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18 gennaio 2018

 

M. Heidegger, Essere e Tempo

 

Sicuramente avrete inteso qual è la portata in Heidegger della temporalità, del tempo, rispetto all’Esserci. Lui arriva alla questione del tempo nel momento in cui per lui l’essere non è più qualcosa di statico, di immobile, così come era stato pensato da tutta la filosofia: l’essere è ciò che permane, immobile, l’ente muta, cambia, ma l’essere rimane quello. Se l’essere cambiasse anche l’ente non sarebbe più l’ente, l’essere non gli darebbe più la sua enticità e a questo punto si dissolverebbe nel nulla. Lui, invece, fa questa cosa straordinaria, è stato il primo a farla, lui spazza via tutto questo, l’essere non è più questa cosa statica e immobile. Attribuisce l’essere all’uomo, perché l’uomo è l’unico che può chiedersi qualcosa intorno all’essere. Lo chiama Esserci, perché il termine uomo è inflazionato, non si capisce più bene che cosa voglia dire, e allora ha usato quest’altra formula “Esserci”. A questo punto l’essere, per Heidegger, diventa, sulla scorta di Husserl naturalmente, un qualcosa che è sempre progettato verso qualche cosa. l’uomo non è mai fermo, si agita sempre, e quindi l’essere, che è attribuito all’uomo, non può non seguire anche lui la stessa vicenda, e cioè essere sempre in movimento, sempre alla ricerca di qualche cosa, sempre in vista di qualche cosa. Ecco che allora l’essere, da cosa statica e ferma, diventa un movimento in avanti, cioè, diventa un progetto gettato. Vedete, quindi, che la nozione di essere a questo punto cambia radicalmente, non solo non è più statico ma è soltanto gettatezza o, come si è trovato a dire in altre circostanze, è pura possibilità, pura possibilità di fare qualche cosa con qualche cosa. A questo punto si poneva anche il problema dell’essere gettato verso qualcosa, ma questo qualche cosa che cos’è? È un utilizzabile, un qualche cosa di cui mi occupo, di cui mi prendo cura. Ecco che allora tutti questi aspetti diventano aspetti costitutivi dell’Esserci. Essendo un progetto gettato è gettato verso un qualche cosa, verso un utilizzabile, quindi, il suo essere attendo verso questo utilizzabile Heidegger lo chiama Cura, il prendersi cura di qualche cosa, cioè fare qualcosa di qualche cosa. Ed è qui che interviene la questione del tempo, che per Heidegger, come avrete intuito, è importante visto che per tre quarti del libro non fa che parlare del tempo, della temporalità. In questa gettatezza, in questo progettare continuamente, io mi aspetto qualche cosa, altrimenti non progetterei niente, mi aspetto di modificare qualcosa, di utilizzare qualche cosa, di fare qualche cosa, come dicevo prima, essere sempre in vista di qualche cosa. Ma questo aspettarsi qualche ha a che fare con qualcosa di preciso, e cioè con il futuro. D‘altra parte, c’è un qualche cosa che, mentre io mi progetto, torna sempre indietro, e cioè mi consente di riflettere sul fatto che, sì, sono progettato in avanti, ovviamente, verso il futuro ma essere questo progettante lo sono sempre stato, e questo è il passato. Ora, è proprio nel momento in cui io progetto qualche cosa, cioè mi prendo cura di un utilizzabile qualunque, il quale, proprio perché me ne prendo cura, diventa presente, cioè è attuale, è adesso, si presentifica. Si presentifica, come ha insistito a dire all’infinito, nel mio progetto, è lì che si presentifica, sennò non si presentificherebbe niente. Quindi, non è che c’è qualcosa è presente e allora io me ne prendo cura. No, ed è questa la rivoluzione di Heidegger, è il contrario, è perché mi prendo cura di qualche cosa che qualcosa si apre e diventa presente. Capite che è stata una rivoluzione notevole del pensiero. Come diceva giustamente Volpi, non è che Heidegger ha preso la scacchiera e ha cambiato i pezzi, no, ha proprio spazzato via la scacchiera, ne ha messa un’altra, è cambiato tutto. Ecco che allora la questione del tempo è fondamentale per questo motivo, il tempo non è altro che il progetto, la