INDIETRO

 

 

18 gennaio 2023

 

Concetti fondamentali della filosofia aristotelica di M. Heidegger

 

Heidegger ci sta dicendo delle cose importanti. Una di queste è che l’uomo non è altro che esserci. Lui insiste molto sul “ci”, come dire che è situato qui, in questo mondo. Il fatto di essere situato nel mondo pone l’uomo in un modo un po’ differente da come generalmente si intende, perché questa sua, come la chiama lui, situatività, cioè l’essere in una situazione, questo suo essere situato lo pone sempre già nel mondo, cioè fra gli enti. Ma situato nel mondo, in che senso? Come progetto, come dice in Essere e tempo, come progetto sempre progettantesi, cioè sempre gettato. Quindi, l’essere situato non è niente altro che l’essere sempre e comunque gettato, proiettato verso la volontà di potenza, verso il superpotenziamento. È in questo che è situato, in questo desiderio di superpotenziamento. Qui il termine “desiderio” è da intendere, perché del desiderio è stato detto di tutto e di più, ma possiamo intenderlo in modo forse più interessante nel senso greco di τέλος, di fine: il desiderio è tendere al fine. Qual è il fine? Come dicevo, è, appunto, il superpotenziamento. Quest’anno ci occuperemo tantissimo della questione della volontà di potenza, a partire da una considerazione, sulla quale lavoreremo: ciascun atto dell’uomo è l’agire della volontà di potenza. Naturalmente, detta così può lasciare indifferenti, ma lo si diventa sempre meno mano a mano che si avvertono, si intendono, si colgono le implicazioni di questo, e cioè che non c’è agire dell’uomo che non sia agire della volontà di potenza, sempre e comunque. Quello che ci sta dicendo qui Heidegger rispetto all’όρισμός, alla definizione, al concetto, sono gli strumenti base della volontà di potenza, in quanto per potere esercitare il suo potere deve definire; se non ha definito non può controllare, non può agire, non può fare niente. Capite immediatamente, quindi, l’importanza della definizione, della concettualizzazione, ne va della volontà di potenza. A pag. 66. 3. Μόριον ένυπάρχον:… Μόριον è la parte, ένυπάρχον è generalmente tradotto con immanente, però può intendersi anche con ciò che è stabilito, con ciò che si rappresenta. …questo carattere viene rappresentato, ad esempio, dalla superficie di un corpo. È una parte definita. Immanente è da intendere qui anche come ciò che è definito, come ciò che è sotto mano. Se sottraggo dal “Ci” la superficie di un corpo, il corpo stesso ne risulta soppresso. Qui dice una cosa interessante, perché il “Ci” non è altro che la situatività: io sono in quanto sono situato in un certo modo, è il mio “come” che di volta in volta mi fa essere ciò che sono. Se tolgo questo “Ci”, se tolgo questa situatività, se tolgo il mondo in cui sono, scompaio anch’io. Esso non “ci” è più. La superficie è dunque ciò che costituisce l’esserci e l’esserci possibile di un corpo, esattamente come la linea costituisce l’esserci possibile di una superficie. Ne consegue che la superficie, in quanto elemento di un corpo, è un carattere ontologico… Perché ontologico? Perché dice ciò che c’è. …che Aristotele designa anche in quanto όρίζον, “delimitante”. Il carattere ontologico del μόριον ένυπάρχον delimita il corpo, cioè l’ente viene determinato nel suo essere. Questo è possibile soltanto perché per i greci il limite è un carattere fondamentale dell’esserci dell’ente. L’essere-limitato è un carattere fondamentale del “Ci”. Nel senso che io sono de-limitato dalla situazione in cui mi sto trovando in questo istante. L’elemento dell’όρίζον è σημαῑνον τόδε τι: esso “designa” l’ente, nella misura in cui è lì presente, come “quello lì”, in modo tale che questo “essere lì” possa diventare visibile, determinabile e coglibile nella sua esseità. Dato che