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18-3-2009

 

Ponendo il linguaggio come il fondamento noi offriamo al pensiero una dignità, quella dignità che non ha mai avuta, una dignità che viene dal fatto di potere affermare con certezza da dove viene il pensiero e quindi cosa lo supporta, cosa lo sostiene, cosa lo muove, come sapete, prima di noi nessuno l’ha mai fatto. Il principium rationis di cui parlavamo l’altra volta è ciò che offre una garanzia alla ragione, il suo principio, il “da dove viene” non solo ma ciò che rende la ragione cioè la restituisce là da dove occorre che arrivi, appunto dal principio; non è tanto che in principio era il verbo, no il linguaggio è il principio cioè il fondamento in quanto costituisce l’istruzione primaria da cui è possibile costruire qualunque cosa, quindi non “in principio era il verbo” ma il principio linguaggio, che continua a esserlo necessariamente. Dunque offrire una dignità al pensiero, cosa significa questo? Che il pensiero non ha più la necessità di cercare al di fuori di sé e della sua struttura ciò che lo supporta, ciò che lo sostiene. Da sempre come sapete si è cercato al di fuori del linguaggio il fondamento ma in questa operazione fallimentare si è cercato il principio o meglio il principio del principio o ancora il fondamento del fondamento: esiste il fondamento del fondamento? È come chiedersi se esiste il fondamento al linguaggio e cioè qualcosa che lo garantisca, che lo supporti, ma sappiamo che non ha questa necessità, non ha nessun bisogno di qualcosa che lo supporti: una sequenza di istruzioni non ha nessun bisogno di essere garantita, non ha bisogno di qualcosa che da altrove garantisca delle verità di queste istruzioni perché le istruzioni non hanno da essere né vere né false, infatti non sono né vere né false sono semplicemente dei comandi, dei comandi che consentono dopo di potere stabilire che cosa è vero e che cosa è falso, forniscono quelle istruzioni che danno la possibilità di costruire un criterio verofunzionale ma questo criterio verofunzionale avrà sempre e comunque come punto di partenza queste istruzioni e cioè non potrà mai andare contro le istruzioni, sono queste che forniscono il criterio di verità. Questo è fondamentale, ponendo il linguaggio come il fondamento a questo punto è come se non ci fosse più bisogno del fondamento, adesso detta così può sembrare bizzarra, ma l’idea del fondamento in senso ontologico come qualcosa che garantisca della verità non ha nessuna possibilità, per esempio nel calcolo dell’aritmetica non c’è niente che garantisca della validità del calcolo se non le regole stesse del gioco, nient’altro che questo, non esiste un principio che si faccia carico della verità del calcolo numerico, esistono soltanto delle regole, ci si attiene alle regole e il gioco funziona. Nel caso del linguaggio è la stessa cosa solo che il linguaggio rappresenta come vi ho detto tante volte quel metagioco che consente la costruzione di qualunque gioco, perché sono le istruzioni di base quelle che permettono la costruzione di qualsiasi sequenza, senza queste istruzioni non è possibile costruire nessuna sequenza, non è possibile costruire niente come sappiamo. Questa sorta di svolta anche se non è da adesso che ne parliamo, adesso forse la questione si è posta in termini più radicali, è importante perché costituisce anche uno strumento per quanto riguarda la clinica direttamente o indirettamente: ponendo come fondamento il linguaggio e quindi non cercando la verità se non attraverso le regole del gioco che fa funzionare il linguaggio cioè il suo funzionamento è ovvio che non si può più porre la questione della verità in altri termini, come dire “è vero quello che penso?” questa domanda potrebbe non significare più niente. Ma soltanto: è corretto all’interno della struttura del linguaggio? Si attiene alla struttura del linguaggio oppure no? Se non si attiene ovviamente viene abbandonato come falso …

Intervento: in questo senso si attiene alla struttura del linguaggio? In quanto non è formalizzato …