gettatezza, cioè l’essere stato, che consentono il presentificarsi di qualche cosa. Da Parmenide in poi non ci si è più mossi, cioè l’essere è e il non essere non è. Uno potrebbe dire “che genialata!”, però, per il tempo è stata una genialata, si parla di 2500 anni fa. Per primo Parmenide ha posto le condizioni della filosofia interrogandosi sull’essere: che cosa è? E, quindi, che cosa è l’essere? Poi, da lì, sì, certo, Platone, Aristotele, tutti quanti, però, lui ha posto il problema dell’essere, che cosa è. Parmenide era ancora a cavallo tra l’epoca del mito e l’epoca della filosofia, della ragione. In effetti, Parmenide esprime il suo pensiero in un poema, le famose cavalle che trainano il cocchio verso la dea Aletheia: la verità è l’essere. È perché c’è questa temporalità, cioè, c’è il progetto gettato, c’è quindi la gettatezza, che è sempre stata… è in questo che consiste il prendersi cura di qualche cosa, nel progetto io mi sto prendendo cura di qualche cosa, prendendomene cura questa cosa compare. Compare nel senso che può apparire, sennò non appare; quindi, appare all’interno del prendersi cura, che è fondamentale e, infatti, lui lo pone come l’essere dell’Esserci, cioè, la sostanza prioritaria dell’Esserci è la Cura. La temporalità è fondamentale perché è tutto il processo dell’Esserci. Detto questo leggiamo quello che dice Heidegger nell’ultimo capitolo sesto: Temporalità e intratemporalità come origine del concetto ordinario del tempo. Pag. 474. Sappiamo che il concetto ordinario di tempo, cioè, come successione di stati, viene dalla temporalità dell’Esserci, è perché io sono progettato che mi aspetto qualche cosa e, quindi, posso pensare il futuro. Poi, l’essere stato e, quindi, a questo punto, essendo in un progetto mi occupo di qualche cosa e questo qualche cosa è il presente, ciò che appare, l’alètheia letteralmente, ciò che esce dall’oscurità. § 78 – L’incompletezza della precedente analisi temporale dell’Esserci. Per dimostrare che la temporalità costituisce l’essere dell’Esserci… Potremmo anche dire che la temporalità è la Cura, l’essere dell’Esserci. …abbiamo fatto vedere che la storicità, in quanto costituzione d’essere dell’esistenza, è, “in fondo” temporalità. Non c’è storicità senza temporalità, tutto ciò che è considerato storico non può che muovere dalla temporalità dell’Esserci, cioè, dall’essere sempre progetto gettato, quindi aspettarsi qualcosa e, quindi, potere pensare il futuro. L’interpretazione del carattere temporale della storia ebbe luogo senza riferimento al “fatto” he ogni accadimento scorre “nel tempo”. Nel corso dell’analisi esistenziale-temporale abbiamo tolto la parola alla comprensione quotidiana dell’Esserci, che di fatto conosce la storia soltanto come accadere “intratemporale”. Ma se la analitica esistenziale deve rendere ontologicamente trasparente l’Esserci proprio nella sua effettività, è necessario che sia restituito esplicitamente il suo buon diritto anche all’interpretazione “ontico-temporale” della storia. Sta dicendo che adesso ci occupiamo del tempo così come viene inteso comunemente, come ciascuno lo ha imparato. Il tempo “in cui” si incontra l’ente merita tanto più necessariamente un’analisi fondamentale in quanto anche gli eventi naturali, oltre alla storia, sono determinati “mediante il tempo”. Più elementare ancora della constatazione che nelle scienze della storia e della natura è presente il “fattore tempo” è il fatto che l’Esserci, già prima di qualsiasi indagine tematica, “fa i conti col tempo” e si regola secondo il tempo. L’Esserci, l’uomo, si regola secondo il tempo. E qui, di nuovo, è decisivo il “fare i conti” che precede qualsiasi uno dei mezzi di misura costruiti in vista della determinazione del tempo. Quello precede questo, e rende possibile qualcosa come l’uso di orologi. Esistendo effettivamente, il singolo Esserci “ha tempo” o “non ha tempo”. “Si prende tempo” o “affretta i tempi”. Perché l’Esserci si prende “tempo” e perché può “perderne”? Da dove prende