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18-2-2015

 

LIBERTÀ E POTERE 3

 

Procederemo in questo modo: ciascuna volta in cui ci incontriamo chiederò se qualcuno ha iniziato il lavoro, come lo sta portando avanti, se ha delle questioni, se ha incontrato dei problemi, delle interrogazioni, cioè tutto ciò che ha incontrato rispetto al suo progetto. È passata solo una settimana e non so se qualcuno ha qualche idea, qualche proposta intorno al suo progetto, tra l’altro la volta scorsa abbiamo fatto un giro di domande intorno all’argomento, al tema più o meno specifico su cui intende portarlo avanti e tu Stefania mancavi, hai qualche idea? Mi sembravi orientata verso la questione della clinica più propriamente…

Stefania: penso che l’orientamento più che andare così ad analizzare la radice del potere, anche della libertà, diciamo, la posizione dello psicanalista tra il “potere di …” e la “libertà da …” nel senso che la mia attuale posizione è che non può esistere libertà né assoluta né illimitata, per cui penso che l’unica libertà che ci è dato avere è una libertà momento per momento in relazione a una certa questione, e quindi è come questione in quel preciso momento e quindi non può che essere libertà da qualcosa, da qualcosa che ti impedisce di assumere una certa situazione e per contro il potere, io penso che, soprattutto là dove si tengono un certo tipo di posizioni occorre sapere riconoscere il potere che si ha, per poterlo usare in un certo modo, per questo parlo di “potere di” cioè io non penso possa esistere una situazione in cui non esiste il potere, ci sono vari utilizzi del potere quindi diciamo che il mio pensiero sarebbe quello di andare più sul “come”, sia in relazione al potere, sia in relazione alla libertà, è legato alla posizione dello psicanalista che va a confluire questo binomio “potere-libertà” con il discorso dell’etica comunque anche l’etica non è qualcosa, come posso dire? Una regola universale, non può che essere ogni volta in relazione all’altro o a una situazione o a un’interrogazione e via dicendo. Quindi potere e libertà una funzione che si attiene a una situazione quella della clinica.