la limitazione svolge un ruolo talmente peculiare da determinare addirittura l’ente nel suo essere, alcuni hanno pensato di designare come ούσία il limite “in genere” e, nel senso più ampio, il “numero”. Sia i pitagorici che i platonici vedevano nel numero l’autentica ούσία, i numeri come ούσίαι. Come sostanze, come ciò che è di autenticamente vero. Il numerico, il numerabile delimita l’ente in quanto tale, non vi sono sostanze, demoni, che si aggirano qua e là. 4. Τό τί ᾖν εἶναι Questa frase greca viene tradotta in latino in questo modo: quod quid erat esse, mostra ciò che l’essere era, quindi, la necessità che sia così com’è. …Aristotele non ha creato ex novo questo termine, che gli è stato tramandato. Τό τί ᾖν εἶναι è un carattere ontologico, mirando al quale il λόγος in quanto όρισμός si rivolge all’ente. Cioè: il dire in quanto definiente. Il dire continua a definire ininterrottamente, ogni affermazione in fondo è una definizione. È questo il modo in cui ci si rivolge all’ente: definendolo, delimitandolo. Il τό τί ᾖν εἶναι è il tema dello όρισμός. In questo momento non possiamo pensare di portare alla comprensione in extenso questo carattere ontologico, che forse ci diventerà più chiaro alla fine del corso. Mi limito dunque a descriverne in modo del tutto superficiale il significato e il nesso con gli altri caratteri. Esso significa l’“essere”, e per la precisione “essere qualcosa, come esso era già”; intende un ente in se stesso, appunto, in riferimento a ciò che esso era già, a da dove esso proviene nel suo essere, dunque riguardo alla sua provenienza, da cui è pervenuto nell’ente che “ci” è. Per questo τό τί ᾖν εἶναι è l’“essere di un qualcosa che è di volta in volta”, ούσία έκάστου (la sostanza che diviene tale). Ciò non significa “ciascuno”, o addirittura un che di “singolo” e “individuale”: con simili traduzioni si va fuori strada. ‘Εκάς significa “lontano”, ἒκάστον “ciò che è di volta in volta”, nella misura in cui permango presso di esso, vedendolo da una certa distanza. Qui gira intorno alla questione della situatività, cioè, mostra, passo dopo passo, che l’esserci, l’uomo non è altro che l’essere situato in un certo modo. L’essere per Heidegger è sempre essere in un certo modo, non c’è l’essere di per sé ma essere in un modo. Ciò che è di volta in volta non viene visto immediatamente e direttamente, anzi diventa accessibile solo semi distacco da esso, e me lo presento così, in questo distacco. Τά καθἒκαστα sono gli elementi che costituiscono l’“essere di volta in volta” di un ente, e divengono presenti solo se mi sono staccato da essi. Potremmo intendere il τά καθἒκαστα come il particolare, come l’astratto di Severino. Nell’avere a che fare naturale, gli oggetti familiari, per me, non “ci” sono in senso proprio, non presto loro attenzione, essi non hanno il carattere della presenza, sono troppo quotidiani e, per così dire, scompaiono dalla mia esistenza quotidiana. Solo nel caso di un qualsiasi evento insolito può capitare che qualcosa con cui ho a che fare tutti i giorni mi diventi improvvisamente presente nella sua presenza. Ora sappiamo che cosa può capitare, che cosa porti un elemento indifferente ad essere invece differente: la sua utilizzabilità. E l’indifferenza è la manifestazione della non utilizzabilità in questa situazione: qualcosa in questo momento non mi serve per il superpotenziamento e, pertanto, mi è indifferente. Aristotele, quindi, distingue due τρόποι, due “modi fondamentali” in cui il termine ούσία viene utilizzato: 1. lo ύποκείμενον ἒσχατον, che “ci” è già per ogni avere a che fare con esso, 2. l’ente nel carattere del τόδε τι ὅν, di cui affermo “quello lì”, χωριστόν, che sta “al suo proprio posto”, l’essere “autonomamente” lì presente. Questi sono, secondo Aristotele i τρόποι, i