tempo? In che rapporto è questo tempo con la temporalità dell’Esserci? Cerca qui di intendere la questione del tempo così come comunemente è inteso, però, in relazione all’indagine che sta compiendo lui, l’analitica esistenziale, dell’esistenza del tempo. Il tempo originario per lui, come sappiamo, è quel tempo che si produce nella temporalità dell’Esserci, progetto, gettatezza, ecc. A pag. 475 prosegue L’Esserci quotidiano che si prende tempo incontra il tempo innanzi tutto nell’utilizzabile e nella semplice-presenza che incontra nel mondo. È il modo comune di intendere il tempo, cioè, l’Esserci incontra il tempo innanzitutto nell’utilizzabile, e cioè nelle cose che incontra, che deve fare, che deve svolgere, i suoi affari quotidiani. Il tempo così “esperito” è interpretato nell’orizzonte della comprensione dell’essere più prossima, cioè come qualcosa di (in qualche modo) semplicemente-presente. Qui l’utilizzabile è inteso deiettivamente come la semplice presenza di qualche cosa, che è il odo comune di intendere il tempo. Lo diceva da qualche altra parte, il tempo è sempre un tempo “per”, un tempo per qualche cosa, non è un tempo astratto. Per esempio, mi aspetto qualche cosa, non aspetto e basta; oppure, sono stato qualche cosa, e quindi è sempre riferito a una presenza, a un utilizzabile, qualunque esso sia. Come e perché l’Esserci giunga a formarsi il concetto ordinario del tempo, dev’essere spiegato in base alla costituzione d’essere dell’Esserci che si prende cura del tempo, costituzione che è fondata nella temporalità. Sta dicendo che a questo punto, per intendere la questione del tempo ordinario, l’Esserci si prende cura del tempo. È come se tematizzasse il tempo. Il concetto ordinario del tempo deve la sua origine a un livellamento del tempo originario. La dimostrazione di questa provenienza del concetto ordinario del tempo giustifica l’interpretazione precedente della temporalità come tempo originario. Adesso vuole dimostrare come la concezione ordinaria di tempo venga dall’interpretazione precedente della temporalità come tempo originario. Nel corso della elaborazione del concetto ordinario del tempo si delinea un’importante alternativa: se al tempo debba essere attribuito un carattere “soggettivo” oppure “oggettivo”. Quando il tempo è concepito come essente in sé, è tuttavia prevalentemente attribuito all’“anima”. Quando ha invece un carattere “conforme alla coscienza”, ha nondimeno una funzione “oggettiva”. Il problema qui per Heidegger è intendere se il tempo è qualcosa di oggettivo o di soggettivo. § 79 – La temporalità dell’Esserci e il prendersi cura del tempo. Pag. 476. L’Esserci esiste come un ente per il quale, nel suo essere, ne va di questo essere stesso. È la formulazione classica di Heidegger: un ente per il quale, nel suo essere, ne va di questo essere stesso. Essenzialmente avanti-a-sé, esso si è progettato nel suo poter-essere prima di ogni semplice e successiva considerazione di sé. L’Esserci è progetto, quindi, è sempre un’estasi, è sempre gettato in avanti. Nel progetto, l’Esserci si svela come gettato. Gettato nell’abbandono al “mondo”, l’Esserci, prendendo cura, cade deiettivamente nel mondo. Questo è quello che succede: si getta nel prendersi cura di qualche cosa, prendendosi cura di qualche cosa si trova nella deiezione, perché i prende cura di utilizzabili. Ricorderete che per Heidegger la posizione autentica è l’essere dell’Esserci che si rende cura di sé, che riviene a se stesso. In quanto Cura, cioè esistendo nell’unità del progetto deiettivo e gettato, l’Esserci è aperto nel suo Ci. Essendo-assieme agli altri, l’Esserci si mantiene in uno stato interpretativo medio che si articola nel discorso e si esprime nel linguaggio. L’essere-nel-mondo si è già sempre espresso e, in quanto esser-presso l’ente che si incontra dentro il mondo, si esprime costantemente nel chiamare e nel parlare di ciò stesso di cui si prende cura. Qui sembra che il linguaggio intervenga a un certo punto come un qualche cosa che