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18 maggio 2022

 

Aristotele Retorica

 

Proseguiamo con la Retorica di Aristotele, dove non troverete delle considerazioni teoretiche, né di rilievo né di non rilievo. C’è una continua, insistente articolazione dei modi per ottenere il consenso, così come in tutti i manuali di retorica, per cui le considerazioni teoretiche dobbiamo mettercele noi. Possiamo fare la prima considerazione partendo relativamente da lontano, dal fatto che dobbiamo pensare in modo teoretico e non più teorico. Una teoria, di fatto, non è nient’altro che un’ipotesi, si pone sempre ipoteticamente, come dire: se le cose stessero così come dico io, allora questi sarebbero gli effetti, le conseguenze, le implicazioni. Il problema è verificare che le cose stiano esattamente come dico io, e questo è complicato. Ma la forma in cui tutto questo si configura potremmo coglierla in quella cosa che in matematica è nota come teoria dei limiti. Solo che la matematica se ne occupa in quanto operatore matematico, mentre a noi importa porre la questione del limite come figura retorica. Nella teoria dei limiti, il limite per x che tende a 1, non è nient’altro che Achille che corre verso 1, che è la tartaruga, e non la raggiugerà mai. Quindi, ogni figura retorica deve compiere questo miracolo che fa questo operatore come limite, e cioè fare in modo che l’interlocutore creda, pensi che Achille ha raggiunto o potrà raggiungere la tartaruga, cioè sia possibile, come direbbe Platone, cogliere, determinare l’ente così com’è. Ogni figura retorica ha questa forma, ed è per questo che sono partito da lì, perché è emblematico. Prendete la figura retorica più tradizionale, quella che si trova in tutti i manuali: la metafora. Qual è l’esempio di metafora che fanno tutti i manualetti di retorica? È tratta dal Manzoni, “Don Abbondio non aveva di certo un cuor di leone”. Cosa accade in questa frase? Che intanto è la negazione di un’iperbole: avere un cuore di leone significa avere un grandissimo coraggio. Qui, però, la negazione dell’iperbole non riporta la frase a quello che Roland Barthes chiamerebbe il grado zero, cioè, l’esposizione di un dato di fatto senza nessuna aggiunta retorica, per cui in questo caso la frase dovrebbe essere: Don Abbondio non è coraggioso. Ma come si configura questa figura retorica? L’obiettivo della figura retorica è mostrare la mancanza assoluta di coraggio da parte di Don Abbondio, deve mostrare questo. L’assenza di coraggio in Don Abbondio è per Platone l’ente che deve essere mostrato. Naturalmente, è complicato mostrare una cosa del genere, ci sono sempre infiniti controesempi che si possono fare in retorica, ma in questo caso l’uso della negazione dell’iperbole aiuta perché, se il cuore di leone significa un coraggio estremo, l’assenza del cuore di leone comporta l’assenza totale e assoluta di coraggio. Quindi, non è soltanto mancanza di coraggio, come vorrebbe il grado zero, ma molto di più, è un’enfasi, altra figura retorica – in ogni figura retorica ci sono tante figure retoriche. Quindi, la figura retorica, in questo caso la metafora, deve mostrare all’interlocutore come stanno le cose, cioè, che si è raggiunto l’obiettivo, che le cose stanno proprio così, cioè che Don Abbondio era assolutamente privo di coraggio. L’obiettivo è raggiunto e si afferma questo: Achille ha raggiunto la tartaruga, la x è diventata 1. Questa, come dicevo, è la forma di ogni figura retorica, ogni figura retorica deve mostrare che il punto di arrivo è raggiunto o che è possibile raggiungerlo. Questo è l’inganno, a dispetto di Zenone che, invece, come sappiamo, dice che non è possibile. Ma questa impossibilità, che viene aggirata e raggirata tanto dalla figura retorica quanto dalla matematica, rappresenta il nucleo centrale di tutta la retorica. Tutto ciò che leggeremo anche qui, lo vedrete, non è altro che questo: cercare di convincere qualcuno, di mostrare a qualcuno che si è raggiunto l’obiettivo, che se fai questo allora raggiungerai l’obiettivo. Si mostrano, per esempio, una serie di virtù della persona per mostrare l’obiettivo, e cioè l’obiettivo è fare credere che questa persona è una persona a modo. Questo è l’obiettivo e lo si è raggiunto, attraverso una serie di procedimenti che Aristotele illustra. L’importante è intendere come ogni figura retorica, per funzionare, deve fare questo, cioè, mostrare che l’ente lo si può raggiungere o che è già raggiunto, cioè dominato o, quanto meno, che posso dominarlo facendo in un certo modo. La figura retorica è una modalità di dominare l’ente o, potremmo dire più appropriatamente, di fare credere di potere dominare l’ente. Questo ci dice il perché, come abbiamo visto in altre occasioni, è efficace, perché la retorica funziona. A un certo punto Aristotele dice che tutti desiderano e godono moltissimo nel comandare, e cioè nell’esibire il potere, ma non dice perché. Certo, è un luogo comune il fatto che tutti amino il potere, ma perché? Questo diventa già più complicato e Aristotele non lo sapeva, pur avendo lui stesso posto gli elementi per poterlo intendere molto bene, cioè perché non può non darsi una cosa del genere. Gli elementi li aveva espressi nella Metafisica quando parlava della δύναμις e della νέργεια: non c’è δύναμις che non sia anche νέργεια, non c’è potenza che non si volga all’atto, che non diventi atto; la potenza deve diventare atto, perché non se c’è l’atto non c’è nemmeno la potenza. E questo non è altro che il dominio sull’ente. Quindi, tenendo conto di queste considerazioni, leggeremo alcune cose. Aristotele non fa che mostrare i modi per fare funzionare qualche cosa, che, tuttavia, non sa perché funziona. 1370a. Per lo stesso motivo è piacevole anche ciò che si presenta a intervalli di tempo, si tratti di uomini o di cose. Infatti, vi è un cambiamento rispetto al presente, e nel contempo ciò che si presenta a intervalli di tempo è anche raro. Imparare e ammirare, inoltre, sono per lo più cose piacevoli, perché nell’ammirare è insito il desiderio di imparare – e di conseguenza ciò che è oggetto di ammirazione lo è anche di desiderio –, nell’imparare un riferirsi a una condizione naturale. Fanno parte delle cose piacevoli anche fare e ricevere il bene, poiché ricevere il bene significa ottenere ciò di cui si ha desiderio, mentre farlo vuol dire possedere più del normale: entrambe condizioni ambite. C’è sempre un possedere, sempre un avere qualche cosa in più, sempre un potere mostrare la propria forza. E dal momento che è piacevole fare il bene, è allora piacevole per gli uomini anche migliorare che sta vicino a loro e correggere i difetti. Correggere i difetti dell’altro. Ricordate cosa diceva Nietzsche rispetto al porgere l’altra guancia, come il culmine della volontà di potenza: io sono talmente al di sopra di te, che tu non esisti, puoi fare tutto quello che vuoi, non ci sei, neanche ti vedo. 1371b. Anche le peripezie, inoltre, e lo scampare di poco ai pericoli, perché tutto ciò è oggetto di ammirazione. Lo scampare il pericolo, come gli sport estremi, fino alla roulette russa. Dal momento che comandare è piacevolissimo, è piacevole anche sembrare saggio, perché essere assennati è una qualità di chi comanda, e sapienza vuol dire conoscenza di un gran numero di cose che destano ammirazione. Fa un’esposizione continua di tutte le figure della volontà di potenza. Potremmo dire tranquillamente a questo punto che tutte le figure retoriche sono figure della volontà di potenza. Inoltre, poiché per lo più gli uomini sono ambiziosi, è inevitabile che sia piacevole indirizzare critiche a chi ci sta vicino e comandare; ed è piacevole anche dedicarsi all’attività nella quale un uomo ritiene di essere lui stesso il migliore, come dice ed esorta in questo senso anche il poeta: “dedicando la maggior parte di ogni giorno / a ciò in cui gli riesce di superare se stesso. Perché è l’unica cosa che desta ammirazione. Nello stesso modo, poiché il gioco e ogni forma di ricreazione, rientrano tra le cose piacevoli, è inevitabile che ciò che è ridicolo – uomini, discorsi o opere – sia piacevole. Chiaramente, il ridicolo per chi lo attua e non per chi lo subisce, per il quale è assolutamente seccante. 