Quindi “potere e libertà” nella clinica psicanalitica, è un po’ questo mi sembra il tuo orientamento. Ti chiedi come si gioca la questione del potere in una analisi. Per approcciare la questione occorrerebbe una riflessione su ciò che ci si aspetta da un analista. Come spesso accade quando si approcciano queste questioni accade di dovere definire una serie di cose prima che una serie di affermazioni possano incontrare un senso, perché l’analista, sì certo, non può esimersi dal potere ma di quale potere stiamo parlando? Neanche rispetto alla libertà, di quale libertà stiamo parlando esattamente? Quando dici “libertà da” è come se ci fosse già una definizione di libertà in ciò che dici e che tu applichi. Ciò che dicevo forse la prima volta che ci siamo incontrati due mercoledì fa, possiamo riprenderlo proprio a questo riguardo, non tanto a quello che stati dicendo tu ma una questione forse più radicale e cioè la chiamiamola “necessità” per il momento in ambito direi teoretico di intendere che cosa sta intervenendo in quel momento rispetto a un certo termine, ché di “libertà” come sai ne hanno parlato tutti, dal peggiore tiranno alla migliore democrazia, ammesso che ne esista una, e tutti quanti parlano di libertà, ma ovviamente con accezioni leggermente diverse, ma queste accezioni muovono per lo più dai presupposti che si intende utilizzare. Ora il lavoro interessante che potremmo anche fare qui è quello di, per usare un termine che usano i filosofi, “problematizzare” dei termini, dei significanti. Problematizzare significa esporli a una domanda, esporli a un’interrogazione, cioè “io sto usando libertà in questa accezione” qualunque sia non ha importanza, perché? Perché sto usando questa accezione anziché un’altra? C’è un motivo? Perché mi piace così? Oppure perché ci sono una serie di “motivi” cioè di cose che mi muovono in quella direzione? È un lavoro a mio parere importante, perché è quello che consente a un certo punto di trovarsi di fronte a una questione con ben altri strumenti. Per esempio se io intendo “libertà” in accezione più ampia, come grosso modo l’ho definita l’altra volta e cioè come “la possibilità di esercitare la propria volontà in assenza di limiti o in assenza di impedimenti” anche questa è una definizione di libertà, però non è ovviamente l’unica, ne sono state formulate un certo numero, dicevo forse la volta scorsa, da Platone fino a Sartre la questione della libertà è stata affrontata in vari modi, quindi a un certo punto io decido, per potere procedere nel mio lavoro teoretico, decido di usare questo significante “libertà” in una certa accezione, poi posso modificarla ovviamente, posso modificarla se intervengono motivi per farlo. Detto questo ciò di cui mi renderò conto a quel punto è che l’utilizzo che faccio di questo significante, cioè il modo in cui lo pratico nella teoria, non definisce, come dicevi tu giustamente, la libertà, è soltanto un’accezione di libertà che sto utilizzando in questo momento, perché quello che tu hai detto, che è importante, cioè non esiste la verità assoluta, così come non esiste l’etica, anche qui occorrerebbe stabilire che cosa intendiamo con esistenza, cosa che occorrerebbe fare prima di affermare che qualche cosa esiste oppure no, se no si rischia di non sapere di che cosa si sta parlando Il termine “libertà” so che lo utilizzo in un certo modo che mi conviene, può convenirmi per tanti motivi, estetici, perché mi piace così, perché l’ho sentito dire, perché l’ha detto una persona che ritengo importante, perché ho detto delle cose che mi hanno portato qui, sia come sia, sto intendendo il termine “libertà” in una certa accezione, questa certa accezione non definisce ovviamente “libertà” ma dice soltanto in che modo io sto utilizzando questo termine, cosa che però ha delle implicazioni. Perché “libertà” in questo caso, come qualunque altro termine ha una validità universale, cioè esiste un riferimento, quando parlo di libertà, necessario tra libertà e qualche cosa, oppure è ciò che io sto utilizzando in quel momento? Potremmo dirla con i semiotici, cioè che il significante libertà è “l’intersezione di un fascio di significati” e niente di più, oppure accolgo l’idea metafisica, come accennavo anche la volta scorsa per cui questo significante “libertà” abbia da qualche parte il suo modello, quello vero, un’idea platonica. Dicevo prima che le implicazioni sono notevoli perché a questo punto qualunque termine io utilizzi non ha un referente da qualche parte, che sia quello vero al qualche io devo cercare di approcciarmi sempre di più, perché non c’è, e quindi mi approccio a che cosa? Posso soltanto utilizzare un termine in un certo modo qui in questo momento, e allora lo definisco, lo definisco anche per chi mi ascolta, “badate che io sto utilizzando questo termine in questo modo”, però tolgo a questo punto al concetto di libertà ogni riferimento che non sia ad altri significati. Prima dicevo, l’intersezione di un fascio di significati, significati come rinvii, il significato è un rinvio di qualche cosa a qualche altra. Questo mette in luce una situazione che il pensiero ultimamente ha preso in seria considerazione, diciamo da fine ‘800, e cioè il fatto che quando si parla di qualche cosa a che cosa ci si sta riferendo esattamente? È un discorso complicato e anche difficile, perché quando si parla si tende a usare delle presupposizioni. Come si costruisce una teoria generalmente? Si muove da presupposti, da cose che io ritengo vere per un motivo o per l’altro non ha nessuna importanza, dopo di che su queste costruisco delle inferenze, cioè se questo allora seguono tutte queste cose, possiamo anche fare un esempio, la prima volta tu citavi quella frase di Freud “l’Io non è padrone in casa sua”. E avevo posto una domanda, una domanda che per altro nessuno si è mai fatta e cioè perché mai dovrebbe volere di essere padrone in casa sua, a che scopo? Dire che l’Io non è padrone in casa sua muove da una serie di presupposizioni e cioè muove da alcune cose che sono date per acquisite, e che servono poi per costruire delle derivazioni, letteralmente delle inferenze. In questo caso è l’autorità di Freud che funziona da riferimento, Freud ha detto così quindi … Potremmo dire che è così fino a prova contraria, però la prova contraria non arriva perché nessuno la cerca e quindi non arriverà mai, ma non è tanto questa la questione, cioè stabilire se questa frase di Freud è vera oppure no, è un’operazione che non ha molto senso, però pone l’accento su un aspetto importante e cioè è come se vi stessi dicendo: “badate a ciò che utilizzate nella costruzione di un pensiero, di una teoria, di qualunque cosa, badate alle presupposizioni che state utilizzando”. Le presupposizioni sono quegli elementi che vengono acquisiti senza nessuna interrogazione, una volta era il famoso diktat di Aristotele “ipse dixit” quindi è così perché l’ha detto lui, che potrebbe anche essere, ma non sempre e non necessariamente. Ecco quindi “problematizzare” significa interrogare, che ci sia questo Io per esempio, quando parlo di Io, nell’accezione in cui ne parla Freud, se ne può parlare in infinite accezioni ovviamente, di nuovo mi riferisco a un qualche cosa, cioè a un quid che sta da qualche parte oppure è un significante? E cioè, come dicevo prima, un’intersezione di significati che lui utilizza in quella accezione per motivi suoi. Mi trovo ad avere a che fare con una parola in prima istanza e come sai sul significato delle parole si è lavorato tantissimo, dal Perì Ermeneias di Aristotele fino ad arrivare alla filosofia analitica contemporanea, senza per altro giungere a considerazioni e conclusioni di grande interesse. Sto dicendo di tenere sempre conto che si sta parlando di qualche cosa che è in prima istanza, e non può non essere, un termine, un termine che trae il suo significato dagli altri termini ai quali è connesso. Non è che questo costituisca un grosso impedimento in ambito teoretico, anche perché ciascuno sa perfettamente che se vuole costruire un pensiero, una teoria, una qualunque cosa deve muovere da un elemento che ritiene stabile, lo ritiene stabile non perché si riferisce a qualche cosa da qualche parte, perché è quello che è, è stabile perché ha deciso di utilizzarlo in quel modo, è un po’ come dicevo l’altra volta: quando affermo qualche cosa all’interno di un discorso io lo affermo, cioè letteralmente lo fermo, lo stabilizzo, ma soltanto per potere proseguire, questa stabilità non ce l’ha se non gliela do io, quel termine non ce l’ha e non l’ha mai avuta. Sto spiegando un modo di procedere, possiamo chiamarlo un metodo, un metodo si può anche questo utilizzare in varie accezioni, in accezione greca, come μετα δς,δς” è il cammino, il percorso, il sentiero “μετα” vuole dire tante cose: attraverso, lungo, oltre, quindi l’andare lungo un cammino, oppure seguire un certo cammino, oppure darsi dei modi per compiere questo cammino, oppure, in un’accezione scientista e cioè come algoritmo. Il metodo inteso come algoritmo è stato posto per primo da Cartesio nel Discorso sul Metodo: il metodo è quella sequenza finita di operazioni che mi consente di giungere a una conclusione, anche il contare utilizzando le dita di una mano e la punta del naso come riferimento, anche questo è un algoritmo, semplice ovviamente, ce ne sono di più complessi però è un metodo, un metodo per contare, quindi è un algoritmo. Dicevo che un metodo interessante è quello di interrogare ciò che si sta facendo, ma interrogare tenendo conto delle risposte che si danno e anche facendo attenzione alle presupposizioni, cioè a tutto ciò che si dà per acquisito. A tutti quegli elementi che, per esempio nell’ultimo Husserl, intervengono come la doxa, l’opinione, sulla quale si basa la scienza ché, come diceva lui, qualunque scienziato prima di muoversi per fare le cose che ha da fare parte dal suo bagaglio di conoscenze, cioè dalle cose che ha imparate, dalle cose che ha sentite, da infinite cose che costituiscono le sue opinioni, quello che pensa intorno a qualcosa. Fu una rivalutazione in fondo della doxa. Certo è più complicato procedere in questo modo perché anche il termine “psicanalisi” o “analista” o quello che ti pare è come se fosse sempre in discussione, e cioè ogni volta ti interroghi su cosa stai dicendo quando stai dicendo “psicanalisi”. Puoi intenderla come la teoria che ha inventato Freud, va bene, però puoi intendere che questo termine “psicanalisi” non interviene mai solo così, interviene con un’infinità di altre congetture, pensieri, delle volte anche sensazioni, ecco perché parlo del “termine” come l’intersezione di un fascio di significati. È questo che intendo, anche nietzschianamente e forse ancor più heideggerianamente, almeno nel modo in cui Heidegger legge Nietzsche, con lasciare aperta la domanda. La psicanalisi può essere infinite cose naturalmente, però ciascuna volta forse non è tanto importante fare procedere da questo termine una serie di considerazioni, il più delle volte si prende questo termine come una presupposizione, cioè si suppone che ci sia “la psicanalisi” da qualche parte che è quella cosa lì che si pensa che sia ovviamente, è inevitabile, e da lì si traggono una serie di inferenze. Però il pensiero può fare di più, può fare di meglio, cioè può interrogare quello che sta facendo. Claudia, qual è la domanda che lei vuole rivolgere alla questione del potere?