appartiene all’Esserci come modalità del prendersi cura di qualche cosa. ora, la cosa è un po’ più complessa, non è che ci sia prima l’Esserci e poi il linguaggio, non sarebbe possibile; però, in Heidegger è posto qui come mezzo. Il prendersi cura, che comprende sulla scorta della visione ambientale preveggente, si fonda nella temporalità, e precisamente nel modo della presentazione aspettante-ritenente. Dice nel modo della presentazione aspettante-ritenente, il modo della temporalità, della Cura. Qualcosa si presentifica perché c’è un’attesa, un futuro, e c’è un passato. Nella misura in cui in base alla visione ambientale preveggente calcola, fa piani, provvede, previene, l’Esserci dice già sempre, esplicitamente o no: “poi” accadrà questo, “prima che” quello sia stato sbrigato, “ora” deve essere rifatto ciò che “allora” non andò a buon fine. Sono i modi con cui si parla comunemente. Nel “poi” il prendersi cura si esprime come aspettantesi, nell’“allora” come ritenente e nell’“ora” come presentante. Futuro, passato e presente. Nel “poi” è incluso, per lo più inesplicitamente, l’“ora non ancora”; il che significa che esso è espresso in una presentazione aspettantesi-ritenente o aspettantesi-obliante. Aspettantesi-obliante, cioè, si aspetta, sì, qualche cosa ma dimentica l’essere stato. Sarebbe la chiacchiera. L’“allora” cela in sé l’“ora non più”. Il “poi” e l’“allora” sono ambedue concepiti in riferimento a un “ora”; il che vuol dire che la presentazione ha una sua importanza specifica. Sta dicendo che sia il futuro che il passato muovono, e di fatto non possono che muovere, dal presente, da ciò che appare. È da lì che si parte, dal presente, anche se il presente è il risultato del progetto e della gettatezza. È dal presente che si parte perché con questo che si ha a che fare, con ciò che accade qui, adesso, il Ci. Ma ogni “poi” è, come tale, un “poi, quando…” ogni “allora” è un “allora che…” ogni “ora” è un “ora che…”. Questa struttura relazionale apparentemente ovvia dell’“ora, dell’£allora” e del “poi” noi la chiamiamo databilità. Questo termine “databilità” lo possiamo così come viene inteso comunemente, cioè fissare un termine, una data. Per il momento dobbiamo lasciar perdere del tutto la questione se la databilità presupponga una datazione effettiva mediante una “data” stabilita per mezzo del calendario. Anche senza queste “date”, l’“ora”, il “poi” e l’“allora” sono più o meno rigorosamente datati. Come dire che hanno sempre un riferimento: “allora”, ma allora quando? La mancanza di una determinazione precisa della data non significa che manchi la struttura della databilità o che essa sia casuale. Anche se non c’è una data precisa è sempre in qualche modo presente, magari sottintesa ma è sempre presente: “andrò a fare qualche cosa”, andrai quando? L’“ora” è tempo. Noi comprendiamo senza difficoltà che cosa significano l’“ora-che”, il “poi-quando” e l’“allora-che”. In qualche comprendiamo che essi sono connessi “col tempo”. Che ciò significhi il “tempo” stesso, come questo sia possibile e che cosa significhi “tempo”; tutto ciò non è però concettualmente già in chiaro nella comprensione “naturale” dell’“ora” e degli altri momenti a esso connessi. (pagg. 477-478) Il fatto che si usano generalmente questi termini non significa che si comprendano. Occorre domandarsi che cosa significa “ora-che”, che cosa significa “poi”. C’è anche la domanda: come sia possibile il tempo? Che ci sia qualche cosa che chiamiamo tempo? Dove prendiamo questo “ora-che…”? Abbiamo forse trovato qualcosa di simile fra gli enti intramondani o fra le semplici-presenze? Certamente no. Si tratta forse di qualcosa che è stato trovato? Ci siamo veramente impegnati nella sua ricerca e nella sua determinazione? Lo impieghiamo “ognora” senza averlo mai assunto esplicitamente e ne facciamo uso costantemente, magari in modo inesplicito. È il modo normale di pensare, cioè, si usano termini senza sapere di che cosa esattamente si sta parlando. Il più comune e quotidiano dei