1375b. …cercare di saperne più delle leggi è esattamente quello che viene proibito nelle leggi più stimate. Questa cosa che dice di sfuggita è importante. Dice: cercare di saperne più delle leggi: c’è una cosa rispetto alla quale non è lecito, non è consentito né dubitare né, peggio ancora, domandare. È chiaro che se per Aristotele le leggi del pensiero sono quelle che lui immagina nella Metafisica, leggi che, una delle quali dice che il vero è ciò che i più credono che sia, non devono essere messe in discussione, è così e tanto basta. 1376a. Per quanto riguarda le testimonianze, chi non dispone di testimoni da produrre dovrà argomentare affermando che è necessario giudicare in base alla e probabilità, ed è questo il significato dell’espressione “con migliore facoltà di giudizio”, che le probabilità non possono ingannare per denaro, e che le probabilità non possono essere accusate di fornire falsa testimonianza; chi invece dispone di testimoni e affronta un avversario che ne è sprovvisto, dovrà dire che la probabilità non rientra nella legge e che non ci sarebbe affatto bisogno di testimonianze, se bastasse giudicare in base ai ragionamenti. Cioè, si utilizza di volta in volta il discorso che conviene. 1378a. Definiamo l’ira come un desiderio di aperta vendetta, accompagnato da dolore, per una palese offesa rivolta alla nostra persona o a qualcuno a noi legato, quando l’offesa non è meritata. Se l’ira consiste in questo, chi è adirato deve necessariamente essere sempre adirato con un particolare individuo – con Cleone, ad esempio, non con l’uomo in generale – e perché costui ha fatto o stava per fare qualcosa contro di lui o contro una persona a lui vicina; ogni manifestazione d’ira, inoltre, è accompagnata da un certo piacere che deriva dalla speranza di vendicarsi, in quanto è piacevole pensare di ottenere ciò che si desidera, e nessuno desidera ciò che è palesemente impossibile per lui, mentre chi è adirato desidera qualcosa che è per lui possibile. Infatti, un certo piacere è sempre presente, sia per questa ragione, sia per il fatto che si passa il tempo a vendicarsi con il pensiero, e l’immagine che ne nasce genera piacere, come accade nei sogni. La vendetta è una cosa che si pensa continuamente, la si coltiva, si gode del pensiero della vendetta. E la vendetta che cos’è? Il rimettere le cose a posto, naturalmente secondo un “a posto” molto personale. Ma che cosa fa esattamente? Ripristina lo stato in cui io sono rispettato, stimato; quello stato in cui io ho il controllo della situazione. Se io non sono rispettato, se non sono stimato, se sono considerato niente, perdo il controllo di tutto, sono in balìa di tutti gli eventi; invece, se mi vendico, come dicevo, rimetto le cose al loro posto e ritorno padrone della situazione. 1378b. La causa del piacere che gli uomini provano nell’insolentire è il fatto che credo, facendo del male agli altri, di risultare essi stessi superiori. Anche l’insolentire è un innalzarsi. Perché si insolentisce, si umilia qualcuno se non per volere innalzarsi, cioè per mostrare al mondo di avere potere di lui? 1379a. Gli uomini si adirano, inoltre, con quelli che diffamano o disprezzano ciò cui maggiormente essi attribuiscono importanza, come ad esempio succede a quelli che vogliono essere onorati per il loro sapere filosofico, se qualcuno parla male della filosofia, e a quelli che si vantano per la loro bellezza, se qualcuno parla male della bellezza, e così via nello stesso modo