No, si attiene alla struttura del linguaggio in quanto non può negare l’esistenza di qualcosa che si è posta all’interno del linguaggio, non può negare che esiste e quindi non può contraddirsi. Il linguaggio non può contraddirsi cioè non può negare che qualcosa non gli appartiene, nel momento in cui nega che qualcosa gli appartenga già pone questo elemento all’interno di una sequenza, di una stringa e questa è l’unica cosa che non può fare, in definitiva negare a se stesso di esistere, questo non lo può fare. Qualcosa è vero o falso in relazione al funzionamento del linguaggio, se il linguaggio procede sappiamo semplicemente che il fatto che stia procedendo comporta che non abbia negato la premessa da cui è partito, come dire che non c’è nessun altro criterio di verità o di falsità e questo sbarazza del dubbio che hanno avuto da sempre gli umani circa il loro pensare, se il pensare sia corretto oppure no, se giunge alla verità oppure no poiché è sufficiente che non contraddica la premessa e il funzionamento è garantito, se qualcosa non funziona è perché all’interno di un certo gioco si trova che la conclusione contraddice la premessa. Ma che una contraddizione avvenga all’interno di un gioco particolare semplicemente impedisce di fare quel gioco ma di sicuro non impedisce al linguaggio di continuare a costruire sequenze, il linguaggio continua comunque. Che cosa impedisce di intendere il funzionamento del linguaggio? L’addestramento a considerare ciascun particolare gioco linguistico come l’esposizione della realtà, di dati di fatto, queste è una delle questioni più complesse da articolare, da praticare soprattutto, e cioè l’idea che non si tratti affatto di giochi linguistici ma che ci siano alcune cose che non lo sono. Praticare una cosa del genere cioè non potere non tenere conto in ciascun atto che si tratta di un gioco linguistico particolare comporterebbe come effetto il trovarsi a essere valutati come inumani cioè non c’è più niente di umano, cosa che può avere qualche controindicazione in alcuni casi perché non c’è più nessun valore, nulla vale se non all’interno di un gioco e quindi questo valore che questa cosa può avere in una certa situazione dipende unicamente da un gioco che ha attribuito arbitrariamente un certo valore per potere fare quel gioco, nient’altro che questo. È come dicevo complicato porlo in atto perché essere non più umani ha delle ripercussioni, soprattutto nei cosiddetti rapporti interpersonali. Quindi è praticabile una cosa del genere oppure no? La questione va ancora oltre perché questi contraccolpi a questo punto non avendo più alcuna cosa valore di fatto dovrebbero tecnicamente cessare di esistere, tecnicamente …

Intervento: però non è così … perché la necessità di esercitare la propria verità funziona …

A questo punto la chance per ciascuno è quella di proseguire in ambito teorico cioè l’elaborazione teorica fino al punto in cui effettivamente non ci si accorge più né dei valori né dei contraccolpi eventuali e possibili, se una cosa perde il suo valore perde anche il suo interesse inevitabilmente, e che cosa soppianta tutto ciò che viene perduto inesorabilmente? Perché gli umani non è che possano smettere di parlare e parlando il linguaggio funziona sempre allo steso modo e cioè ricerca delle proposizioni vere naturalmente, non può fare altro e quindi indipendentemente da qualunque altra considerazione continuerà a fare questo, ma se non può non considerare, in assenza totale di valori cioè di cose importanti, allora su che cosa si appunta? Che cosa continua a interessare se il linguaggio costringe comunque a ricercare la verità? Cioè proposizioni vere? Anche se sa benissimo che all’interno di qualunque gioco particolare qualcosa è vero rispetto a quelle regole stabilite in modo del tutto arbitrario …

