nego anche quella che sto dicendo. E’ evidente allora a questo punto che c’è un intoppo come se oltre a questo punto non si potesse andare e in effetti è stato questo un buon motivo per cui la più parte non ha seguito questa strada, perché si trovava di fronte ad aporie insolubili, come per esempio dire “io nego tutto e quindi negando tutto nego quindi di negare tutto”. Sono dei paradossi molto semplici, poi giungemmo alla considerazione abbastanza semplice, tutto sommato, che una proposizione che afferma che nulla è reale non significa assolutamente niente, non mi interessa affermare che qualcosa sia reale né negarlo ma soltanto riflettere sulle condizioni che ci consentono di dire una cosa del genere, qualunque cosa significhi, come dicevo, prima dare un senso a questa proposizione. Poi, è chiaro che procedendo in quella direzione ci si accorge che il senso di questa proposizione che afferma che nulla è reale è assolutamente arbitrario. E, allora, siamo andati molto oltre affermando che se io faccio un gioco cioè accetto quelle regole tali per cui una delle regole è il fatto che nulla sia reale allora è vero che nulla è reale, all’interno di quel gioco è assolutamente vero, fuori da quel gioco non significa assolutamente niente. Per cui se si fa il gioco degli scettici allora è vero però poco poco che si esca tutto si dissolve nel nulla (...) Wittgenstein ha corretto molto il tiro e ha dato un notevole contributo, certo. Gli scettici sono da leggere così per una sorta di esercizio, esercizio retorico... un modo per acquisire elementi dell’argomentare. (…) C’era Jaskowski, ne abbiamo parlato tempo fa, le logiche paraconsistenti. Lui dice: supponiamo di essere fra amici, sappiamo che non sarà possibile stabilire una verità assoluta nella nostra conversazione, per cui supponiamo che Cesare sostenga A e Roberto sostenga B, ecc. Però, pur sapendo questo, nonostante tutto ciò, noi sappiamo o comunque stabiliamo che all’interno del discorso di Cesare invece sia possibile stabilire una verità e cioè che Cesare possa costruire un discorso coerente all’interno del quale lui può affermare la verità. Questa verità non è ovviamente né assoluta né vincolante più di altri, è soltanto una verità all’interno del suo discorso, questione che poi io ho ripresa rispetto ai giochi linguistici. Anche Wittgenstein pone la questione in questi termini, cioè all’interno del gioco che fa Cesare quella è la verità o più propriamente una regola del suo gioco, e quindi può essere accolta e utilizzata. Certo, sapendo che cosa sta facendo ovviamente è preferibile perché se no, se suppone che anziché essere una regola del suo gioco è una verità assoluta, allora si scaglierà contro di noi perché non accogliamo quella verità, la quale essendo assoluta e quindi terroristica deve essere accolta da tutti necessariamente. Ora, se Jaskowski e altri prima di lui come Lukazievich, sono riusciti a costruire un sistema logico che prevede una terza possibilità, cioè oltre che vero e falso, né vero né falso, vero e falso è il terzo elemento, quello che consente di accogliere degli elementi che sono veri soltanto all’interno di un gioco particolare ma non hanno la prerogativa di essere assolutamente veri così come la logica generalmente cerca di fare e sono riusciti semplicemente aggiungendo degli elementi ai vari assiomi e quindi ai vari sistemi per costruire sistemi logici, inserendo questo terzo elemento e facendo funzionare il tutto … è un po’ come nei computer, si inserisce questo terzo elemento e si fa in modo che funzioni all’interno del sistema. Però, dicevo è un sistema piuttosto parziale perché o lo si intende come dicevo prima come un gioco linguistico, cioè un insieme di giochi linguistici i quali sono retti ciascuno da regole e allora va bene, ma anche in questo caso la questione della verità noi l’abbiamo affrontata in modo molto più radicale di quanto viene affrontata dalla logica o dalla filosofia generalmente perché apposta io uso anziché verità anche rispetto al gioco che sto facendo Cesare... Per definizione la verità è questo. Per questo motivo non è relativa, la verità relativa è sempre paradossale perché se è relativa non è verità, è una regola del gioco, ma la verità cioè qualche cosa che necessariamente è, può darsi? Sì, come no? Che cosa Cesare qualcosa è e non può non essere? ( ....) quindi enunci la verità! La Verità con V maiuscola a carattere gotico: non c’è uscita dal linguaggio. (....) Per cui se uno domanda “è possibile dire la verità?” le persone sono un po’ perplesse di fronte a una domanda del genere, soprattutto diciamo quelle più attente, più addestrate, le altre magari sparano la prima cosa che viene in mente, che io dica per esempio che mi chiamo Luciano Faioni è la verità. Le persone più attente hanno una qualche perplessità e invece no, perché la verità come abbiamo detto prima può non essere ciò che necessariamente è? No, per definizione è questo, se vogliamo ancora utilizzare questo significante, e quindi quello che necessariamente occorre che sia è questo, cioè che il linguaggio esista e che non ci sia uscita dal linguaggio. Quindi, possiamo anche annunciare la verità, abbiamo trovato il motore immoto, abbiamo trovato la verità, abbiamo trovato tutto. Tutto il necessario per costruire una nuova religione.