discorsi, ad esempio: “fa freddo”, implica un “ora-che…”. Per quale motivo l’Esserci, quando si volge a ciò di cui si prende cura, esprime, sia pure non verbalmente, un “ora-che…” o un “poi-quando…” o un “allora-che…”? Per quale motivo quando parlo del futuro, del presente, del passato, di fatto sto sempre parlando del presente? Se parlo del futuro ne sto parlando adesso; se parlo del passato ne parlo adesso. Perché quando ci si rivolge a qualcosa interpretandolo si esprime anche se stessi, cioè si esprime l’esser-presso l’utilizzabile comprendendolo ambientalmente; esser-presso che, scoprendo l’utilizzabile, lo lascia incontrare. Ecco il motivo. Si chiedeva per quale motivo quando parlo del passato, del presente e del futuro mi riferisco sempre al presente. Perché quando ci si rivolge a qualche cosa ci si rivolge sempre a un utilizzabile, e questo rivolgersi a un utilizzabile è un esser-presso l’utilizzabile, compreso nella visione ambientale preveggente, cioè nel mondo, ma è compreso in quanto mi si mostra, appare, si disvela, qui e adesso. Lo lascia incontrare, quindi, io sono presso questo utilizzabile che incontro qui e adesso. E questo sarebbe il presente. E perché infine, l’esser-presso, nel chiamare che interpreta qualcosa e ne parla, si fonda in una presentazione ed è possibile solo come tale. Posso parlare solo di qualcosa che è presente. Anche se parlo di qualcosa che è avvenuto un milione di anni fa ne parlo perché questo qualcosa è presente adesso, mentre ne sto parlando. Quindi, è possibile solo come tale, come presentazione. Quando parlo, parlo di qualcosa che è presente necessariamente in questo momento in cui ne parlo. Cosa che è interessante perché, in effetti, ha molto a che fare con ciò che diceva anche Freud a questo riguardo. Per esempio, un analizzante sta parlando dei suoi ricordi, però, occorre tenere conto che ne sta parlando adesso; ne sta parlando magari a distanza di trent’anni, è cambiato nulla in trent’anni? Difficile a pensarsi. Inoltre, questa cosa che dice adesso, in questo momento, come è situata rispetto al suo mondo in questo momento? E questo risponde alla domanda: perché sta parlando di questo? A che scopo? Che cosa interviene in questo momento per cui parla di qualcosa che sarebbe accaduta trent’anni fa. La presentazione aspettantesi-ritenente interpreta se stessa. Questa è una frase che va intesa per bene. La presentazione aspettantesi-ritenente, ciò che si presenta all’interno di questo movimento di progetto e di gettatezza, interpreta. Qui interpreta va inteso nell’accezione di Heidegger, non in quella dell’ermeneutica tradizionale. Ricordate la differenza tra “comprendere” e “interpretare”: la comprensione è l’apertura che consente l’interpretazione, cioè, il prendere in considerazione un qualche cosa razionalmente. Quindi, dire che interpreta se stessa significa che questa presentazione si rivolge a se stessa e in questo modo si dà la possibilità di manifestarsi. Questo manifestarsi di qualche cosa non può che interpretare se stesso. Interpretare se stesso, non l’utilizzabile, ma è la presentazione che interpreta se stessa, cioè, la presentazione, il manifestarsi di qualche cosa, diventa in qualche modo tematizzato. E ciò, di nuovo, è possibile solo perché essa (la presentazione) in se stessa estaticamente aperta, è già sempre dischiusa a se stessa e articolabile nell’interpretazione comprendente-discorrente. Dice che questo è possibile, che la presentazione interpreti se stessa, solo perché è già da sempre dischiusa a se stessa, perché questa presentazione è ciò che si produce nella temporalità dell’Esserci, cioè, in ciò che è più proprio dell’Esserci, nel progetto e nella gettatezza. È lì che questa presentazione è già sempre dischiusa a se stessa, non mi si presenta niente se non c’è un progetto e un essere stato, una gettatezza che è sempre stata. Senza questo non si presenta nulla. Poiché la temporalità costituisce in modo estatico-orizzontale l’essere aperto del Ci nella radura, essa è