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18 aprile 2018

 

Concetti fondamentali della metafisica di M. Heidegger

 

Volevo accennarvi, prima di iniziare la lettura de I concetti fondamentali della metafisica di Heidegger, a un progetto teorico che ho in mente e che, fra le altre cose, giustifica la lettura di questo testo. A partire dalle cose che dicevamo mercoledì scorso, l’idea è che la metafisica, lo vedremo poi in Heidegger, costituisca, come dice lui, non soltanto la filosofia in quanto tale ma il pensiero in generale. Si pensa metafisicamente e le parole che si dicono in qualunque situazione sono parole della metafisica. Heidegger si accorge di questo ma riguardo alla filosofia, dice che la filosofia, per dire le cose, è rimasta attaccata alle parole di Platone e di Aristotele e queste parole di Platone e di Aristotele sono le parole della metafisica: la parola fondamentale è l’essere. Ecco che allora Heidegger incomincia a scrivere l’essere barrato, o Sein con la y (Seyn), con vari trucchetti che lasciano il tempo che trovano, e lui se ne accorge. Il problema è che non abbiamo altre parole, però si può pensare la cosa più in grande, cioè incominciare a riflettere se ciascuna parola che usiamo è necessariamente una parola metafisica. Cosa vuol dire che è una parola metafisica? Vuol dire che è una parola che si pone come se avesse da qualche parte un principio primo che la sorregge e che, quindi, la facesse essere quella che è. Detto questo, consideriamo il modo in cui si pensa. Ogni pensiero è strutturato come un racconto, come una narrazione, e chi si è occupato di questo e ci ha detto come funziona un racconto, come si costruisce, qual è la sua struttura, è stato Greimas. Nella Semantica strutturale diceva cose molto simili a quanto stiamo dicendo: il nucleo semico, cioè la parola da sola, non esiste se non ci sono semi contestuali, se di fatto non è inserita in un racconto. Dunque, questo racconto che andamento ha? Greimas ce lo dice con un esempio che abbiamo fatto qui mille volte: il principe che deve salvare la principessa, chiusa in un castello, ma per farlo deve ammazzare il drago, con buona pace degli animalisti. Quindi, la struttura è questa: devo ottenere una certa cosa ma per ottenerla devo superare o eliminare un ostacolo. L’idea, che mi è venuta in questi giorni, è che qualunque pensiero è fatto così, strutturato a questa maniera, cioè deve raggiungere un qualche cosa ma per farlo c’è un ostacolo da superare. Non può raggiungere la cosa immediatamente, cioè, senza una mediazione; in questo caso il drago funge da elemento di relazione tra il principe e la principessa. Tutto questo ci porta, a questo punto, a fare una sorta di accostamento tra il racconto, di cui parla Greimas, per cui devo andare da lì a là ma c’è un elemento in mezzo che me lo impedisce, e la formula, di cui parla Peirce, a è b. Anche in questo caso, che indicavo come la struttura del linguaggio, cioè per dire una cosa devo dirne un’altra, per dire che cos’è la a devo dire b. Ogni volta che penso qualcosa, che costruisco un qualche cosa, ho un progetto, un obiettivo, ma per raggiungere questa cosa devo superare un ostacolo. Qual è l’ostacolo, fondamentalmente? È che per dire che cos’è una cosa ne devo dire un’altra. Questo è l’ostacolo, ostacolo che non è sormontabile, non posso toglierlo, perché questo elemento che mi consente di dire che cos’è una certa cosa, cioè quest’altro elemento che mi consente di dire che cos’è il primo, se per assurdo lo potessi togliere allora non saprei più che cos’è la a, perché non ci sarebbe più la b, c’è soltanto la a, e allora come faccio a sapere che cos’è una a se un qualche cosa non mi significa un qualche cosa? Se tolgo la b non c’è più neanche la a, è questa la questione principale. Quindi, l’ostacolo è necessario, lo chiamo ostacolo non in senso negativo ma potete pensarlo come quella distanza che il segno inaugura, la distanza tra qualche cosa e ciò che questo qualche cosa significa. È esattamente la questione del segno in Peirce: il segno è segno per un atro segno, non è segno per se stesso, è segno per un altro segno, il quale è segno per un altro