modi di come si presenta l’ente. Tale autonomia viene espressa tramite l’εἶδος, “ciò che viene visto, scorto”, l’“aspetto”, il “sembiante” di un ente. Ciò che io vedo qui, e che constato in quanto essente-ci autonomamente lì davanti, ha l’aspetto di una sedia, quindi – per i greci – è una sedia. È l’εἶδος, l’immagine, il delimitante; è quello che io vedo, e lo vedo in quanto delimitato. Se facesse parte, come dice Anassimandro, della concordia, non lo vedrei, perché non ha limiti, è πειρον. Occorre che ci sia la discordia, solo allora distinguo una cosa da un’altra. Ci siamo limitati ad elencare alcuni caratteri ontologici. Ciò che importa però è vedere come in questi differenti caratteri dell’essere venga a espressione una determinata concezione del “Ci”… Il “Ci” è sempre la situatività, cioè, l’essere in un certo modo in una certa situazione. …come dunque questi differenti caratteri ontologici siano caratteri determinati del senso del “Ci”, e come il greco intenda il “Ci”. A tale scopo disponiamo già di un filo conduttore costituito dal significato corrente di ούσία nel senso di ciò che è “disponibile”, “presente”, ovvero di ciò che è semplicemente presente nel senso del “podere” o dello “stato patrimoniale”. A pag. 69. Ούσία significa “esserci”, e non ha un senso generico dell’essere – che in ultima analisi comunque non si dà. L’essere non si dà, come dicevo prima, l’essere è l’essere in un certo modo, non esiste un essere che non sia situato. È quello che cercava Platone: l’essere al di là di ogni determinazione. Ma se non è determinato non c’è nemmeno lui; e se è determinato allora questa determinazione dell’essere lo situa in un certo modo. Ούσία è la forma contratta di παρουσία (manifestare), “essere presente”. Più frequente è il suo contrario, l’άπουσία, l’“assenza”, che però non significa semplicemente “niente”, bensì: qualcosa c’è, ma c’è in una mancanza. Vederci da un occhio solo è un vedere nell’άπουσία. L’άπουσία è il fondamento ontologico per la categoria fondamentale della στέρησις. Tentiamo ora di fornire un orientamento fondamentale ai menzionati caratteri del “Ci”. 1. Ύποκείμενον, “essere semplicemente presente”… La traduzione di Heidegger è una traduzione bella, perché generalmente ύποκείμενον viene tradotto con soggiacenza o, addirittura, come soggetto, come ciò che sta sotto. …la “semplice presenza” di qualcosa. Questo carattere ontologico è connesso con l’essere nel senso del significato corrente: esso intende l’ente che “ci” è non solo in quanto essente-ci, bensì, per esempio, anche nel senso di ciò in cui il podere sta – la campagna, la terra, il cielo, la natura, gli alberi –, insomma ciò che è lì presente come l’ente in cui la vita concreta vivacchia la sua esistenza. Ούσία significa dunque semplice presenza, senza che ci sia bisogno che io stesso faccia qualcosa in più per l’essere di questo ente che “ci” è. 2. Αἳτιον ένυπάρχον (causa immanente). Esempio: ψυχή. L’“anima” è ούσία nel senso che essa costituisce l’esserci di un ente avente il carattere di un vivente. Un vivente ha un esserci del tutto caratteristico: a) Esso “ci” è nel senso dello ύποκείμενον, è lì presente, come le pietre e i tavoli. b) Tuttavia l’uomo non sta sul sentiero come una pietra, ma va a passeggio sotto gli alberi. Io lo incontro da qualche parte, ma questo suo esserci in quanto presenza che mi si fa incontro, in quanto “mondo”, è caratterizzato dal fatto che esso è nel modo dell’“essere nel mondo”… Questo è il modo dell’esserci, la sua modalità: l’essere nel mondo. L’uomo, quindi, “ci” è nel senso che è nel mondo, in modo tale da avere il suo mondo; e ha il suo mondo in virtù del fatto di avere a che fare con esso. In quanto carattere dell’essere, la ψυχή ne è un carattere eccellente, che include l’essere in quanto ύποκείμενον. 