per le altre cose;… Questa è un’altra tecnica retorica: lo sminuire qualcosa che per l’altro è importante. Sminuire qualcuno è fargli notare che non è vero che ha raggiunto il suo obiettivo, che ha fallito. È come se dicesse ad Achille: non è vero che hai raggiunto la tartaruga, hai fallito; o se dicesse alla x: non è vero che hai raggiunto l’1, hai fallito e non lo raggiungerai mai. 1379b. Gli uomini si adirano maggiormente contro chi non conta nulla, se manca di rispetto nei loro confronti, in quanto si è presupposto che l’ira per una mancanza di rispetto si rivolge contro chi non ha diritto di compierla, e gli inferiori non hanno diritto di offendere; contro gli amici, inoltre, se non parlano bene di loro o non li trattano bene, e in misura ancora maggiore se fanno il contrario, o se non si accorgono delle loro necessità, come Plessippo nella tragedia di Antifonte si adirò con Meleagro, in quanto non accorgersi è segno di offesa: ciò di cui ci preoccupiamo non ci sfugge.  Anche questo è uno dei modi infiniti con cui le persone sminuiscono il prossimo, per esempio facendo finta di non vederlo, far finta di non ricordare il suo nome, far finta di non averlo mai incontrato: è come togliere importanza all’altro. 1383a. …per provare timore è necessario che, nella loro situazione di angoscia, rimanga una qualche speranza di salvezza. Eccone la prova:… Intanto vediamo cosa intende lui con prova. …la paura spinge a prendere decisioni, mentre nessuno decide a proposito di cose senza speranza. Di conseguenza, quando sia preferibile che gli ascoltatori provino paura, è necessario porli nella disposizione d’animo di credere d’essere soggetti a soffrire (altri uomini anche più grandi di loro, infatti, hanno già sofferto), e dimostrare che persone simili a loro stanno soffrendo o hanno sofferto, a causa di uomini da parte dei quali non lo pensavano, e in cose e in circostanze in cui non lo credevano. È la minaccia: se non fai come dico io, vedrai cosa ti succederà. 1380a. Gli uomini si adirano poi contro quelli che mancano di rispetto nei confronti di persone tali che per loro risulterebbe vergognoso non intervenire a difenderle, ad esempio i genitori, i figli, le mogli, i sottoposti; e poi contro gli irriconoscenti, perché la loro offesa va contro il dovuto; e contro chi ha un atteggiamento ironico nei loro confronti quando essi hanno invece un comportamento serio, perché l’ironia implica disprezzo;… Questa è una delle più potenti armi della retorica: l’ironia, il ridicolizzare qualcuno. Se si riesce a ridicolizzare l’avversario, l’avversario è morto, finito, non si rialza più, perché ha fatto ridere tutti e da quel momento in poi tutti quanti lo considereranno un niente, e quindi l’operazione è compiuta. Abbiamo detto con quali persone ci si adira, e nello stesso tempo anche con quale disposizione d’animo e per quali ragioni. È evidente che l’oratore, per mezzo del suo discorso, dovrà porre gli ascoltatori nella disposizione d’animo di chi è incline all’ira, e dipingere gli avversari come responsabili di azioni che suscitano l’ira, e come un genere di persone con il quale ci si adira. Questo modo è in fondo una sorta di ipotiposi: creare una situazione con le parole, fare vedere una situazione nella quale tutti si adirano, e poi metterci dentro quell’altro; fare vedere come sia giustissimo adirarsi contro costui, perché è un delinquente, uno sciagurato, ecc. Poiché l’adirarsi è l’opposto del diventare miti, e l’ira lo è della mitezza, si deve stabilire con quale disposizione d’animo e nei confronti di quali persone gli uomini siano miti, e con quali mezzi diventino tali. Definiamo il “diventare miti” una repressione e un abbandono dell’ira. Quindi, il diventare miti è una repressione dell’ira. Sembra quasi che lui muova dall’idea che alla base ci sia l’ira e che il diventare miti consista in nient’altro che nel tenere a bada, a freno l’ira. In effetti, tutti sono in un certo senso irosi, perché l’altro è comunque il nemico. Questo lo aveva già detto Aristotele tra le righe e Hegel in modo molto chiaro: ciò che è altro da me si oppone a me, quindi, è un opponente, quindi, è un nemico, di cui, tra l’altro, si ha bisogno per proseguire a parlare e andare avanti. 