segno, e così via. Ogni cosa che si pensa ha questa struttura, cioè è costruita come quel modello di racconto di cui parla Greimas: voglio ottenere una certa cosa ma per ottenerla c’è una difficoltà da superare. Anche in ambito teorico, per esempio, voglio articolare ed elaborare una certa questione ma per farlo c’è una serie di problemi, contraddizioni, cose che non sono chiare e che devono essere precisate, ecc. In questo caso l’ostacolo sono tutte queste cose ma non sono nulla di negativo, anzi, delle volte può accadere che siano proprio questi ostacoli, questi altri pensieri che si frappongono tra me e la meta, l’obiettivo che voglio raggiungere, che si rivelano essere addirittura più importanti della meta che mi ero prefissata. Parlare di ostacolo non ha nulla di negativo, è semplicemente quella distanza inaugurata dal segno. Quindi, la metafisica ci dice che questo modello, di cui parla Greimas, il principe, la principessa e il drago, è un modello metafisico, cioè per raggiungere un significato, la principessa in questo caso, devo superare un ostacolo che, nel caso teorico della metafisica, significa superare un problema e il problema è dare un fondamento. Se l’ente non ha un fondamento si toglie all’ente la sua enticità e, pertanto, questo ente non è più niente. Si vede ancor più in de Saussure: il significante senza significato non significa niente, non è più un significante, è nulla. E, viceversa, un significato senza significante che lo dice è un significato che non dice niente. La metafisica si è incentrata proprio su questo aspetto, sull’aspetto del fondamento, ma questo fondamento, che la metafisica cerca, non è niente altro che il significato di una certa cosa. Se io trovo il fondamento di qualche cosa allora so che questo qualche cosa, avendo un fondamento, ha un significato certo, sicuro. Ricordate quando facevamo tempo fa questo accostamento, che tra l’altro fa anche Sini, tra l’essere e l’ente e il significato e il significante. L’essere, ciò che dà all’ente la sua enticità, il suo significato, e la metafisica è ciò che si occupa esattamente di questo, come se la metafisica si occupasse non di significati ma del significato, cioè, se è possibile dare un fondamento al significato.

Intervento: Un significato al significato…

Sì, anche se questo mette in moto un rinvio infinito e non se ne viene più fuori. Però, dare un fondamento al significato qui è come dire avere un qualche cosa, direbbe Nietzsche, su cui appoggiare il piede per fare il passo successivo. Sappiamo, però, che come appoggia il piede va giù tutto. Ecco perché ci interessa la metafisica a questo punto, perché questa struttura del racconto, che è poi la struttura stessa del segno, la struttura stessa della parola, è una struttura metafisica, cioè dice “questo è quest’altro”. Questa è la struttura della metafisica per il significato della a è b, quindi, il fondamento della a è b: se io tolgo la b, infatti, non solo tolgo un elemento ma tolgo tutto, cioè la a non è più niente perché è come se fosse un segno che non ha nessun rinvio, ma a questo punto non è più un segno. Questo lo abbiamo visto bene in Peirce, come quando parlava dell’idea, della fantasia del primo segno da cui parte tutto: non può esistere il primo segno, perché se questo segno non procede da un altro segno non significa niente. Ecco, questo è un po’ anche il percorso che ho in animo di fare e che ci porterà probabilmente, dopo questo testo, ad approcciare un altro testo dove Greimas pone delle questioni intorno alle passioni, la Semiotica delle passioni. Le passioni sono quelle che Heidegger chiamava Stimmung, cioè la tonalità affettiva, sarebbe l’emozione, quella emozione che modifica tutto il percorso, anzi, il più delle volte ne decide le sorti. Poi, queste passioni non sono altro che un altro racconto, un’altra storia, un’altra narrazione. Ma la questione metafisica, più propriamente, è la questione che verte intorno alla possibilità per un significante di significare qualcosa e per un ente di essere qualcosa. Il che, per quanto ci riguarda, è fondamentale la a della formula di Peirce, è una a proprio perché c’è la b, cioè perché c’è la b