3. Μόριον ένυπάρχον, che costituisce l’essere possibile di qualcosa: il punto, la linea, il numero in quanto autentico carattere ontologico, giacché il numero è limitazione. Nondimeno, numero e punto, ecc., sono caratteri ontologici solo se si può dimostrare che per i greci il limite e l’essere limitato sono l’autentico carattere dell’essere. L’essere è tale in quanto delimitato. E avevano ragione i greci, dal momento che quando io penso l’essere, parlo dell’essere, parlo di qualcosa di determinato: se ne parlo, se lo penso, lo determino, lo de-finisco. Ecco perché per i greci l’essere è sempre qualcosa di delimitato, di determinato. Diceva prima che non c’è l’essere generico, ma l’essere è sempre essere in qualche modo, e il modo in cui è di volta in volta è il suo limite, anche il suo τέλος, come dirà tra poco, cioè, il suo fine. 4. Τό τί ᾖν εἶναι (Quod quid erat esse). Già la composizione indica che abbiamo a che fare qui con un intero complesso di determinazioni ontologiche che scioglieremo in seguito. L’essere nel carattere del τό τί ᾖν εἶναι è il tema peculiare di quel λόγος di cui tratteremo ora in quanto όρισμός. Cioè, del discorso, del linguaggio, come ciò che definisce. Il linguaggio definisce continuamente, o fa questo o non esiste. Questo carattere ontologico è quello dell’ἒκαστον. Ciascun ente che “ci” è, nel suo essere di volta in volta, è determinato dal τό τί ᾖν εἶναι (da ciò che è sempre stato, da ciò che deve essere). /…/ Il τό τί ᾖν εἶναι implica la determinazione dello ἧν: l’esserci di un ente, e precisamente in riferimento a ciò che esso era, alla sua provenienza. Se l’uomo è definito in quanto ζῶον λογον ἔχων, allora il parlare pro-viene dal suo “essere ζῶον”, “essere-essere vivente” – è questo il suo γένος (origine, genesi). Un ente che “ci” è lo vedo in riferimento al suo essere, a come esso è lì in quanto proveniente da… Dire che vedo un ente in riferimento al suo essere significa che vedo un ente in quanto è già posto in una situazione, in un come; in un come che riguarda me, naturalmente, il mondo di cui sono fatto. Un ente che “ci” è lo vedo propriamente nel suo essere se lo colgo nella sua storia: l’ente che “ci” è in questo modo, pervenuto all’essere dalla sua storia. Questo ente, in quanto essente-ci in questo modo, è finito, è pervenuto alla sua fine, alla sua finitezza, esattamente come la casa, nel suo εἶδος in quanto ποιούμενον (prodotto), è finita. Quindi, per il greco essere è essere finito, quindi, definito, delimitato. Come sappiamo, non c’è l’essere in generale, ma è sempre un essere come, è sempre un modo di essere. Potremmo dirla così: l’essere è sempre un modo di essere. Riassumendo, esserci significa quindi: 1. primariamente presenza attuale, presente, 2. l’essere finito, la finitezza. Esserci significa: essere presente in quanto delimitato, in quanto definito. È solo quando qualcosa è definito che “ci” è. Soltanto a questo punto qualcosa c’è: se io l’ho definito, cioè, l’ho delimitato, l’ho determinato. Il λόγος in quanto όρισμόςDice in quanto όρισμός, non è che l’όρισμός si aggiunge al λόγος; no, il λόγος è tale perché è όρισμός, perché è definizione. Il λόγος in quanto όρισμός è un “parlare” del mondo, un “rivolgersi” al mondo, tale che in esso ci si rivolge all’ente in riferimento alla sua finitezza, considerata in quanto presente. D’altra parte, potremmo riferirci a qualcosa nella sua infinitezza? No, possiamo rivolgerci a qualcosa solo in quanto lo pre-supponiamo finito. Per i greci questo è importante perché lo pongo come finito in quanto lo vedo. Sappiamo che per i greci l’essere è ciò che appare così come appare, e ciò che mi appare è finito, è discorde. Questa penna è discorde rispetto al libro, per questo la distinguo. Όρισμός è λόγος ούσίαςIl definire