Intervento: la curiosità …

Sì anche, ma siamo ancora al di qua della curiosità, ciò che apparentemente si spalanca è il nulla, assolutamente nulla, ma apparentemente, ma non è così perché come sappiamo comunque continua a funzionare e il nulla non è altro che la cessazione del linguaggio ma sappiamo che non cessa e quindi non c’è nessun nulla, però rimane invece quella unica necessità che rende gli umani tali e cioè la necessità di pensare, parlare ma a questo punto, parlare e pensare in modo differente, è come se ciascun pensiero, ciascuna parola procedesse unicamente, diciamola così provvisoriamente, dal fondamento e cioè dalla struttura stessa del linguaggio in quanto a quel punto non c’è più nient’altro se non la struttura del linguaggio, il suo funzionamento e che cosa cerca il linguaggio, una volta che non ha altro che se stesso a cui pensare, perché tutto il resto si è dissolto? Può rivolgersi a varie cose, prima fra tutte funzionare tenendo e non potendo non tenere conto in ciascun atto del suo funzionamento, come una macchina, una macchina che ha l’unico scopo di pensare se stessa. Detta così può sembrare un po’ astrusa ma in realtà una macchina che pensa se stessa è una macchina che non soltanto mette in atto il suo funzionamento ovviamente ma interroga il suo funzionamento perché sa perfettamente come funziona ma interroga e considera unicamente ciò che costruisce, per esempio, in questo istante mentre sto parlando. Facciamo un esempio molto pratico, cosa avviene esattamente in questo momento? Io sto dicendo delle cose, queste cose che sto dicendo si attengono esattamente al funzionamento del linguaggio, alla sua struttura, interroga cioè ancora e sempre il funzionamento e la struttura ma, dicevo prima, sa già come funziona, conosce la base del funzionamento, conosce le istruzioni ovviamente ma queste istruzioni al pari di un caleidoscopio costruiscono infinite scene, infinite configurazioni, ciascuna di queste configurazioni ovviamente non può non sapere, non tenere conto delle istruzioni che la fanno esistere, per cui gioca unicamente con questo, non ha più nessun altro gioco, è arrivato a fine corsa. Per compiere questa operazione occorre che tutti gli altri valori si siano dissolti, perché si dissolvano tutti questi valori occorre che in ciascun atto linguistico, in ciascun gioco linguistico ci sia la possibilità che venga riconosciuto come tale e perché possa essere riconosciuto come tale occorre molto esercizio perché il gioco linguistico di per sé è costruito in modo tale da non apparire affatto un gioco linguistico, oltre al fatto che ciascuno è stato addestrato da sempre a considerare le cose che lo circondano come entità a se stanti. Compiere questo passo che muove dal considerare le entità come cose a se stanti al coglierle invece come atti linguistici con tutto ciò che questo comporta è la cosa straordinariamente difficile da compiersi, ma la difficoltà consiste nell’abbandonare degli antichi valori, sta qui la difficoltà, valori antichi che più o meno consapevolmente continuano a operare “dio, patria, famiglia” qualcosa del genere, adesso detta così … ma non è molto lontana perché sono quei valori attraverso i quali le persone si riconoscono persone fra le altre con una tale naturalezza da sfuggire a qualunque controllo, è così che funzionano le religioni o più propriamente la struttura religiosa, sfugge al controllo e una volta che è sfuggita al controllo si ripropone tutta la sequenza dei valori antichi che naturalmente hanno delle conseguenze per quanto riguarda ciò che ne seguirà, è una sorta di automatismo. Porre il linguaggio come il fondamento ha tutte queste implicazioni inesorabilmente e sappiamo che non c’è un altro fondamento, se ci fosse il linguaggio lo reperirebbe, ma reperendolo sarebbe una sovrastruttura del linguaggio qualche cosa che il linguaggio ha costruito e quindi seguente e non prima, oltre il linguaggio non c’è niente, prima del linguaggio non c’è niente che è come dire che fuori dal linguaggio non c’è niente e non c’è mai stato niente. La superstizione è il modello del pensare degli umani, superstizione di cui abbiamo già da moltissimo tempo individuata la struttura che è quella dell’entimema che è un sillogismo in cui la premessa è taciuta, è data per implicita ma di fatto non è mai esplicitata e non è esplicitata perché non c’è, semplicemente, però si fa come se ci fosse. Tolto il linguaggio come fondamento pare che sia impossibile pensare altrimenti, di fatto se si toglie il fondamento qualunque cosa non ha più il fondamento, non avendo fondamento non ha la premessa generale e quindi si struttura come quel sillogismo noto come entimema, o anche epicherema in alcuni casi, c’è anche questa variante possibile dove la premessa maggiore non è assente ma è totalmente infondata e infondabile, come dire che o si pensa muovendo dal linguaggio come fondamento o si pensa in modo superstizioso, non c’è nessun altra possibilità, non ci sono alternative. È importante questa questione, ed è importante iniziare a porla in atto cioè praticarla il che comporta naturalmente interrogare i cosiddetti valori che molte volte sono i grandi valori appunto “patria, dio, famiglia” ma non sempre, altre volte sono dei dettagli che però funzionano allo stesso modo, cose che si considerano assolutamente ovvie, scontate, naturali appunto che non merita metterle in discussione …