Claudia: dunque partendo dalla mia definizione di potere, da quello che ho estrapolato da quello che si è detto qui, se noi decidiamo di dare una definizione io do una definizione mia di potere…

Qual è la sua definizione?

Claudia: potrebbe essere il voler affermare delle tesi sull’altro e da qui parte una domanda specifica, se io ho bisogno di affermarmi su un altro probabilmente la mia stessa affermazione, la mia affermazione di me non mi è sufficiente se io ho bisogno di affermarmi su qualcun altro per avere da lui un qualche genere di conferma, un riscontro eccetera, in quest’ottica si apre tutta una serie di cose per esempio io che ho bisogno di avere un rimando da qualcuno altro…

Un rimando o un riscontro?

Claudia: un riscontro, ci possono essere tutta una serie di cose più negative … in questo senso io posso cercare un riscontro nell’altro per trovare qualcosa di simile a me che può essere una cosa più o meno positiva perché appunto non è sufficiente il mio stesso riscontro perché se io ho bisogno di avere un’altra versione è evidente che la mia non è sufficiente e in questo senso parte tutta una serie di domande su chi sta esercitando il potere, poi se arrivo un po’ più in là mi chiedo è possibile esercitare un potere in questo senso senza bisogno che l’altro mi dia una conferma di qualche tipo? Si parla ancora di potere? È sempre la stessa cosa? … nel momento in cui io non ho bisogno che l’altro confermi quello che io sto cercando di fare per comunicare con lui non è più un potere in quell’ottica lì è un potere in un’altra accezione, la cui definizione mi sfugge, arrivata a questo punto vado avanti e da un’altra parte perché sono due le persone che interagiscono … Chi subisce il potere lo può contrattare e va bene non si arriva a nessun tipo di comunicazione ma se decide di asservirsi a quel potere lì, se decide di sottostare a questo tipo di potere perché lo fa? Mi vengono in mente tutta una serie di cose per esempio la comodità, nel senso di lasciare la responsabilità personale alla scelta dell’altro, io non ho nessuna responsabilità in questo posso averne tutta una serie di vantaggi e poi un’altra cosa visto che noi viviamo in Italia che è uno stato laico con tanto di vaticano all’interno secondo me gioca a questo punto qualcosa dell’ordine della colpa cioè io lascio a te il potere perché a me manca qualcosa di quello che tu mi stai mandando, esercitando il tuo potere agisci su qualcosa che manca a me, io percepisco che mi manca e da qui la colpa, cioè io mi sento in colpa perché quella cosa mi manca e da qui sono costretta in qualche modo a lasciarti questo tipo di potere, secondo me è la cosa che vorrei approfondire perché quel tipo di ragionamento lì nasce dall’educazione che noi riceviamo che si basa proprio … il bambino viene educato basandosi sul senso di colpa in qualche modo. Questo è evidente cioè il bambino è buono a patto che faccia la cosa giusta ma se la cosa è sbagliata è cattivo … Il bambino non ha un suo criterio ancora per valutare se è una cosa giusta o sbagliata … Ora in questo senso qui una risposta interessante al motivo per cui pur essendo tutti dotati se arriviamo a un certo grado di consapevolezza della possibilità di scegliere di dare il nostro potere, di esercitare la nostra volontà quanto gioca a questo punto la percezione della mancanza sul singolo, quanto gioca questo, quanto gioca?