è il modo in cui l’esserci parla. …nel senso che il termine ούσία designa il τό τί ᾖν εἶναι. In quanto όρισμός il λόγος è dunque un λέγειν eccellente, costituisce cioè una specifica possibilità all’interno del λέγειν. Infatti il λέγειν non viene attuato primariamente come uno όρίζειν (limite), giacché primario è piuttosto il mondo dato nell’”innanzitutto”, in quanto “confuso”, “coperto”, “inarticolato”. C’è bisogno di una particolare disposizione, di uno sguardo particolarmente aperto, per vedere l’ente che “ci” è nel suo essere. Qui c’è una questione. Dice primario è piuttosto il mondo dato nell’”innanzitutto”, che cos’è primario, cosa c’è innanzitutto? La chiacchiera. La chiacchiera è il punto oltre il quale non si va. La chiacchiera è l’analogia. Cosa c’è oltre l’analogia? C’è un’altra analogia, non c’è qualche altra cosa. Del fatto che il λόγος in quanto όρισμός non è cosa di tutti i giorni Aristotele è esplicitamente consapevole. Ce ne parla nel preambolo alla trattazione dell’ούσία, in Metafisica Z 3: “L’imparare, il rendersi edotti di qualcosa, si compie per tutti così: passando per ciò che è per natura meno familiare si giunge a ciò che è più familiare”. Quando imparo qualcosa dispongo di qualcosa di già dato,… D’altra parte, se non disponessi di nulla, non imparerei nulla. E di che cosa dispongo? Dispongo del linguaggio. Ma disporre del linguaggio avviene nel momento in cui io imparo alcune cose, che mi vengono insegnate. Cosa, di fatto, viene insegnato? Che ogni cosa è in relazione con un’altra, che ogni cosa rinvia a un’altra: questo è quello, questo si chiama così, questa è la mamma, cioè, instaura la relazione, l’idea cioè che ciascuna cosa è quella che è in virtù di un’altra. Questo è il nucleo dell’apprendimento del linguaggio: ciascuna cosa è in virtù di un’altra. Passando per questo già dato procedo – imparando – verso ciò che può propriamente essere conosciuto. “Come in ogni prendersi cura si evidenzia che, partendo da ciò che a ciascuno appare innanzitutto, di volta in volta, come bene, si procede poi verso il bene autentico, e ci si appropria individualmente di questo bene autentico in quanto bene, così avviene anche con la conoscenza dell’essere che è noto innanzitutto, di volta in volta, il quale è “spesso conosciuto in modo impreciso”. Qui, però, come spesso accade, gli sfugge la cosa fondamentale, non mette mai a tema la questione del bene, dell’άγαθόν. Ne parlerà poi in modo più interessante, ponendolo come il τέλος, il fine. Ciascuno insegue il bene, anche nell’Etica di Aristotele il bene è ciò che dà la felicità; sì, certo, va bene, ma che cos’è che dà la felicità? Quando qualcuno è soddisfatto, è felice? Quando ha raggiunto il bene, cioè, ha raggiunto che cosa, esattamente? A questa domanda noi possiamo anche rispondere che, in effetti, il bene di cui si parla non è nient’altro che il controllo dell’ente. Questo è il fine, il τέλος, questo è il bene: controllare l’ente. Non c’è qualche altra cosa che gli umani desiderino di più se non avere il controllo sull’ente, sulle cose. Detto in altri termini, vogliono sapere come stanno le cose e, laddove è possibile, imporre questo sapere sugli altri. Non ho né il tempo né il motivo di scrutare in modo più preciso l’ente che “ci” è: questo ente “ha poco o nulla dell’essere”. L’ente della chiacchiera. Esso esiste in modo talmente ovvio che non me ne accorgo nemmeno, non ci bado. Cos’è l’ovvio? Ciò che non mi serve e che, quindi, non posso utilizzare per la volontà di potenza. Dovremmo trovare un’altra formulazione, non mi piace questa espressione “volontà di potenza”, però non riesco a trovarne una migliore. Proprio in questo non essere badato emerge l’ovvietà dell’esserci del mondo. Dell’uomo nel mondo. Io però devo partire proprio da ciò che