1380a. …inoltre, con quelli che ammettono e si pentono per il loro torto, perché gli uomini pongono termine alla propria ira, come se ritenessero il fatto che si provi dolore per ciò che si è commesso una forma di riparazione, e una testimonianza di questo si vede nella punizione degli schiavi, in quanto puniamo più duramente quelli che contraddicono e negano, mentre nei confronti di quelli che ammettono di essere puniti giustamente viene meno la nostra collera. /…/ Gli uomini sono miti verso coloro che si umiliano di fronte a loro e che non li contraddicono, perché sembrano ammettere di essere inferiori, chi è inferiore ha paura, e nessuno offende se ha paura. È evidente qui che chi si umilia è come se riconoscesse il potere dell’altro su di lui; è come se dicesse: tu sei più grande e più forte di me, io mi faccio piccolino, quindi, abbi pietà di me! Gli uomini sono miti anche con chi si comporta con serietà con loro… Riconoscono la serietà dei ragionamenti, dei loro discorsi: è un riconoscimento che viene fatto. …quando essi stessi sono seri, perché pensano così di essere trattati seriamente e non con disprezzo;… Vedete come sono tutte figure della volontà di potenza. 1380b. Gli uomini diventano infatti miti, quando abbiano sfogato la loro ira contro qualcun altro, come accadde nel caso di Ergofilo: sebbene fossero irritati con lui più che con Callistene, lo mandarono assolto… Avevano già soddisfatta la vendetta: la volontà di potenza era stata soddisfatta. È stato riconosciuto il mio potere e a questo punto mi posso calmare, sono soddisfatto, non ho più bisogno di imporlo con la forza. Persuadere è dominare l’altro, non è nient’altro che questo. Gli enti, nel senso delle cose inanimate, non si persuadono; invece, un parlante, un vivente, un uomo, per dominarlo occorre piegare la sua volontà. Certo, lo si può piegare con la forza, però, in questo caso, si utilizza un altro sistema, che è più efficace del piegare con la forza. Sappiamo bene che il modo migliore per piegare qualcuno è fargli fare quello che voglio io facendogli credere che è quello che vuole lui. È evidente, dunque, che gli oratori che vogliono rendere miti gli ascoltatori devono ricavare le argomentazioni da questi “luoghi”: devono produrre in loro un tale stato d’animo facendogli apparire le persone con le quali sono adirate come persone temibili, o degne di rispetto, o che hanno reso grandi favori, o che hanno agito involontariamente o che soffrono per quello che hanno fatto. Hanno commesso il crimine ma non volontariamente, e cioè non volontariamente si sono opposte a noi, ci hanno offesi ma non c’è la volontà di umiliarci. È qui la questione: non hanno la volontà di umiliarmi, quindi, di imporre il loro potere su di me; a questo punto posso essere mite con loro. 1381a. Amici sono inoltre coloro per i quali risultano buone o cattive le stesse cose, e che sono amici o nemici delle stesse persone, perché inevitabilmente avranno gli stessi desideri, e di conseguenza chi vuole per un altro ciò che desidera anche per se stesso appare suo amico. Questa è una delle migliori definizione di amicizia. Chi è l’amico? È colui con il quale condivido le mie credenze, le mie superstizioni, le mie opinioni, quindi, le mie teorie. La teoria è un’opinione, nel senso che la premessa di ogni teoria non è mai incontrovertibile, non è mai certa; quindi, o la si considera un’opinione tra le mille possibili, cosa che non accade quasi mai, oppure si dimentica che è un’opinione e si immagina, si crede, si vuole che abbia invece premesse certe, e allora