Lei sta riferendo al potere in uno dei modi in cui si manifesta, cioè il potere di qualcuno su qualcun altro, ma la domanda è: perché mai uno dovrebbe volere esercitare il potere su altri? Poi lei dice giustamente che il potere deve essere riconosciuto, se nessuno mi riconosce nessun potere che potere ho? E quindi devo fare in modo che questo potere sia riconosciuto, però dicevo perché mai presso gli umani, cioè le persone, cioè i parlanti, è così importante, tanto da avere spinto per esempio Nietzsche a dire che la volontà di potenza è l’unica forma di volontà, l’unica cosa che gli umani vogliono, non ce ne sono altre, le altre passano, come dire, attraverso questa che per Nietzsche è la volontà di potenza. Se fosse così la cosa sarebbe notevole, perché consentirebbe di leggere tutto ciò che gli umani hanno fatto da quando esistono in questo modo: come l’esercizio di una volontà di potenza, sia le cose mirabili sia le cose più nefaste ovviamente. Lei si soffermava su un aspetto particolare e cioè sull’accettazione del potere da parte di qualcuno, cioè qualcuno che accetta il potere dell’altro per una serie di motivi, parlava del senso di colpa dovuto a una mancanza. La “mancanza” è un termine complesso. Molta psicanalisi ha giocato su questo, e non solo la psicanalisi, sul fatto che ci sia una mancanza presso gli umani e che questa mancanza sia il motivo per cui sono continuamente alla ricerca di qualcosa che non troveranno mai, perché questa mancanza appare strutturale. È la “manque à être” di cui parlava Lacan, e questo darebbe anche l’idea del motivo per cui subentra a un certo punto l’angoscia, come un risultato della constatazione di una mancanza che non è colmabile, di qualcosa che non potrò mai avere completamente. Ora proviamo a interrogare tutto ciò e cioè chiederci come mai gli umani immaginano una cosa del genere?

Claudia: credo che la risposta sia “che immaginano”

Sì, apposta ho usato questo termine, se no avrei detto “sanno che manca loro qualcosa” sì lo credono, lo pensano, ma cosa glielo fa pensare che manchi qualche cosa? Heidegger risponderebbe che è stato Platone a mettere loro in testa questa storia dal momento in cui ha stabilito due mondi, quello sensibile e quello materiale, quello che vediamo, che è un’immagine “edos”, è sempre un’immagine di qualche altra cosa che non è raggiungibile, è sempre fuori portata. Il successo di Platone è stato in buona parte dovuto al cristianesimo che ha fatto man bassa del platonismo, però l’idea di Heidegger è che è stato Platone a porre in prima istanza, con la metafisica, questa idea che ci sia, o meglio che ciò che abbiamo sotto gli occhi sia qualche cosa di effimero, di finto, ciò che è vero è qualche cosa che manca per l’appunto perché sta da un’altra parte, sta sempre da un’altra parte. Ora i motivi per cui una cosa del genere abbia avuto tanta presa nel corso degli ultimi duemila anni questo è un altro discorso. Una idea che la psicanalisi stessa si è portata appresso, l’idea che manca qualche cosa agli umani per cui sono sempre alla ricerca. Da qui il desiderio che è desiderio di niente giungeva a dire Lacan, perché non è soddisfacibile da un quid, da un ente, quindi è qualche cosa che si rilancia continuamente, il raggiungimento di qualche cosa che non troverà mai, ma come fa a saperlo? È un’affermazione impegnativa questa, occorrerebbe sostenerla con forti argomentazioni, lei provi a pensare: come è potuta venire in mente una cosa del genere? La “manque à être”, cioè l’Essere che manca a se stesso, come fa a saperlo? Dovrebbe sapere perfettamente che cosa è l’Essere, soltanto a questa condizione potrebbe eventualmente, sottolineo eventualmente, affermare che l’Essere manca a se stesso, ma deve conoscere, deve sapere che cos’è. Se no questa affermazione non significa niente, è come se io dicessi che Stefania manca a se stessa, non ho detto niente. Che cosa vuole dire questa cosa? Può volere dire che manca a un’idea che lei ha di sé, può essere, ma questa idea se l’è creata lei, non esiste in natura, e allora torniamo alla questione di prima “perché se l’è creata? A che scopo?” Senso di colpa dice lei, beh sì certo è curioso che Freud a un certo punto rilevasse che senza senso di colpa non è possibile educare niente e nessuno…

Claudia: sarebbe interessante andare a vedere … però questo è il nostro metodo occidentale ce ne sono degli altri, mi chiedo come possono essere i modelli orientali che non si basano su questo meccanismo per insegnare penso a quelli orientali nel senso di come si è evoluta la filosofia orientale … magari un modello educativo diverso potrebbe dare una risposta diversa cioè noi funzioniamo con questo modello che è l’unico che conosciamo per imparare…

Sì, però c’è un problema, e cioè il fatto che qualunque sia il tipo di cultura che lei considera questa cultura è fatta dagli umani, dalle persone, le quali persone parlano, ora la domanda che alcuni si sono posti è se la struttura del linguaggio come e in quanto struttura originaria sia sempre la stessa oppure no, e cioè se per parlare sono necessarie alcune condizioni oppure si può spaziare fra infinite condizioni. La questione è notevole, e torna di nuovo la questione metafisica, quando per esempio io affermo, dico, che “l’apparire dell’assolutamente altro è l’apparire del non assolutamente altro”? Questa è una domanda metafisica classica, l’apparire di Claudia, è l’apparire di qualche cosa che non è Claudia? Se io dico che l’apparire dell’assolutamente altro occorre che appaia così, cioè come assolutamente altro e non come una macchina da caffè per esempio, sto dicendo una cosa complicata perché sto dicendo “l’apparire dell’assolutamente altro” ha come necessità l’apparire dell’identico e cioè che “l’assolutamente altro” sia quello, quello che è e non un’altra cosa. È una delle aporie del pensiero occidentale, la quale aporia mostra che il linguaggio appare strutturato in un certo modo, perché questa aporia sorge dal fatto che si sta affermando qualcosa, se io non affermassi nulla non ci sarebbe nessuna aporia. Però sembra che per poter parlare, per potere esercitare questa pratica di parola sia necessario affermare qualcosa, così appare perché se non affermo niente…