esiste in modo inautentico e procedere verso ciò che ora va autenticamente trasferito nella conoscenza. Questo è l’intendimento di Heidegger. Queste frasi sono programmatiche e costituiscono il vero contrattacco contro la filosofia platonica. Aristotele dice: per prendermi cura dell’essere devo avere terreno sotto i piedi, un terreno che esiste in una prima ovvietà. Non posso aggrapparmi con la fantasia a un determinato concetto di essere e poi speculare. Come Platone, sottinteso. No, dice, devo avere terreno sotto i piedi; e che cos’ho sotto i piedi? L’ovvietà, la chiacchiera. Anche per questo proibiva di interrogare la chiacchiera, perché sennò gli si toglie la terra sotto i piedi e viene giù tutto. Questo atteggiamento metodico emerge già, in linea di principio, nel preambolo della Fisica, che costituisce una delle primissime indagini e fu elaborata probabilmente all’epoca in cui Aristotele collaborava ancora con Platone nell’Accademia. Ciò che è noto innanzitutto, ciò da cui parto, è il καθόλου (κατά όλος, secondo il tutto, l’universale), “qualcosa che ho lì davanti in modo approssimativo”. Cioè, non determinato, non un particolare, non un astratto, ma il concreto, un qualcosa che non so determinare, delimitare se non come astratto. Sono orientato superficialmente nel mondo che mi circonda senza che, se mi si chiede apertamente che cosa esso sia, io possa dare una risposta. Quel che importa è però che, attraverso il καθόλου, io veda l’ente autentico. Queste sono situazioni tratte dalla Fisica di Aristotele. Ciò si mostra nel rapporto tra il parlare in quanto parlare correte e il termine. Il parlare corrente, la chiacchiera, non si occupa dei termini. La chiacchiera va via veloce, spedita, non considera nessun termine, non si sofferma su un termine. In fondo, è quello che fa ciascuna teoria. La teoria afferma cose su altre cose, ma non si sofferma su ciò che sta facendo, cioè sui termini che sta utilizzando. Questo approccio sarebbe un approccio teoretico. Quando viene utilizzata nel parlare naturale, la parola rinvia a un ente che “ci” è, chiuso in se stesso, senza che ciò a cui così ci si è rivolti risulti delimitato in modo completo. La parola rinvia continuamente a un’altra, non è che ci si soffermi su questa parola a cui rinvia, perché questo rinvio rinvierà a sua volta a un’altra, e così via, senza neanche dare il tempo di pensare: questa è la chiacchiera, il parlare comune. Se invece il significare e l’utilizzo della parola si compiono in un λόγος che è όρισμός, allora questo λόγος scompone l’ente che, in tal modo, “ci” è in ciò che ora costituisce l’autentico “essere di volta in volta” di un tale oggetto:… Se mi soffermo, di che cosa mi accorgo? Mi accorgo che le parole che sto usando sono molto più complesse, più complicate di quanto io possa immaginare: è per questo che non vengono prese in considerazione. Se voglio andare spedito nella chiacchiera, non devo andare tanto per il sottile.τά κάθἒκαστα (gli astratti, i particolari) sono quegli elementi che mi portano ciò che innanzitutto è inteso superficialmente nel distacco necessario affinché possa vederlo autenticamente nella sua articolazione. “I bambini (che in quanto tali vivono in un senso eccellente nel loro mondo, che hanno in modo inarticolato) sono soliti chiamare papà tutti gli uomini, e mamma tutte le donne, e solo in seguito arrivano al διορίζειν (distinguere). “Papà” e “mamma” rappresentano per il bambino la primissima interpretazione media dell’esistenza di uomini, essa è accessibile innanzitutto, e il bambino la applica a ogni uomo e a ogni donna. L’indeterminatezza dell’accadere corrente gli offre la possibilità di orientarsi nell’ambito degli enti che “ci” sono, cioè degli uomini. Questa è una frase che merita di essere pensata. È questo che