originariamente già sempre interpretabile, e come tale nota, al Ci. Questa interpretazione è già sempre interpretabile e come tale, dice lui, già nota al Ci, perché? Perché questa presentazione è già sempre stata, è per questo che posso interpretarla, è già sempre stata perché l’Esserci è un’apertura che consente all’ente di apparire. Quindi, non è insolito che qualche cosa si presentifichi, non può non presentificarsi, nel momento in cui l’Esserci, in quanto apertura, si apre a un ente, a un utilizzabile. Mettiamola così. L’Esserci è apertura, e in questa apertura qualcosa si manifesta, appare; ciò che appare è ciò che è presente qui e adesso. Il fatto che sia presente qui e adesso è già da sempre noto al Ci dell’Esserci, cioè al qui, ed è noto perché è l’Esserci che fa sì che questa cosa si apra. È questo che è sempre noto: il fatto che qualche cosa può aprirsi, può manifestarsi. Non l’utilizzabile in quanto tale, che è già da sempre noto ovviamente, ma il fatto che già da sempre l’Esserci sa che qualche cosa si presentifica, che qualche cosa si manifesta, e si manifesta perché me ne sto prendendo cura. La presentazione autointerpretantesi, cioè l’interpretato espresso nell’“ora”, noi lo chiamiamo “tempo”. Vedete che è a partire dall’ora, cioè dall’adesso, che è possibile pensare il tempo, ma dire che è possibile partendo dall’ora comporta che sia possibile a partire da ciò che si presenta, da ciò che si autopresentifica e si autointerpreta da sé, mi si mostra, diciamola così, senza bisogno di altro. Nel momento in cui qualcosa diventa presente è come se desse all’Esserci la possibilità di pensare se stesso, perché nell’ora in cui qualcosa si manifesta c’è la possibilità per l’Esserci di accorgersi che si sta occupando di quella cosa che è presente, con tutto ciò che comporta, l’essere stato, ecc. È l’ora che dà l’avvio al tempo e non potrebbe essere altrimenti, è ciò che si presentifica qui e adesso ciò che mi consente di pensare tutta una serie di cose, per esempio, che mi sto occupando di una certa cosa, ché sono sempre stato qualcuno che si occupa di qualche cosa. Se non si presentificasse nulla non avrei nulla non avrei nulla da cui partire, non ci sarebbe un ora, un adesso, a partire dal quale potere riferirsi a un futuro e a un passato, nonostante che questa cosa che si presentifica adesso si sia potuta presentificare grazie al progetto e alla gettatezza. Quando dice l’interpretato espresso nell’“ora”, noi lo chiamiamo “tempo”, cioè, che cosa voglio dire esattamente quando dico “ora”? Mi sto riferendo al tempo: “quando? Ora”. La comprensibilità e la riconoscibilità “immediate” del tempo non escludono tuttavia che la temporalità originaria come tale l’origine che in essa si temporalizza del tempo espresso rimangano disconosciute e incomprese. Dice che non è così automatico intendere il tempo come originario. L fatto che ciò che è interpretato mediante l’“ora”, il “poi” e l’“allora” abbia essenzialmente la struttura della databilità, costituisce la prova più elementare della provenienza dell’interpretato dalla temporalità autointerpretantesi. Secondo Heidegger, il fatto che diciamo “ora”, “poi” e “allora”, e che tutto questo abbia la struttura essenzialmente della databilità, sarebbe la prova della provenienza dell’interpretato dalla temporalità autointerpretantesi. Dicendo “ora”, noi intendiamo già sempre, anche se non lo diciamo, un “ora che questo e quello”. Perché? Perché l’“ora” interpreta una presentazione dell’ente. Nell’“ora che…” si rivela il carattere estatico del presente. Dicendo “ora” io interpreto una presentazione dell’ente. Io chiamo “ora” una presentazione dell’ente, di qualche cosa che mi appare. Questo costituisce l’avvio, perché se qualche cosa mi si presenta mi si presenta perché sono preso nella temporalità, cioè, sono preso nel progetto in cui qualcosa ha potuto presentarsi; sono preso anche nel passato in quanto io, già da sempre, mi accorgo di essere questa gettatezza, in cui ininterrottamente mi ritrovo.