che dice che cosa è la a: infatti, a è b, non è un’altra cosa, è b. Quindi, come dicevo, ci interessa perché la metafisica si occupa esattamente di questo, di intendere qual è il possibile fondamento di qualche cosa, di come si reperisce un fondamento, che è essenziale perché, nonostante tutte le difficoltà che ci sono e che sono rilevate di stabilire un qualsiasi fondamento. Sono poi i motivi per cui la metafisica è stata abbandonata, perché non è possibile dare un fondamento, in quanto a questo fondamento sarebbe richiesto di autofondarsi, ma come si autofonda se non si appoggia da qualche altra parte? Quindi, assistiamo a un rinvio infinito. Questa obiezione, che viene fatta alla metafisica, tuttavia non toglie il fatto che per affermare qualche cosa io devo fare come se questa cosa avesse un fondamento, come se fosse quella che è, ma è proprio la metafisica che si incaricherebbe di poter stabilire che quella cosa è quella che è. La metafisica non lo può fare, nel senso che non può stabilire con certezza una certa cosa, però, in tutte queste operazioni mette in mostra la necessità continua e costante del fondamento; come dire: il fondamento non c’è ma è come se ci dovesse essere. Sini dice La negazione della metafisica si determina così, in funzione di un limite che implica il suo altro, cioè la metafisica stessa, per definirsi. Questa implicazione non concerne solo i contenuti espressi, per esempio la verità è una, cui si oppone la verità è molte, ma anche le forme di espressione… Come dice lui giustamente, il problema metafisico non è concluso proprio perché si scontra con la necessità del fondamento: non può esserci ma è necessario che ci sia. È una questione che abbiamo già visto in varie circostanze: un qualche cosa che non è possibile determinare, stabilire con certezza ma, al tempo stesso, non possiamo negarne la necessità. Così come, per esempio, il fatto che io non possa dire la dire la a senza dire un’altra cosa è il fondamento della conoscenza. È perché la a non può essere la a senza una b che c’è conoscenza, è per via del fatto che c’è questa distanza instaurata dal segno che può avviarsi la conoscenza. Se la a fosse, per assurdo, immediatamente conoscibile, al di là di tutte le obiezioni che possono farsi, non ci sarebbe possibilità di conoscenza, perché la conoscenza è proprio questo: dire che cosa è la a e la a è una b. La conoscenza è dire che cosa una certa cosa è, ma è anche dire che qualcosa è qualcosa. Senza questa distanza, senza questo rinvio, cioè, senza questa semiosi infinita, non ci sarebbe neanche conoscenza, perché non potrei conoscere niente. Quindi, questo ostacolo, di cui parlavo prima, è anche la condizione stessa della conoscenza, perché è ciò che mi consente di arrivare da a a b. Non soltanto impedisce la conoscenza diretta, che è impossibile, ma stabilisce la possibilità stessa della conoscenza, e cioè questo ostacolo è questa distanza, che è il fondamento della conoscenza. Intendere quali sono i concetti fondamentai della metafisica, cioè su che cosa si basa la metafisica, che cosa ci dice realmente la metafisica, è come dire che cosa fa sì che ciascuna volta un qualche cosa ci permette di parlare. Ci permette di parlare l’idea che ci sia un fondamento, ma questa idea che ci sia un fondamento viene dal funzionamento stesso del linguaggio, non è un’idea che viene così, viene dal fatto che per dire qualche cosa devo dirne un’altra, che è esattamente il funzionamento del linguaggio. Ma se per dire una cosa devo dirne un’altra, che cosa mi garantisce che questa cosa dica esattamente che cos’è la prima? Ecco il problema del fondamento, e allora la b deve a sua volta essere fondata, e così via. Però, l’idea del fondamento è ciò stesso, come dicevo, che mi consente di parlare, cioè, mi consente di pensare che ciò che sto dicendo significhi qualcosa, perché se non ci fosse questo fondamento non significherebbe niente perché non ci sarebbe significato, la a non avrebbe una b che dice che cos’è la a, e così vi di seguito. Bene, questo è il progetto di lavoro che ho in animo di fare insieme a voi. Siamo a pag. 10 de I concetti fondamentali della metafisica di