consente di orientarsi nell’ambito del mondo: l’indeterminatezza dell’accadere, cioè, noi continuiamo a parlare perché non ci interroghiamo mai su quello che diciamo. E solo a questa condizione, solo se non interroghiamo, che possiamo parlare, andando avanti, di rinvio in rinvio, incessantemente. Quindi, è questa indeterminatezza dell’accadere, di un rinvio che è indeterminato, che non posso determinare, ciò che consente di parlare, strutturalmente perché, come sappiamo, posso determinare soltanto attraverso l’indeterminato. Questa determinazione rinvia immediatamente, anzi, è essa stessa indeterminata. Ma è proprio da questa base dell’essere naturale nella quotidianità che nasce e si sviluppa la possibilità caratteristica di un parlare peculiare che, ora, si rivolge all’esserci nel suo autentico essere-presente, nel carattere del suo πέρας, e gli si rivolge in modo tale che ciò a cui ci si rivolge è l’esserci nella sua limitatezza. È da questa base che noi partiamo per interrogarci sull’esserci in quanto tale. E non possiamo fare altro se non partire sempre e comunque dalla chiacchiera. Da lì si parte, dall’indeterminato, da quella che prima chiamava l’indeterminatezza dell’accadere corrente. Questo rivolgersi all’esserci nella sua limitatezza è un λόγος in quanto όρισμός. Parlare attribuendo un limite significa per i greci rivolgersi all’esserci autentico. Perché, parlando, noi delimitiamo. Ma che cosa ci sfugge in questa operazione? Che dobbiamo farlo per continuare a parlare, perché se non delimitassimo non riusciremmo a pronunciare la parola successiva, non ci sarebbe un altro rinvio, ci fermeremmo sul primo. Il fatto che il limite e la limitatezza costituiscano l’autentico “carattere di “Ci”” si può vedere in Metafisica Δ 17: πέρας è l’σκατον, “il punto estremo di un ente che di volta in volta “ci” è, ossia il punto in quanto Primo al di là del quale non si può trovare più nulla della cosa in questione, e al di qua del quale si può vedere la totalità dell’ente in questione”. Questione del finito e dell’infinito. Il punto estremo oltre il quale non si va perché c’è l’infinito. Al di qua c’è il finito, c’è l’ente finito, ma se andassimo al di là ci troveremmo nell’infinito, nell’πειρον, cioè nell’impossibilità di proseguire a parlare, in quella che Anassimandro chiamava la concordia, dove tutto è indelimitato, indeterminato, indefinito, infinito. Ora, questo carattere del πέρας viene definito in quanto εἶδος (forma, immagine): l’“essere limitato” è l’autentico “aspetto di un ente che ossiede una qualche estensione”. Πέρας tuttavia non è soltanto εἶδος, ma anche τέλος. Τέλος significa “fine” nel senso della finitezza, non “meta” o addirittura “scopo”. Lui ci tiene a precisare questo: ha a che fare con la finitezza, cioè con la compiutezza. Si potrebbe arrivare a dire che è ciò che per Aristotele è l’entelechia, il compimento di δύναμις e ἐνέργεια, di potenza e atto. Questo è il fine: l’entelechia, ciò a cui entrambi (δύναμις e ἐνέργεια) tendono naturalmente e necessariamente per essere ciò che sono. La finitezza è per l’appunto un πέρας così inteso, ciò “verso cui si dirigono il movimento e l’azione”… Verso cosa si dirigono il movimento e l’azione? Intanto, potremmo domandarci perché si dirigono. Adesso Heidegger se la prenderebbe se parlassimo di scopo, se dicessimo che lo scopo è il superpotenziamento, il τέλος, la finitezza, cioè, l’essere finito di un atto, l’essere la sua fine necessaria. Fine non nel senso di conclusione ma di compiutezza. κίνησις e πρᾶξις, l’avere a che fare con qualcosa in cui un movimento o un’azione trovano la loro fine (nessuna idea di scopo). Vi sono anche enti nel cui caso entrambi hanno questo carattere di limite: ha il carattere del πέρας anche lo οὗ ἔνεκα, ciò “in vista di cui” qualcosa