Claudia: dovremmo anche essere d’accordo sul significato di quello che affermo, lei afferma che bianco è bianco, dovremmo essere d’accordo su che cosa è bianco…

Non necessariamente, qualunque cosa avrò deciso che sia “bianco”, allora “bianco” sarà quella certa cosa. La metafisica la pone come qualche cosa che è di per sé, però noi non siamo metafisici, non necessariamente. Ma dicevo che è necessario affermare delle cose è queste cose che si vanno affermando implicano altre cose, generalmente si parla così, cioè si afferma qualche cosa dalla quale si fa derivare una serie di conseguenze fino alla conclusione. Questo per indicare in modo molto approssimativo il modo in cui funziona il linguaggio perché, tenete sempre conto, che qualunque cosa gli umani facciano o non facciano, pensino o non pensino, decidono, eccetera questa cosa che fanno o non fanno gli è consentita dal fatto di essere parlanti, se non fossero parlanti tutto ciò non sarebbe mai esistito, nemmeno noi saremmo mai esistiti, la cosa interessante è incominciare a valutare le implicazioni di una cosa del genere, cosa comporta? Perché dubito che non comporti nulla il fatto che gli umani sono tali solo perché parlano, perché se no, se non parlassero tecnicamente potremmo dire che non sarebbero mai esistiti, perché non ci sarebbe nessuno per cui esistono, nessuno che parla di esistenza, nessuno che l’afferma, nessuno che la verifica, nessuno che la riscontra, potremmo parlare di esistenza a questo punto? No. Anche perché non avremmo neanche i termini, per esempio il termine “esistenza”, non avremmo niente, ovvio anche il termine “esistenza” va considerato. Se lei prende l’accezione antica, “ex sistere” è l’accezione platonica, qualcosa esiste, l’essente esiste perché ha un Essere fuori di sé, questa è l’accezione platonica di “esistenza”, altri hanno invece utilizzato l’accezione di esistenza come ex sistere cioè come ciò che sta fuori. Qual è vera? Può utilizzare quella che le pare, importante è che sappia quello che sta facendo perché poi in fondo tutto ciò che vi sto dicendo non ha altro obiettivo se non mantenere una certa presenza a ciò che si sta dicendo e soprattutto a ciò che sta accadendo mentre si dice, intervengono una quantità sterminata di cose, ogni elemento che interviene che noi prendiamo per quello che è per potere proseguire, però questo elemento viene da migliaia di anni di storia, si porta appresso tutto ciò che gli umani hanno detto, fatto in questi ultimi tremila anni, è cioè di una complessità immane, ogni singolo termine che utilizziamo è come se fosse una costellazione praticamente sterminata di altri termini. Ma per potere utilizzare un termine è come se dovessimo “de-scriverlo”, ritagliandolo da una serie infinita di possibilità, se no non lo posso usare, è come se ciascun termine significasse simultaneamente ciascun altro non potrebbe parlare ovviamente, deve ritagliarlo per potere usarlo in qualche modo, però ricordandosi che lo si sta usando in quel modo, che non è quella cosa lì, lo sto usando così ma non è quella cosa lì, e neanche un’altra. Provi a riconsiderare la psicanalisi partendo da queste considerazioni, posso affermare che la psicanalisi è una dottrina metafisica oppure no, e se sì questo cosa comporta? Prima parlavo di presupposti, ogni “pre supposto” se non è considerato per quello che è, cioè un termine linguistico che uso in quel modo in quel momento, diventa un termine metafisico, cioè quello che è, se io parlo di “inconscio” per esempio, è uno dei termini classici della psicanalisi, sto parlando di qualcosa o sto parlando di nulla? Ovviamente si sta parlando di qualcosa, si presuppone, se sto parlando, infatti dico, ma di che cosa? E torniamo di nuovo alla questione di prima: questo termine Freud l’ha utilizzato in un certo modo a partire da che cosa? Da un’analisi teoretica? No, dall’osservazione, cioè ciò che lui ha osservato, che in ambito teoretico rappresenta un grosso problema, poi certo ha tratto delle considerazioni però muove comunque, come tutta la scienza, di cui era figlio per altro, lo obbligava in un certo senso a muoversi così e cioè a fare delle affermazioni metafisiche. La scienza è metafisica, cioè muove da presupposti, immagina che sia così, dopo di che trae le sue conclusioni. Freud è partito dall’osservazione, nulla contro l’osservazione ovviamente, sto solo dicendo che è un criterio al pari di qualunque altro e ciò che descrive per esempio rispetto alla rimozione, la cosa, diciamo, più saggia potremmo dire, che non è impossibile che in alcuni casi accada ciò che lui descrive, non è impossibile che accada e, dicevo, è il massimo che possiamo affermare. Se andiamo oltre questo ci incamminiamo lungo una via che è difficile da sostenere con argomentazioni. Certo, posso affermare qualunque cosa, la metto lì e bell’e fatto, però non è questo che ci si aspetta da un lavoro, da un’argomentazione, ma motivazioni. “Motivazione”, letteralmente cose che mi muovono in quella direzione. Ecco allora l’attenzione a cosa si sta facendo quando si parla, quando si pensa, che poi tutto sommato potrebbe anche essere ciò a cui un’analisi potrebbe condurre, questa attenzione, “cura” direbbero alcuni, a ciò che si sta dicendo, cioè ciò sta accadendo in quel momento, mentre parlo, e cosa sta accadendo? Sta accadendo che sto utilizzando dei termini, di cui molte volte la persona non sa neanche bene il significato, però li usa per assonanza, perché l’ha sentito dire, perché pareva che quel termine andasse bene messo lì, e allora lo usa, ma ciò che sta accadendo è una quantità sterminata di eventi, di eventi che accadono lì in quel momento anche se ciascuno di questi eventi non è svincolato da ciascun altro, gli eventi che c’erano prima e in un certo senso anche con quelli che verranno dopo. Tenendo conto di tutto questo risulta molto più arduo affermare una qualunque cosa ma non può non farlo, però può, facendolo, sapere quello che sta facendo.