Heidegger. Intanto, lui ha posto una questione, e cioè che la metafisica non è altro che la filosofia, e viceversa. La filosofia si occupa dell’uomo, si occupa, quindi, dell’unico ente in grado di porsi questa domanda, cosa che avevamo già visto in Essere e tempo. Nelle prime pagine lui distingue la metafisica da altre dottrine che si interrogano, perché la metafisica non si interroga su una questione specifica, su un ente particolare, ma la metafisica è una riflessione sull’ente in quanto ente, non su questa cosa, su questo ente in quanto penna, ma sull’ente in quanto ente. Distingue, quindi, la metafisica da qualunque altra forma di ricerca. Prende le distanze tanto dalla scienza quanto dalla filosofia come visione del mondo, la sua filosofia non è né una cosa né l’altra ma è un pensare i fondamenti, cosa che né la scienza né la visione del mondo fanno. La filosofia: una discussione, un dialogo, ultimi dell’uomo, che lo attraversano afferrandolo totalmente e costantemente. Ma che cos’è l’uomo se nel fondo della sua essenza, filosofia… cioè, l’uomo nella sua essenza è filosofia, quindi, parlare di metafisica è parlare dell’uomo. Che cos’è questo filosofare? Cosa siamo noi in tutto questo? Dove vogliamo andare? Siamo forse un giorno casualmente incappati nell’universo? E qui cita un frammento di Novalis. Novalis afferma in un frammento “La filosofia è propriamente nostalgia, un impulso a essere a casa propria ovunque”. Una definizione singolare, naturalmente romantica, nostalgia: esiste ancora oggi qualcosa del genere. Nostalgia, in greco, viene da nostos, distanza, e da algia, dolore, letteralmente il dolore per la separazione, per la distanza, per l’abbandono. Dunque, questa non è forse divenuta una parola incomprensibile persino nella vita quotidiana? L’odierno uomo di città, la scimmia della civiltà, non ha forse eliminato da lungo tempo la nostalgia? E la nostalgia, addirittura come definizione della filosofia. Ma ciò che ancora più conta, a quale genere di testimone ricorriamo parlando della filosofia? Novalis: in fondo soltanto un poeta e non certo un filosofo scientifico. Non dice forse Aristotele nella sua Metafisica “i poeti dicono molte bugie”. Nel paragrafo successivo dice Sostiamo un attimo e domandiamoci: cosa vuol dire l’affermazione che la filosofia è nostalgia?  È lo stesso Novalis a chiarirlo: un impulso a essere ovunque a casa propria. A noi verrebbe subito da pensare a essere a proprio agio ovunque, sentirsi come a casa propria sarebbe come dire che non c’è più il timore di nulla. Potremmo anche dire che chi si trova ovunque a casa propria è quello che Nietzsche chiama l’ultrauomo, che non ha più bisogno di pensare come il nano alle incombenze, alle piccole e sciocche cose del mondo, perché si è reso conto della più importante di tutte le cose, e cioè dell’eterno ritorno di ogni cosa, del fatto cioè che ciascuno è fatto di tutto ciò che lo ha condotto a essere in questo momento e che è sempre presente. Dunque, a che cosa si rivolge il desiderio proprio di questa inclinazione? A essere ovunque a casa propria, cosa significa? Non semplicemente qui o là, neppure in qualunque luogo o in tutti insieme, l’uno dopo l’altro, bensì essere a casa propria ovunque significa essere sempre e nello stesso tempo nella totalità. È quello che diceva Nietzsche rispetto all’eterno ritorno, essere nella totalità di tutti gli eventi che mi sono occorsi, che mi sono accaduti, sono tutti qui, presenti in questo momento mentre parlo. Noi chiamiamo questo nella totalità e nella sua interezza il mondo… Cioè, io sono fatto del mondo che mi circonda, io sono questo mondo. Siamo e nella misura in cui siamo sempre in attesa di qualcosa… Sappiamo anche di che cosa, propriamente: del segno successivo; ciascun segno è sempre un segno per un altro segno. È questa l’attesa in cui ci troviamo sempre, costantemente. Veniamo sempre chiamati in causa da qualcosa come la totalità, questo nella “totalità del mondo”. È il mondo che ci chiama in causa continuamente, ci chiede cose, ci costringe a fare cose, a muoverci di qua e di là. Tutto questo mondo non è qualcosa che è fuori, è ciò che io sono costantemente. Allora