Intervento: non viene neanche in mente di metterle in discussione …

No, assolutamente no, il sistema è chiuso, è molto ben protetto, di fatto a nessuno viene mai in mente di domandarsi perché crede a una certa cosa, è vera e basta, non si pone il problema e funziona sempre così anche se magari in modo più raffinato, più sofisticato però il funzionamento è sempre quello, qualcosa impedisce di interrogare. Come in qualunque pensiero religioso, anche le cosiddette nevrosi sono delle religioni, hanno la stessa struttura, lo steso funzionamento e quindi la persona si attiene saldamente e scrupolosamente alle cose in cui crede compresi i propri malanni. “Oltre il linguaggio” è il titolo di questo saggio di Emanuele Severino, considerate questi passi:

 

La parola è la forma della cosa. Questo ap­pare. Non appare la necessità che unisce questa forma alla cosa (come non appare la necessità che unisce la forma della parola ad altre parole). «Vien notte»: in quanto questa parola è pronunciata, il suono della vo­ce è un evento (un ente eterno) che appare insieme a quegli altri eventi (a quegli altri enti eterni) che sono il corpo e l'anima dell'uomo. In questo senso si pub dire che l'uomo parla. (Anche la sintesi in cui consi­ste il parlare dell'uomo è a sua volta un eterno, e in questo senso - ma solo in questo senso - è necessaria).

Ma «Vien notte» parla della notte che viene. La notte che viene non è una parola pronunciata; è un significato. E tuttavia questo significato si presenta nel­la forma della parola: «La notte che viene» è una parola silenziosa (tanto silenziosa, che la tradizione filosofica ha potuto considerarla come un significato puro), ma è pur sempre una parola. Per quanto il pen­siero si concentri sul significato e lο allontani dalla parola più o meno sensibile, il significato appare al­l’interno di una parola silenziosa. La si può sostituire con altre parole silenziose (nox appetens, ecc.); essa stessa è continuamente cangiante pur rimanendo ap­parentemente la stessa; ma il significato, di fatto, ap­pare sempre all'interno di una parola. Di fatto, la pa­rola silenziosa continua a essere la forma del signi­ficato.

È un significato - l'apertura di un senso - questa not­te che viene, ed è un significato anche questa notte che viene, in quanto significato che permane anche quando la notte è inoltrata e anche quando la notte scompare e sopraggiunge la luce del giorno. Solo que­sto secondo significato è chiamato da Wittgenstein «si­gnificato»; quel primo significato egli lο chiama «por­tatore del nome» (Ricerche filosofiche, n. 40). Egli di­rebbe che quando la - questa - notte svanisce, non svanisce il suo significato. Il che è vero solo se ci Si lega all'uso comune della parola «significato». Ma la distinzione tra «portatore del nome» e «significato» è interna al significato, indica due modi del significato, cioè del non essere un niente. Il significato è l'essente, la cosa. Anche la parola, come forma della cosa, è una cosa.

In quanto la parola è la forma della cosa, si pub dire che la cosa parla. Non l'uomo, ma questa notte che viene parla di questa notte che viene. Ma, propria­mente, non parla né l'uomo né la cosa: è la volontà interpretante a farli parlare. Se la cosa è la parola (a parte la loro unione trascendentale in quanto enti eter­ni) non sono unite da un legame necessario specifico (sebbene, di fatto, la parola appaia sempre come forma della cosa), è la volontà interpretante a tenerle unite in un legame specifico e a volere, quando la parola è sonora, che il parlante sia uomo, e che il parlante sia la cosa, quando la parola è silenziosa.

È quindi la volontà a unire la parola a quella cosa (significato) che è il destino della verità. La volontà di parlare della verità non appartiene alla verità. La testimonianza della verità non appartiene alla verità. Ma l'uomo non ha certo la facoltà di liberarsi dalla volontà, da cui egli è voluto.