diventa un’ideologia: si crede che sia così, non è più un’ipotesi ma una vera e propria ideologia, una certezza. (Amici) che odiano le stesse persone, perché tutti costoro hanno il loro stesso concetto a proposito del bene, e di conseguenza desiderano le medesime cose: e questa era appunto una caratteristica propria dell’amico. Cioè: confermare tutte le sue credenze, tutte le sue teorie. Un’opinione è una teoria: avere un’opinione vuole dire che si è costruita una certa teoria su una certa cosa. Opinione che può diventare, come dicevo prima, un’ideologia, nel momento in cui “dimentico” che è solo un’opinione, e cioè che non ha nessun fondamento certo, non ce l’ha e non può averlo. Achille non ha raggiunto la tartaruga, è ancora lì che corre. I matematici fanno anche questo discorso strano, perché parlano di avvicinarsi al punto. Ma come si fa ad avvicinarsi a un punto se questa distanza è infinita? Anche se questo spazio sembra più piccolo, è sempre infinito. Qui c’è Zenone: quello spazio, per quanto piccolo, è infinito. C’è un infinito più grande o più piccolo? Necessariamente no, perché se ci fosse uno più grande o uno più piccolo vorrebbe dire che sono misurabili, e se misurabili, non sono l’infinito. Quindi, anche lo spazio sulla carta, per quanto piccolo è sempre infinito, non è né più piccolo né più grande, è infinito e basta. Il dire che ci si avvicina, anche quello è un inganno; in realtà, non si può sapere se ci si è avvicinati, è infinito anche quello. 1387a. Poiché ciò che è antico sembra prossimo a ciò che è naturale, necessariamente gli uomini si sdegneranno in misura maggiore, tra le persone che possiedono lo stesso bene, con quelle che si trovano ad averlo da poco tempo e che prosperano grazie ad esso; le persone arricchite da poco infastidiscono più di quelle che sono ricche da lungo tempo e di famiglia, e lo stesso discorso vale per le cariche pubbliche, il potere, le amicizie numerose, la discendenza, e ogni altro aspetto di questo genere. /…/ La causa è che gli uni sembrano possedere quello che spetta loro, gli altri no, poiché ciò che appare sempre in uno stesso modo sembra realmente tale… Una dinastia è sul trono da mille anni: sembra naturale che sia così. Come i Savoia, che regnavano dall’anno mille, quindi, dovrebbe apparire naturale che siano loro a governare. …e di conseguenza gli ultimo sembrano avere quello che non spetta loro. E dal momento che ogni non spetta al primo che capita, ma si trovano in questo una certa corrispondenza e una certa convenienza – armi belle, ad esempio, non sono adatte all’uomo giusto ma a quello coraggioso, matrimoni illustri non ai nuovi arricchiti, ma ai nobili –, il fatto che una persona, pur essendo di valore, non ottenga ciò che le si addice può provocare sdegno; e anche quando l’inferiore si oppone al superiore soprattutto riguardo a quel che hanno in comune. Anche questo è uno dei luoghi della retorica: ciò che è di lunga data appare essere quasi di natura divina: è sempre stato così, quindi…; quindi, non ci si oppone più, diventa una cosa ovvia, naturale, della quale non ci si sorprende, non ci si stupisce, non ci sorprende più il fatto che ci siano dei governanti al governo e che ci sia la necessità di governare. È la stessa cosa che accade rispetto al capitalismo. Il capitalismo non è sempre stato, ma a un certo punto è sorto. Marx ha fatto qualche riflessione intorno a questo. Ma oggi il capitalismo appare – e questo è il messaggio che viene inviato continuamente – come un fatto naturale. Non ci si può opporre al capitalismo: il capitalismo è la vita stessa dell’uomo. È come se fosse una legge naturale, alla quale non ci si può opporre in nessun modo, perché è la natura delle cose e, dunque, diventa acquisito per sempre. Diventa quella cosa a cui nessuno può opporsi, e chi si oppone è immediatamente un sovversivo, è colui che va contro le leggi della natura.