ci chiediamo: cosa è ciò, il mondo? Cos’è il mondo? Nella nostra nostalgia siamo spinti là, verso l’essere nella sua totalità. Il nostro essere è questo essere sospinti. L’Esserci. In qualche modo ci siamo già da sempre mossi verso questa totalità, o meglio, siamo in cammino verso di essa. Siamo sempre in cammino verso il mondo, che si modifica costantemente e io, essendo mondo, di conseguenza. Ma siamo mossi anche in senso opposto, trascinati indietro da qualcosa o immobili in una sorta di gravità, che tende a distoglierci. La chiacchiera, per intenderci. Siamo in cammino verso questo essere “nella totalità”. Per Heidegger, come sappiamo, l’Esserci è sempre un essere progettato nel mondo. Questo progetto riguarda il mondo di cui l’Esserci è fatto e di cui l’Esserci partecipa. È importante tenere sempre chiaro questo, cioè che per Heidegger l’Esserci non è qualcosa che sta da una parte e il mondo dall’altra. L’Esserci non è altro che l’essere progettato del mondo, continuamente. Noi stessi siamo questo essere in cammino, questo passaggio, questo né l’una né l’altra cosa. Cos’è questo oscillare qua e là tra il né, non l’una cosa e neppure l’altra? Questo sì e no e questo sì? Cos’è questa inquietudine del non? La chiamiamo la finitezza. Ci chiediamo: cosa è ciò, la finitezza? La finitezza non è una proprietà che semplicemente ci attribuiamo, bensì il modo fondamentale del nostro essere. Se vogliamo divenire ciò che siamo non possiamo abbandonare questa finitezza o illuderci nei suoi confronti, dobbiamo invece custodirla. La finitezza ha a che fare, come abbiamo visto, sia con la morte, come quella possibilità che è la più propria di ciascuno, ma anche con la morte che si incontra ciascuna volta che l’Esserci riviene a se stesso e trova nulla, perché si è già spostato. Questa salvaguardia è il processo più profondo del nostro essere finiti, cioè la nostra più profonda finitizzazione. Finitezza è solamente nella vera finitizzazione. In essa si compie, in ultima analisi, un isolamento dell’uomo nel suo esserci. Isolamento: questo non significa che l’uomo si irrigidisca sul suo misero e piccolo Io, che si pavoneggi con questa o l’altra cosa che considera il mondo. Questo isolamento è piuttosto quel divenir-soli nel quale soltanto ogni uomo giunge nella vicinanza dell’essenziale di ogni cosa, cioè in prossimità del mondo. Cos’è questa solitudine, nella quale l’uomo sarà sempre solo un singolo? Cosa è ciò, l’isolamento? Tenete conto che il sottotitolo di questo libro porta, appunto, Mondo, finitezza, solitudine. Questi sarebbero per Heidegger i tre concetti fondamentali della metafisica. La solitudine, dunque. Quando l’Esserci riviene a se stesso e trova nulla, lì è in assoluta solitudine, non c’è più niente che possa spalleggiarlo, dargli un supporto, perché ogni fondamento è finito, non c’è più nulla, questo è l’isolamento. Cosa sono tutte queste cose insieme, mondo, finitezza, isolamento? Cosa ci accade? Cos’è l’uomo se nel fondo del suo essere gli accadono tali cose? Tutto ciò che conosciamo dell’uomo, l’animale, il pagliaccio civilizzato, il custode della cultura, persino la personalità, tutto ciò è soltanto l’ombra di alcunché di totalmente altro rispetto a ciò che chiamiamo l’Esserci. Filosofia, metafisica, è una nostalgia, un impulso a essere a casa propria ovunque, non desiderio cieco e senza direzione bensì un desiderio che si desta in noi di fronte a tali questioni e alla loro unità, come le abbiamo appena poste: cos’è il mondo, finitezza e isolamento? Questo sarebbe il modo di porsi di fronte a queste domande, che per Heidegger sono appunto i concetti fondamentali della metafisica, da cui la metafisica ha preso l’avvio, quelle domande a cui l’uomo autentico, direbbe Heidegger, deve rispondere. Il mondo, io sono fatto di mondo e, essendo fatto di mondo, mi ritrovo a dover confrontarmi con tutto ciò che il mondo è, ma, tra le tante che il mondo è e può essere, ce n’è una che può essere assolutamente, cioè la mia morte. Questo mi porta a un confronto con questa finitezza che è sì la morte in quanto biologica ma anche morte nel senso di reperire la totale assenza di fondamento da parte