 

La volontà che qui per Severino appare fondamentale al punto da fargli dire che la testimonianza della verità appartiene alla verità, questa volontà dunque non è nient’altro che un escamotage per indicare un qualche cosa che non si sa bene che cosa sia ma che muove l’uomo in una certa direzione anziché in un'altra, che muove letteralmente, è qualche cosa che evoca, anche se Severino non sarebbe d’accordo “l’essere progettato” di Heidegger. C’è sempre qualche cosa che muove, il fondamento, il principium rationis quello che muove la ragione, di volta in volta è l’essere, la verità, l’essere dell’ente a seconda delle dottrine filosofiche, tutti questi giri e raggiri per evitare o per non avere inteso qual è effettivamente l’unico fondamento necessario e cioè quella stessa cosa che consente di fare queste considerazioni senza la quale cosa non c’è niente, non solo non c’è niente ma non c’è mai stato niente. La verità nel caso di Severino sorge da una volontà che è nelle parole, non si sa bene come né perché ma che le costringe a parlare. La complicazione sorge nel momento in cui non ci si accorge di quanto le cose in realtà siano semplici, pensi a tutta la teologia, ha presente il Migne, il Migne è la raccolta di tutti i testi della Patristica sia greca che latina sono circa trecento volumi, senza traduzione naturalmente, è ovvio, dicevo dunque che la teologia per risolvere questo problema del fondamento cioè dare a dio una certa dignità, senza riuscire ovviamente a farlo perché non lo può fare …

Intervento: d’altra parte il linguaggio ha bisogno di costruire proposizioni e quindi perché no?

Sì, non può non farlo, non c’è altra via, ciò cui siamo giunti cioè il linguaggio rappresenta come abbiamo sempre detto il fine corsa, non c’è più niente aldilà, rappresenta la sola risorsa degli umani, l’unica, non ce ne sono altre, ciò contro cui combattiamo ormai da tanti anni è la superstizione, non tanto quella che afferma che se passa il gatto nero allora … quella è un gioco per bambini, ma quella superstizione che afferma che le cose esistono, esistono al di fuori del linguaggio, e la domanda che verte su qual è il fondamento non si è accorta che il fondamento non è altro che la domanda stessa sul fondamento, cioè la struttura che consente di costruire la domanda …

Intervento: la domanda attorno cui si ruota nel discorso ovviamente teorico per quanto riguarda la ricerca sul pensiero è una questione che si pone qualunque persona nella giornata è solamente un po’ più complesso, più articolato, più approfondito ma la struttura è sempre quella è sempre la ricerca di qualcosa di vero …

Non può essere altrimenti Sandro, gli umani essendo fatti di linguaggio si muovono esattamente così come è fatto il linguaggio …

Intervento: il problema è dare una collocazione a questo vero c’è sempre questo alone di mistero, di indicibile il vero sarebbe qualche cosa che esiste ma che non si può dire che tutti quanti cercano di descrivere … è come se si dovesse uscire da se stessi per trovare il vero …

Questo è il principio di qualunque struttura religiosa, Daniela pensi alla teologia apofatica di Dionigi Aereopagita che è quella che nega la possibilità di dire che cosa dio sia per cui dice soltanto che cosa non è, lasciando questa specie di buco vuoto, come Heidegger di cui dicevamo l’altro giorno, in fondo questo abisso è indicibile, non si può dirne, ma lo stesso Lacan con il desiderio che è ciò che continua a dirsi in ciò che si dice ma di fatto non può dirsi, il sentimento ha questa definizione generalmente, c’è sempre qualcosa che non può dirsi: è l’impero della teologia apofatica, c’è sempre un indicibile. Anche perché essendo indicibile ciascuno può dire quello che gli pare …

Intervento: l’importante è che questo indicibile sia mantenuto …

Che è anche ciò che vale di più, e in effetti questo indicibile è dio, questo abisso, questo nulla assoluto. Questo il principio di ogni struttura religiosa che a fondamento pone l’indicibile, l’entimema, il sillogismo in cui la premessa generale non c’è, è indicibile. Questo è il principio religioso, l’analisi del discorso religioso è tout court l’analisi del discorso occidentale.