accade. L’“in vista di cui” qualcosa accade riguarda il fine, il suo compimento: qualcosa accade in vista del suo compiersi. L’essere-limitato costituisce un limite per la conoscenza soltanto perché è un essere-limitato della cosa, determina cioè il πρᾶγμα (cosa) nel suo limite. Una cosa, se è una cosa, è limitata, cioè - ricordate sempre Anassimandro – è in disaccordo con tutte le altre. Da quanto detto si può dedurre il significato della massima che Aristotele e i greci seguono nell’indagine teoretica: μή είς πειρον ιέναι. Είς πειρον ιέναι è un dirigersi verso qualcosa che non è assolutamente più, poiché manca il limite. Quando qualcosa non c’è più? Quando non ha più il limite. La massima di evitare il regressus ad infinitum ha per i greci un senso e un peso determinati, e non è in nessun caso applicabile alle indagini odierne, che hanno a che fare con un senso dell’esserci completamente diverso. A pag. 75. Questo senso dell’essere non è stato trovato dai greci da qualche parte, ma è nato e si è sviluppato a partire da un’esperienza dell’essere determinata, in quanto l’uomo vive in un mondo, in quanto questo mondo è coperto dalla volta dell’ούρανός, il “cielo”, e in quanto il mondo è quell’ούρανός che è in sé conchiuso e in sé finito. Da qui la teoria delle sfere, dentro le quali ci sono tutte le cose, e il tutto è compiuto, è conchiuso, è determinato. I greci interpretano l’essere in base all’esserci – è questa l’unica maniera possibile. Una determinata esperienza del mondo costituisce il filo conduttore per l’esplicazione dell’essere presso i greci. L’esperienza che i greci hanno del mondo è ciò che li ha indotti a pensare dell’essere come esserci, come essere di volta in volta in un certo modo. Come vedete, ciò che all’inizio della nostra analisi abbiamo incontrato come una questione tecnica del pensiero e dell’accuratezza di pensiero, si manifesta in quanto όρισμός. Lo όρισμός è un λόγος, un determinato “essere nel mondo”… Quando definisco le cose io sto determinando un mondo, di cui io sono fatto; di conseguenza, determinando le cose io mi determino. È questo che intende Heidegger quando dice che l’essere è il modo dell’essere, è il come dell’essere. Abbiamo quindi un’indicazione concreta circa la direzione in cui va cercata l’autentica fondatezza del concetto. Ricordate che lui è partito dalla domanda “che cos’è il concetto?”. La concettualità non è una cosa banale, bensì è una faccenda dell’esserci in senso decisivo, nella misura in cui esso si è deciso a parlare radicalmente con il mondo, cioè a domandare e a indagare. Ci sta dicendo che il concetto non è altro che un parlare con il mondo, con gli enti, cioè, con altre parole. È questo parlare delle parole con altre parole che muove a interrogare, che muove a pensare. Il λόγος, il “parlare”, mostrerà l’ente in se stesso solo quando tale parlare avrà il carattere di indicare l’ente nel suo essere-limitato, ovvero di limitare l’ente nel suo essere. Il limitare l’ente nel suo essere non è altro che il considerare l’ente in quanto è in un certo modo. È questo il suo essere-limitato: perché è in un certo modo e non in un altro, perché, direbbe Anassimandro, è in disaccordo con altri enti. Si può definire questo λόγος come il modo autentico di accedere all’ente nella misura in cui πέρας è il carattere fondamentale del “Ci”. Όρισμός è il parlare con quell’ente che è nel modo dell’essere-presente, e in esso è limitato, nella misura in cui lo concerne in quanto limitato. Όρισμός, il definire: è il parlare che è continuamente definiente. Dice che è un parlare con quell’ente che è nel modo dell’essere-presente. In che modo c’è? È presente. E in esso è limitato. Limitato da che? Dalla sua presenza, perché la sua presenza comporta la sua forma, l’εἶδος è il limite.