dell’Esserci ciascuna volta che riviene a se stesso. E questo porta a un isolamento, cioè al rendersi conto di non avere più a questo punto, una volta che l’Esserci è autentico, nulla a cui appoggiarsi, perché non è più nella chiacchiera. È la chiacchiera cui ci si appoggia costantemente, quella chiacchiera peraltro in cui ciascuno nasce e in cui ciascuno vive continuamente. La chiacchiera non è niente altro che quella serie infinita di informazioni, di bagagli, ecc., che consentono di muovere i primi passi verso una qualunque riflessione più articolata, più elaborata, più complessa. Diceva Heidegger, citando Husserl, che lo scienziato nel suo laboratorio deve muoversi sapendo già certe cose, che quella cosa è ciò che è, che quell’altra è spostata di su o di giù, deve sapere muoversi in un certo modo, tutte queste cose le sa già. Ma se non sapesse nulla di tutto ciò non potrebbe neppure immaginare di pensare le cose che penserà da scienziato. Ognuna di queste questioni, che sono fondamentali, dice Heidegger che coinvolge il tutto, cioè, il mondo. Non è sufficiente che noi conosciamo tali questioni, decisivo è se noi effettivamente le poniamo, se abbiamo la forza di portarle innanzi attraverso la nostra intera esistenza. Che sarebbe il vivere autentico. Non è sufficiente che noi ci dedichiamo a tali questioni solo in modo impreciso e incerto, ma questo desiderio di trovarsi a casa ovunque è di per sé al tempo stesso la ricerca delle strade che aprono la via maestra alla risoluzione di tali problemi. Per far ciò il martellare proprio del concetto di quei concetti che possono aprire un varco. Martellare sui concetti: continuare a pensarli, anziché fare come si fa generalmente, una cosa l’ho pensata, l’ho risolta, adesso non ci penso più. È così che funziona. Oppure, l’altro ha detto come stanno le cose, per cui le cose stanno così e non ci penso più, non le penso più, cancello il pensiero. Ciò che ci sta dicendo Heidegger è invece di martellare il concetto, cioè continuare a pensare. Si tratta di un afferrare concettuale i concetti di un tipo peculiare e originario. I concetti metafisici resteranno in eterno inaccessibili alla sottigliezza di ingegno in sé indifferente e non vincolante delle scienze. Le scienze non si pongono neanche la questione, non si pongono la questione di concetti, si pongono una questione di calcolo e basta. Può essere numerico o proposizionale, ma è sempre calcolo. I concetti metafisici non sono qualcosa che possiamo imparare, perché un docente o qualcuno che si faccia chiamare filosofo possa pretendere che gli vengano ripetuti e applicati. Cioè, non è qualcosa che si possa imparare, è qualcosa che si deve pensare. Soltanto lungo questo pensiero è possibile trovare un qualche cosa che ci consenta, come direbbe lui, un varco verso… verso la metafisica, cioè verso la filosofia, verso il pensiero, in definitiva, verso la vita. Ma innanzitutto non saremmo in grado di cogliere questi concetti nel loro rigore concettuale se non fossimo già anticipatamente afferrati da ciò che hanno il compito di cogliere concettualmente. Questione che ha a che fare con la pre-comprensione di cui parla Heidegger, cioè non saremmo in grado di cogliere questi concetti in nessun modo se non esistesse un linguaggio che ci mette nelle condizioni di poterli afferrare. Questo venir afferrati il fondarlo e il destarlo è la fatica fondamentale del filosofare. Ma ogni venir afferrato proviene da uno stato d’animo e permane nello stesso. Questo è importante: ogni venir afferrato da un concetto proviene da uno stato d’animo, che è una bella affermazione. E se noi, anziché parlare di stato d’animo, che può fuorviare un po’, parlassimo semplicemente di fantasie? Sarebbe molto più semplice. Ogni venir afferrato di qualche cosa, ogni cosa che capisco, che comprendo, che concepisco, tutto questo procede da uno stato d’animo, procede da una fantasia, procede cioè da un altro racconto. Il cogliere questi concetti, l’afferrarli, è un altro racconto, è un altro raccontare cose. Nella misura in cui il cogliere concettuale e il filosofare non sono un’occupazione qualunque accanto ad altre, bensì accadono nel fondo