Delmastro: io volevo aggiungere alcune cose su quello che sto facendo. Volevo cercare in una accezione differente la “potenza anche della volontà”, rispetto a quella che sembra andare per la maggiore in occidente legata ad un sistema educativo garante … è tutto da formare, adesso va di moda il termine “formare” quindi formare tutti quanti … Il ciò fa sì che si possa anche parlare di libertà ad un certo punto ma in questo sistema di libertà ce ne è molto poca, come si fa a parlare di libertà in un sistema appunto dove il qualcosa è solamente da trasmettere? … e questo in Nietzsche, io sto parlando dello Zarathustra, già si coglie la sua volontà di potenza è creatrice quindi esce fuori da qualsiasi dettame educativo, anche affermativo in un certo modo ma è verso la questione dell’invenzione, della trovata, anche dell’arte secondo me, non solo, e questo lo si sente, se non vogliamo parlare di potenza possiamo parlare di forza, c’è una forza nel suo testo che non ha nulla a che vedere con questa forza legata a odore di dominio, è questa forza, in un testo che non afferma nulla di particolare, questo testo però, questo testo ha una forza che ti consente di proseguire, ti consente e ti sprona, ti provoca a proseguire, a inventare teorie, anche a proseguire a raccontare, a errare in maniera vera e propria e a non soffermarsi su questa cosa che ci sarebbe da trasmettere, qualcosa da intendersi come se fosse qualcosa … questa potenza che lui è stato in grado di dire anche in maniera molto indiretta anche attraverso la sua opera che è potente, veramente qualcosa di potente. Perché qualcosa deve essere impossibile? Noi non possiamo pensare che qualcosa sia impossibile …. Anche solo non è detto che qualcosa sia impossibile, non c’è scritto da nessuna parte e noi viviamo in questa condizione che ci vuole molta forza arrivare a pensare che non è detto che questa cosa non sia possibile rispetto a quella cosa è … quello è molto importante, dà la forza perché non provare? Perché non proseguire? Nietzsche pone molto l’accento sulla morale, quel qualcosa che annichilisce questa forza…

Intervento: Nietzsche punta a recuperare questa forza perché questa forza diviene effettivamente potenza, potere su qualcuno al momento in cui c’è la morale, la morale è qualche cosa che punta a gestirla questa potenza perché in effetti si crea poi il dominio del … ho poi una domanda su qualcosa che ha detto lei quando parlava di mancanza “il concetto di mancanza strutturale presuppone il sapere come dovrebbe essere la struttura” giusto? Ha detto così?

Non ho detto questo…

Intervento: allora cosa ha detto di preciso?

Riguardava la “manque à être” di Lacan, cioè per potere affermare che l’Essere manca a sé occorre sapere che cosa sia l’Essere, in prima istanza.

Intervento: Quello che io volevo sapere è: “come deve essere fatta la struttura?”

Se lei prende la definizione che dà Benveniste di struttura, è una definizione interessante, tra l’altro la più nota in ambito strutturalista e cioè come una combinazione di elementi tale per cui se si modifica un elemento si modificano anche tutti gli altri, questa è la definizione che dà Benveniste di struttura. È ovviamente una definizione che ha una storia: “istruire” “costruire” “distruggere” eccetera da “struo”, una volta era “mettere insieme le cose una sull’altra” poi si è usata in varie accezioni. Certo il modo in cui si usa questo termine non è quello di duemila e cinquecento anni fa, le cose cambiano. La definizione che dà Benveniste è una definizione che è utilizzabile all’interno di un certo ambito, un ambito strutturalista, in un ambito che tiene conto della semiotica, che tiene conto anche della psicanalisi, almeno di una parte, tiene conto di varie cose, per esempio non potrebbe essere la definizione di struttura che la metafisica si troverebbe a fornire, per la metafisica questa struttura non sarebbe qualche cosa tale per cui se muto un elemento mutano anche gli altri, perché ciascun elemento è quello che è, la sua identità non procede da altro che da sé. Anche il termine “struttura” viene inteso e può essere inteso come un qualche cosa che è quello che è. Se parlassi di struttura come Platone, allora l’Essere della struttura starebbe da qualche altra parte ed è quella che è, ed è la posizione metafisica. Per Benveniste ovviamente non è così, però accade talvolta a trovarsi a considerare le cose come se fossero così senza accorgersene, perché è molto più rapido, più semplice, io muovo da un’idea, da un concetto, immagino che questo concetto corrisponda a un qualche cosa, quindi è così, dopo di che ne traggo le conseguenze “se fosse così allora ne deriverebbe questo” però c’è il “se”, se fosse così, e se non lo è? C’è anche questa eventualità. Diceva del termine “impossibile”, anche questo termine ha avuto una certa vicenda nel corso dei millenni, dalla posizione greca dell’ἀδύνατον, cioè la negazione della δύναμις della forza, fino al giorno d’oggi, l’“impossibile” anche questo, è una parola, è un concetto che non ha come referente un quid per cui quando uso questo termine come “impossibile” o “possibile” mi sto riferendo a un certo modo di intendere questa parola che si può modificare, ma è quello che non può fare la persona per esempio avvilita e depressa che immagina che l’“impossibile” sia reale, con buona pace di Lacan, e cioè che questa impossibilità non sia una costruzione, cioè qualcosa che è stata costruita, letteralmente come “struere” “mettere un pezzo sopra l’altro” ma che sia proprio impossibile. “Impossibile” qui diventa un concetto metafisico, che è quello che è, e non può muoversi da lì, e se così è allora di fronte all’impossibile e non c’è salvezza. Da qui la depressione e tutte quelle storie, quindi è sempre un problema di uso di certi termini perché ciascuno sa, anche se non ne tiene sempre nel dovuto conto, che a seconda di come si usa un termine cambia tutto: una persona è, per esempio spaventata, avvilita, angosciata, depressa, perché questa persona è di fronte a un problema che ritiene impossibile, insuperabile, poi arriva qualcuno che gli parla e mostra le cose in un altro modo, a questo punto si accorge che è possibile, cos’è successo? Sono state dette altre parole, hanno mosso altre sequenze, e queste altre sequenze hanno costruito una scena, uno scenario, un’immagine, in accezione greca del termine “edos”, di immagine letteralmente che non è più quella di prima. Questo lo sapevano già tre mila anni fa, Gorgia ne era perfettamente consapevole nell’Elogio di Elena. Uno degli aspetti del lavoro di un analista è anche, non solo, ma anche questo, e cioè di mostrare che le cose non sono soltanto così come la persona pensa che siano, non è soltanto così. Questo costituisce già un modo per aprire a qualche altra possibilità o aprire ad altre domande, ad altre vie, ad altri percorsi, che non è che spieghino quelli precedenti, certo che no, si aggiungono, si aggiungono sempre, solo che quando a una storia si aggiungono altri elementi la storia cambia, non è più quella di prima, è un’altra storia, e se quella di prima era una storia spaventosa facendo delle aggiunte potrebbe rivelarsi non così spaventosa.