Intervento: Non potrei parlare del passato se non esistesse un ora…

Sta facendo un passo in più, l’“ora” non è altro che il presentarsi di qualche cosa adesso. Qualcosa mi si presenta e io chiamo “ora” questo presentarsi. La databilità dell’“ora”, del “poi” e dell’“allora” è il riflesso della costituzione estatica della temporalità… Costituzione estatica della temporalità vuol dire che la temporalità è sempre essere progettato, quindi, essere sempre fuori di sé. …e, come tale, è essenziale anche per il tempo espresso. La struttura della databilità dell’“ora”, del “poi” e dell’“allora” dimostra la loro provenienza dalla temporalità, dimostra cioè che sono essi stessi tempo. Ora, questo “dimostra” può essere discutibile, però, sicuramente lo richiama. L’“ora”, cioè il presentarsi di qualche cosa, è possibile soltanto perché c’è un progetto, perché se io non mi trovassi nel progetto, se non ci fosse la Cura, se non mi occupassi di qualche cosa, non si presenterebbe e, quindi, non ci potrebbe essere un “ora” che mi consente di pensare a un “allora” e a un “poi”. Perché me lo consente? Me lo consente perché, pensando all’“ora” come ciò che si presenta, a questo punto questa cosa che si presenta è ciò che io, per esempio, volevo. Facciamo un esempio di un utilizzabile: io volevo fare una certa cosa, mi trovavo in un progetto in vista di qualche cosa, questo qualche cosa adesso è lì, è “ora”, ma questo “ora” viene da qualche cosa che prima era futuro, progetto, ma adesso è passato. Ecco perché, secondo lui, la temporalità è costitutiva dell’“ora”, del “poi” e dell’“allora”, perché senza temporalità, senza questo movimento, che poi costituisce l’Esserci, non si presenterebbe nulla. Nulla sarebbe presente e non essendo presente non c’è né passato né futuro. Più avanti incomincia a riflettere su un altro aspetto, connesso con questo, e cioè quello del durare, che è fondamentale nel tempo, una cosa dura nel tempo, e a pag. 480 dice La comprensione presentante-aspettantesi del “durante” articola il “durare”. Il “durante” è riferito all’“ora”, all’adesso, si riferisce a un presente. Questo durare è, di nuovo, il tempo quale si rivela nell’auto-interpretazione della temporalità e quale viene via via compreso in modo non tematico nel prendersi cura, sotto forma di “tesa di tempo” (lasso di tempo). Questo durare, dice lui, viene compreso in modo non tematico, però nel prendersi cura io mi occupo di qualche cosa per un certo periodo di tempo; per esempio, mi prendo cura della sigaretta finché la fumo. La presentazione ritenente e aspettantesi… Quando parla di presentazione ritenente e aspettantesi si riferisce alla temporalità dell’Esserci, qualcosa che si presentifica perché c’è progetto e gettatezza. La presentazione ritenente e aspettantesi, interpretando trae “fuori” un “durante” esteso solo perché essa è aperta a se stessa come l’es-tensione estatica della temporalità storica, anche se non si riconosce come tale. Dunque, ci dice che la presentazione ritenente è aperta a se stessa, cioè la vedo, la osservo, in quanto es-tensione estatica della temporalità storica, e cioè l’estensione del tempo, in cui mi occupo di qualcosa, non è altro che l’estensione estatica. Aveva già parlato di questa estensione estatica. Quando l’Esserci si progetta è gettato in avanti, quindi è fuori di sé; questo esser fuori di sé comporta, dice Heidegger, una estensione. Per esempio, io progetto di rompere questo aggeggio. Ora, questa operazione, il rompere questo oggetto, dura nel tempo, e questa estensione, in cui io faccio qualche cosa, sarebbe il durare, per l’Esserci, attraverso però il suo estendersi, estendersi nel fare qualcosa. Ma con ciò si rivela un’altra caratteristica del tempo “indicato”. Non è solo il “durante” a esser teso-fra, ma ogni “ora”, ogni “poi e ogni “allora” ha sempre, con la struttura della databilità, una estensione fra mutevoli tratti di tempo; “ora”: nell’intervallo, a pranzo, nella serata d’estate; “poi”: durante la colazione, salendo, ecc. Ciascuno di questi aspetti ha, per via della struttura della databilità, un’estensione fatta di mutevoli tratti di tempo. Nel “lasciarsi vivere” quotidiano (nella deiezione) prendendosi cura, l’Esserci non si comprende mai come percorrente una successione continua di puri “ora”. Nella deiezione, nella chiacchiera, l’Esserci non si comprende mai come una successione continua di puri “ora”. È curiosa questa sua affermazione. Questi puri “ora” sembrano quelle cose che Severino