dell’esserci umano, gli stati d’animo dai quali hanno origine il venire afferrati e la concettualità della filosofia sono sempre necessariamente stati d’animo fondamentali dell’Esserci tali che pervadono costantemente e in modo essenziale l’uomo, senza che tuttavia egli li debba sempre riconoscere come tali. Qui lui si rivolge a quello stato d’animo che aveva posto come stato d’animo particolare, l’angoscia. Non è l’angoscia di cui parla la psicologia ma un’angoscia che possiamo porre in termini positivi, cioè il trovarsi di fronte all’annullarsi del nulla. Ne parlava anche nel suo scritto, nella famosa prolusione Che cos’è metafisica?, dove c’è questo nulla che insiste, nulla che Carnap diceva, per fare il verso a Heidegger, nulla che nulleggia, il nulla che si impone continuamente nelle cose. È questo nulla che persiste, che non può togliersi, che comporta la Stimmung, che è l’angoscia. Questa angoscia, questo nulla che non può togliersi, se voi ricordate bene, non è nient’altro che quella che Derrida chiamava la différance, scritta con la a anziché con la e, différence. Questo cambiamento di lettera Derrida lo usa per lo stesso motivo per cui Heidegger usa un’altra lettera in Sein, e cioè Seyn, e cioè, devo sì dire questa cosa ma non ci sono le parole per dirla; di fatto, non potrei neanche dire l’essere e legittimamente non posso dirlo. È il problema che ha incontrato alla fine di Sein und Zeit: per dire l’essere devo dire qualche cosa ma se dico qualche cosa dico l’ente e non l’essere; è per questo motivo che non posso dirlo, ma non posso non dirlo. Da qui l’angoscia, questo iato, questa apertura. Derrida utilizza questa sua nozione di différance per indicare qualche cosa che è muto, che non parla all’interno della parola. Per Derrida erano gli spazi vuoti tra le parole, che di per sé non dicono niente ma sono la condizione per potere dire le cose; se non ci fossero questi spazi, dice lui, non si potrebbe parlare. Questo spazio tra il significante e il significato non è colmabile da nulla, è un qualche cosa che non dice niente. Questa barra, quella di de Saussure, è una barra non dice niente, non significa niente, non vuole dire niente e non ha niente da dire, ma se non ci fosse non si potrebbe dire nulla. Parlavamo dell’angoscia rispetto a questa distanza, è la stessa cosa di cui Peirce parlava quando diceva della distanza del segno: fra un segno e un altro segno c’è una distanza, è colmabile? Come? Con che cosa? Questa distanza tra un segno e un altro segno è quella cosa che non dice nulla, non vuole dire niente, ma è quella che mi consente la conoscenza. È quella cosa che Peirce indicava come la è, come copula, che mette in relazione una cosa con un’altra, per cui questa distanza non è che viene tolta, però questa distanza si mostra per quello che è, cioè come un orizzonte che si apre, che si spalanca. L’orizzonte è la stessa nozione che poi usa anche Heidegger, l’orizzonte entro il quale l’essere appare. A pag. 13. L’afferrare concettuale filosofico ha il suo fondamento in un venir-afferrati… ci mette un trattino perché Heidegger vuole che in questo modo il concetto sia inteso come un tutt’uno, come qualcosa che funziona come una totalità. …e questo a sua volta in uno stato d’animo fondamentale. Novalis non intende forse qualcosa del genere quando definisce la filosofia una nostalgia? Un afferrare concettuale che ha il suo fondamento nel venire afferrati, cioè che si afferra nel momento in cui si viene afferrati. E qui ci sta praticamente tutta la filosofia di Heidegger: io percepisco il mondo nel momento in cui il mondo mi afferra, nel momento in cui mi accorgo di essere questo mondo. Non ci sono soggetto e oggetto ma, per continuare a usare questi termini metafisici, nel momento in cui il soggetto si rapporta all’oggetto il soggetto diventa oggetto e l’oggetto diventa soggetto, cioè, il soggetto afferrante viene afferrato dall’oggetto. È questo ciò che sta dicendo qui: questo afferrare è al tempo stesso un venire afferrati. Pensate alla formuletta a è b: la a afferra la b ma, nel momento in cui afferra la b, viene afferrata dalla b, che dà un significato alla a e la fa esistere come a.