Ferruccio io credo sia importante il passaggio di consegne tra la madre e il padre perché poi il ragazzo assume tutti si sintomi … Io come insegnante … è un sintomo del genitore se loro hanno sublimato bene il padre ne traggono bene, se non hanno accettato la legge del padre ne hanno vissuto male … La vita è fatta di sintomi. La parola “sintomo” … ogni autorità cade al posto del padre …

Lei ha detto che la vita è fatta di sintomi, può articolare? Potrebbe specificare meglio questo concetto che “la vita è fatta di sintomi”? Poi “sintomo” può anche intendersi come il “mettere insieme delle cose separate”, come spesso avviene con gli etimi, quando si parla di etimologia occorrerebbe sempre mettere il condizionale, “potrebbe essere così” perché non si sa mai con certezza…

Ferruccio: perché il bambino è fatto di “creta” e come la creta si plasma, a lui vengono date delle leggi e su questo calco si formano dei bisogni e questi bisogni vengono poi soddisfatti nella società, che cadono appunto secondo il bisogno primario…

Sta inserendo tantissimi termini, termini complessi, difficili, perché se con sintomo intendiamo l’accezione grosso modo di Freud, quella formazione di compromesso che sorge appunto dal compromesso tra le richieste del Super Io e quelle dell’Es, allora naturalmente se lo intendiamo in questo modo occorre immaginare che non sia possibile, per potere confermare la sua tesi e cioè che la “vita è fatta di sintomi”, che non sia possibile che non avvenga questa cosa e cioè che non avvenga una formazione di compromesso, quindi sempre c’è un Super Io e sempre ci sono le richieste dell’Es, affermazione notevole, come lo sa?

Ferruccio: in una dinamica psicologica con gli allievi loro hanno il vizio del padre in quel modo…*

Può darsi, ma io non ne sarei così sicuro, sì questa è la posizione del lacanismo, la funzione paterna che oggi per altro non esisterebbe più e da cui fanno discendere tutti i problemi dell’umanità presente e futura. Non sono sicurissimo che sia proprio così, così anche la questione del sintomo, come dicevo prima quanto di meglio possiamo dire è che non è impossibile che accada ciò che Freud descrive, non è impossibile, ma porlo come una necessità … Perché è come se Freud lo ponesse come una sorta di quantificatore universale, e il quantificatore universale non può essere in nessun modo provato per cui chiunque potrebbe rivolgergli la domanda “come lo sai?” “come fai a sapere che è così? Chi te lo ha detto?” “È una tua invenzione? È una cosa che ti è piaciuto affermare? Ha qualche supporto che ti consente di affermarlo con forza? O è semplicemente un’ipotesi, qualcosa appunto che potrebbe accadere? Che potrebbe anche non accadere affatto”. Queste sono domande più che legittime, se ci muoviamo, come accennavo all’inizio, da domande soprattutto, prima ancora di formulare risposte occorre incominciare con le domande cioè chiederci che cosa stiamo dando come pre-supposto, quando parliamo. In questo caso quando costruiamo un pensiero intorno al potere e alla libertà. È il primo passo a mio parere importante per incominciare a porsi di fronte alla questione in modo più proficuo, quello che consente la produzione di un maggior numero di domande, di interrogazioni prima ancora delle risposte eventuali e possibili. Pensavo che sarebbe straordinario se si giungesse non tanto a dare delle risposte sul cos’è la libertà o cos’è il potere, ma giungere a formulare delle domande intorno a queste questioni più interessanti di quelle che siano state formulate fino ad oggi.