Intervento: Il giusnaturalismo…

Il giusnaturalismo, il diritto naturale, fa sempre da sfondo, in fondo giustifica sempre e comunque il diritto positivo. Il diritto positivo, che dice che noi facciamo queste leggi perché ci convengono in questo momento, presuppone sempre e comunque che le persone siano fatte in un certo modo per natura e che, quindi, naturalmente vadano in una certa direzione piuttosto che in un’altra. Questa idea che ci sia un fondamento, una cosa stabile, certa e sicura, ecco, questa è incrollabile, e di questo dobbiamo ringraziare Platone e la sua dialettica, cioè, l’idea che sia possibile cogliere l’ente così com’è. In fondo, il giusnaturalismo dice che la natura è questa, che le leggi di natura sono quelle, si vedono, sono evidenti a tutti e non bisogna aggiungere altro.

Intervento: …

Sì, tutta l’Europa dell’Est, compresa la Russia, ha questa posizione legata al diritto naturale, rispetto alle origini, alle tradizioni, ecc., che va ovviamente in contrasto con il diritto positivo, che invece è una costruzione palesemente umana, fatta dagli uomini, i quali però sono fatti di natura. Era il discorso che faceva il marchese de Sade, che, all’interno del suo scritto La filosofia nel boudoir inserisce un altro scritto, politico, dove dice: “Francesi, ancora uno sforzo!”. Secondo lui, gli umani, essendo di natura, non possono fare cose che si oppongano alla natura; loro stessi sono natura, quindi, qualunque cosa facciano, anche le più ignobili, sono sempre cose naturali, quindi, garantite dal giusnaturalismo. È l’idea che la natura costituisca la garanzia, perché nella natura c’è finalmente qualche cosa di stabile, di sicuro, di certo. È quell’ente di cui parlava Platone: la natura mostra l’ente così com’è. Che, in fondo, era quello che pensavano i Greci, tutto sommato: il φανεσθαι, il mostrarsi del fenomeno così com’è per loro era l’essere, l’essere è quello: ciò che si mostra così come appare. Da lì l’idea che ciò che si mostra debba mostrare anche qualche cosa di più di ciò che vedo, cioè deve mostrare ciò che lui veramente è. Solo che a questo punto sorgono i problemi, perché tu lo vedi che Achille raggiunge la tartaruga, lo vedi, ma non lo puoi concettualizzare, non lo puoi dimostrare; quindi, in realtà, che cosa stai vedendo esattamente? Cosa vedi? Cos’è quella cosa che tu dici di vedere? Non lo sai, perché, sì, dici che lo vedi; va bene, e allora? Ma che cos’è che stai vedendo esattamente? Dimostrami che quello che vedi è esattamente quello che credi di vedere, cioè che Achille sorpassa la tartaruga. Dimostra che la x che tende a 1 è diventata 1. Ora, Aristotele va avanti con tutte queste storie per tutto il libro, non è che ci siano grandi riflessioni, sono sempre e soltanto suggerimenti che dà per ottenere la persuasione, cioè, per fare credere che Achille raggiunge la tartaruga. Ci credeva Aristotele? Non propriamente. Anche per lui la retorica era in fondo un inganno e, infatti, non fa altro che parlare di inganni, come ingannare qualcuno per fargli credere una certa cosa. Però, non ha quell’avversione che aveva Platone nei confronti della retorica, perché Aristotele non muove più dall’idea che esista l’ente in quanto tale, ma l’ente, o più propriamente l’essere, in Aristotele è quello che è per via di determinazioni, quelle cose che lui chiama “categorie” (qualità, quantità, ecc.). Quindi, in Aristotele c’è una maggiore elasticità nei confronti della retorica, proprio perché questo ente, come lo immaginava Platone c’è ancora, certo, ma non così come per Platone.