chiama gli “eterni”, questo “ora” è un “ora” che non è soggetto al divenire perché è una sequenza di punti, non è che un punto divenga, un punto è eterno, è quello che è. Questo “ora” non diviene qualche cos’altro, è quello che è, adesso. A pag. 481. Precedentemente abbiamo definito l’esistere autentico e inautentico rispetto ai modi di temporalizzazione della temporalità che ne costituiscono il fondamento. Come ha detto prima, nel lasciarsi vivere quotidiano, prendendosi cura l’Esserci non si comprende mai come percorrente una successione continua di puri “ora”. Questo sarebbe il modo autentico. È risultato che l’indecisione dell’esistenza inautentica si temporalizza nel modo di una presentazione non-aspettantesi e obliante. L’indecisione è dell’esistenza inautentica, perché in quella autentica c’è decisione. La decisione autentica è l’Esserci che decide di rivenire a se stesso, questa è la decisione autentica, qualunque altra è inautentica. L’indeciso comprende se stesso in base alle circostanze e ai casi accidentali che incontra in questa presentazione e che, vicendevolmente, gli si impongono perché più vicini. Disperdendosi in vario modo presso ciò di cui si prende cura, l’indeciso vi perde contemporaneamente il suo tempo. Da qui la frase tipica: “Non ho tempo”. Come l’esistere inautentico perde costantemente il suo tempo e quindi non “ha” mai, così il carattere distintivo della temporalità dell’esistenza autentica è quello di non perdere mai tempo, nella decisione, e quindi di “avere sempre tempo”. La soluzione di questa questione, di cui sta parlando Heidegger, è in questa frase: Nel “lasciarsi vivere” quotidiano (nella deiezione) prendendosi cura, l’Esserci non si comprende mai come percorrente una successione continua di puri “ora”. Comprendendosi come percorrente una successione di continui puri “ora”, allora l’esistere è autentico; non solo ma non perde tempo, nel senso che se non considero la mia esistenza come successione di puri “ora”, se non tengo conto di essere qui, in questo momento, di ciò che sta accadendo qui in me, in questo momento, e che sono ciò che sono stato, ecc., se non tengo conto continuamente di tutto questo, io mi trovo a perdere tempo. Mi trovo a perdere tempo nel senso che il tempo diventa una successione di stati, è il tempo comune, corrente, ma questa successione di stati comporta l’oblio, comporta il non “ricordarsi” ciò che sono, e io sono ciò che sono in ciascun singolo “ora”. Ecco perché dice che l’Esserci autentico non perde tempo, perché è sempre nel suo tempo. Il mio tempo è quello dell’“ora”, ciascun “ora” e se io sono lì, allora io non perdo il mio tempo, perché sono nel mio tempo. L’Esserci, effettivamente gettato, può “prendersi” tempo e perderlo soltanto perché a esso, in quanto temporalità estaticamente es-tesa e con l’apertura del Ci fondata in questa temporalità, è assegnato un “tempo”. L’Esserci è nel suo tempo soltanto se si situa nel suo tempo assegnato. Qual è il suo tempo assegnato? L’“ora”, questo è il tempo assegnato, il mio “ora”, ciò che sto facendo qui, adesso, in questo istante, con tutto ciò che questo comporta, ovviamente. A pag. 482. L’Esserci, prendendosi cura, utilizza il tempo che “c’è” e col quale si calcola. La pubblicità del tempo è tanto più penetrante quanto più l’Esserci effettivo si prende esplicitamente cura del tempo contando propriamente su di esso. Qui c’è la questione del pubblico, di cui parlerà adesso. Per Heidegger la questione del tempo ha sempre a che fare con il pubblico in quanto questo uso del tempo è sempre riferito in relazione a altri: io farò questo, ma questo fare è sempre riferito a un tempo che è anche di altri. Il mio “ora” è il mio “ora”, certo, così come il suo “ora” è il suo, non il mio; quindi, questo “ora”, anche se è comune a entrambi, perché entrambi diciamo “ora”, “ora siamo qui”, però, il mio non è il suo, perché questo è il mio tempo, cioè, è inserito in una temporalità che mi appartiene, riguarda un mio progetto. Quando dico “ora”, questo “ora” che dico è sempre all’interno di un progetto che è mio.

Intervento: Io non potrei mai parlare senza l’“ora”…

No, ed è per questo motivo che Heidegger lo pone come prioritario rispetto al futuro, anche se questo “ora”, che non è altro che l’esser presente qui di qualche cosa, necessita del progetto. È qui la questione interessante, perché questo “ora” è tale solo in relazione al futuro e al passato, i quali, futuro e passato, sono rispettivamente debitori dell’“ora”.