Claudia: io ho una mentalità scientifica non posso che partire da una definizione. Per parlare di scienza dobbiamo parlare di metodo scientifico…

Sì, può usare i due criteri ormai più diffusi e cioè il verificazionismo e il falsificazionismo, ma nessuno dei due offre nessuna garanzia…

Claudia: è solo un modo di procedere in modo … e quindi affrontare un problema, l’importante è questo…

Questo metodo in effetti muove da affermazioni che sono necessariamente degli universali e da lì parte, cioè presuppone un corpo, dopo di che incomincia a fare tutte le sue operazioni…

Claudia: ma lei non ritiene che il pensiero proceda allo stesso modo? Cioè per pensare quanto meno devo partire da qualche cosa che io definisco tale, che io definisco “cosa x” “bianco è bianco”. Da lì posso pensare che cosa è un colore, perché quello lo chiamo bianco eccetera ma per incominciare a pensare devo mettere dei punti fermi intorno a qualunque cosa e magari contestarli … Però se non partiamo da un presupposto non abbiamo pensiero…

Sì, lei muove ovviamente da un qualche cosa, però la differenza tra il pensiero scientifico e ciò che mi sto trovando a dire qui con voi è che la scienza non si stacca dall’idea che l’oggetto in quanto tale esista. Questa è la presupposizione di cui dicevo, ora allo scienziato e meno che mai al tecnico, sapere che cos’è questa cosa importa assolutamente niente, a lui importa soltanto sapere come funziona, usando come diceva lei giustamente dei metodi, dei criteri, e come dicevo quelli più comuni sono il verificazionismo e il falsificazionismo di Popper. Il verificazionismo come lei sa viene dalla scuola di Vienna, dal neo positivismo praticamente, che tuttavia giunge a delle conclusioni che non possono essere affermate perché il verificazionismo può andare avanti all’infinito, c’è sempre la possibilità che sorga un problema a inficiare tutto quanto, e così la stessa cosa vale anche per il falsificazionismo, non lo può affermare con assoluta certezza. Tecnicamente potrebbe anche non essere un problema per la scienza, lo diventa nel momento in cui parte dall’idea che l’oggetto in quanto tale sia, e che quindi se l’oggetto è, allora deve sottostare a delle leggi, deve essere osservabile, deve essere manipolabile eccetera. Per questo dicevo che la scienza è necessariamente metafisica, cioè non può che muovere da un’idea che sia differente da quella che l’“oggetto” esiste, l’oggetto c’è, che sarebbe l’ontologia propriamente, vedere che cosa c’è, se c’è allora lo possiamo trattare. Lei diceva bene, si parte sempre da un qualche cosa, però un conto è ritenere che questo qualche cosa, come fa la metafisica, sia un quid, una cosa che c’è, senza sapere che cosa sia, ma c’è, altro è sapere quello che si sta facendo in quel momento, e cioè che si sta affermando che c’è questa cosa al solo scopo di proseguire a parlare, ma sapendo che questa affermazione non afferma nessuna esistenza, nessuna ontologia, semplicemente afferma, cioè mette lì una certa affermazione per costruirne altre, come se non ci fosse altro da fare se non affermare una cosa per costruirne altre...

Claudia: Ma il linguaggio non funziona in un modo diverso…

Infatti sto descrivendo il funzionamento del linguaggio. Sì, funziona così certo l’inganno è stato quello di immaginare che questo presupposto da cui si parte abbia un suo statuto ontologico che non ha, non l’ha mai avuto e non potrà mai averlo per un motivo semplicissimo che adesso le dico. Quando io considero un oggetto, un aggeggio qualunque, se lo pongo come qualche cosa che è fuori dal linguaggio, che non è linguaggio ma è un’altra cosa, un oggetto che ontologicamente è quello che è, a questo punto tutta la interrogazione è rivolta verso l’oggetto, il quale deve rispondere di sé, chiaramente sono sempre io che gli faccio le domande e sono sempre io che rispondo e arrivato a un certo punto mi trovo di fronte a una richiesta che può sembrare folle, ma è quella che fa la scienza agli oggetti, cioè chiede all’oggetto di rispondere lui e dire che cosa realmente è, perché se no è sempre viziato, mediato dal linguaggio…

Claudia: ma non abbiamo nessun altro modo di farlo…

È così, anche se si è pensato per millenni che non fosse così, e cioè che l’oggetto emanasse da sé qualche cosa che consente a noi la sua conoscenza, la teoria dell’“emanazione” diceva questo. Oggi si è più consapevoli del fatto che non posso che parlare per definire questo oggetto, la questione, a questo punto è: l’oggetto c’è senza il linguaggio? Risposta: sì/no. Badi bene perché la risposta che darà potrà essere catastrofica in ambedue i casi. Se dice che questo oggetto è fuori dal linguaggio, c’è indipendentemente dal linguaggio allora deve provarlo che è così…

Claudia:(io non posso definirlo senza linguaggio…

Quando lei dice “non posso definir-lo” questo “lo”, questa particella pronominale è impegnativa, perché definir-lo “lo” cosa? Questa cosa? Tutto questo ha come dicevo delle implicazioni notevolissime, perché o questa cosa c’è indipendentemente dal linguaggio e allora lei può costruire una metafisica, oppure non c’è senza il linguaggio e allora si tratta di comprendere i motivi per cui affermiamo questo. Per il momento lasciamo questa differenza di posizioni e cioè l’una che afferma che l’oggetto c’è, che è la posizione scientista, che è la posizione metafisica, l’altra che dice che l’oggetto è una costruzione linguistica. Entrambe le posizioni non sono semplici da sostenere ma lo si può fare, ma la questione è: quando l’avremo fatto, cosa avremo fatto esattamente? Lo lasciamo al prossimo incontro. Io cerco soltanto di porre delle domande, delle questioni in modo di mostrare la possibilità di interrogare ancora, oltre ciò che si immagina di avere già interrogato. È possibile interrogare ancora, e ancora, e ancora…