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17-12-2014

 

In quanto resiste alla possibilità estrema del non essere, l’essente si mantiene nell’essere senza con ciò aver tuttavia oltrepassata né superata la possibilità di non essere – sta dicendo che l’ente è quello che è, nonostante possa anche non essere – stiamo parlando avventatamente del non essere dell’essere e dell’essente senza dire in che rapporto essi stiano con l’essente medesimo, l’essente e il suo essere sono la stessa cosa? in cosa consiste la loro differenza? Cos’è per esempio in questo pezzo di gesso l’essente? Già la domanda è di per sé ambigua in quanto la parola “essente” può assumere due significati, come τ ν, l’essente significa anzitutto ciò che nei singoli casi è essente, nel caso specifico a proposito del gesso, questa massa è grigio tendente al bianco, la forma determinata, leggera, friabile eccetera, l’essente significa in secondo luogo ciò che per così dire fa sì che la cosa in questione sia un essente anziché un non essente, ciò che nell’essente se è un essente costituisce il suo essere (appunto sta cercando l’essere dell’essente) in conformità di questa doppia significazione del termine “essente” il greco τ ν riveste spesso il secondo significato, indica cioè non l’essente stesso ciò che è essente ma il fatto di essere, l’“essentità”, l’essere essente, per contro l’essente nel primo senso designa le stesse cose essenti prese singolarmente nel loro insieme, in altri termini tutto ciò che è in rapporto ad esse e non alla loro “essentità” (alla loro essenza non so perché hanno tradotto essentità) il primo significato di τ ν corrisponde a τ ντα (entia - ente) il secondo a τ εναι (esse – Essere) – (tenete sempre conto che ciò che a noi interessa di tutto il discorso intorno alla metafisica è intendere la questione per noi più importante e cioè come accade che qualche cosa venga considerato quello che è metafisicamente e non come una regola del gioco) ciò che chiediamo, questa è la domanda fondamentale “perché vi è in generale l’essente e non il nulla?” sembra apparentemente che in questa domanda ci si attenga ancora e soltanto all’essente sfuggendo al vuoto arrovellarsi sull’essere, ma che cosa domandiamo realmente, perché l’essente come tale sia? Chiediamo la ragione del fatto che l’essente è, che è quella cosa determinata e perché non ci sia piuttosto il nulla (perché c’è questo piuttosto che nulla?) la nostra domanda mira in ultima analisi all’essere, ma in che maniera? La domanda che ci poniamo verte sull’essere dell’essente (cioè sull’essere delle cose) noi interroghiamo l’essente a proposito del suo essere, tuttavia già prima nell’atto dell’interrogare medesimo che noi facciamo la domanda verte già in realtà sull’essere, sul suo fondamento e ciò anche se questa domanda permane implicita e in quanto a sapere se l’essere non sia già di per se stesso il fondamento, è fondamento sufficiente, irresoluta. (dice che continuiamo a domandarci intorno all’essere nonostante tutto, nonostante che questa domanda non ci porti da nessuna parte, almeno per il momento) Il fatto che noi poniamo questa domanda sull’essere come domanda di primo piano può forse accadere senza che noi sappiamo qualcosa dell’essere e del suo comportamento nei confronti della sua differenza dall’essente? (se ci chiediamo questa cosa, se ci chiediamo dell’essere forse qualche cosa ne sappiamo già di questo essere, se ci stiamo domandando qualcosa) come sarebbe mai possibile non dico trovare ma anche soltanto cercare il fondamento dell’essere dell’essente senza aver prima sufficientemente afferrato, compreso, concepito l’essere stesso? sarebbe un progetto altrettanto disperato come voler rintracciare la causa e spiegare la ragione di un incendio senza curarci del suo andamento eccetera // avviene così che la domanda “perché vi è in generale l’essente e non il nulla?” ci costringe a porre la domanda preliminare “che cosa ne è dell’essere”. // L’essere permane tuttavia introvabile quasi come il nulla o in definitiva esattamente nello stesso modo (anche il nulla diceva prima “è inutile che stiamo a domandarci del nulla, che cosa ci domandiamo?” però anche con l’essere dice accade qualche cosa di simile ) la parola “essere” finisce per diventare così nient’altro che una parola vuota, non designa nulla di effettivo, di afferrabile di reale il suo significato è fumo, esalazione irreale, Nietzsche finisce così per avere ragione quando chiama i concetti più alti come l’ “essere” l’ultima esalazione di una realtà che si dissolve. Chi mai dovrebbe inseguire una tale esalazione il cui nome non è che la designazione di un grande errore, “in verità” dice Nietzsche “niente ha avuto finora una più ingenua forza di persuasione dell’errore dell’essere”, è dall’essere stesso che dipende questo fraintendimento (dice Heidegger) ed è questo vuoto persistente imputabile alla parola? (Tenete conto che Heidegger ha sempre avuto una certa attenzione per il linguaggio e per la parola) oppure (il fraintendimento il soggetto) dipende da noi che in tutto questo gran darci da fare per andare a caccia dell’essente siamo caduti fuori dall’essere? (questa è poi la sua accusa in definitiva a tutta la filosofia occidentale che per lui non è altro che una metafisica che ha mancato totalmente l’essere, perché ogni volta che si adopera per individuare l’essere lo oggettivizza e di conseguenza lo trasforma in ente) o forse non dipende primariamente da noi uomini d’oggi e neanche dai nostri prossimi e remoti predecessori ma da qualcosa che dall’origine trascorre in tutta quanta la storia dell’occidente, da un evento che tutti gli occhi degli storici non riuscirebbero a scorgere e che pur tuttavia avviene oggi come per l’addietro, e avverrà in futuro? E se fosse davvero possibile che l’uomo, che i popoli nei loro più grandi affari d’imprese intrattengono una relazione con l’essente e ciò nonostante siano caduti da gran tempo fuori dell’essere senza saperlo e che proprio questa sia la ragione più intima e imponente della loro decadenza? (qui adesso vi leggo delle cose che non hanno propriamente un grande interesse per la ricerca che stiamo facendo però ve le leggo come curiosità perché in queste righe c’è il motivo dell’adesione di Heidegger al partito nazista) Si tratta di domande che non si pongono qui incidentalmente e neppure per influenzare i sentimenti o la concezione del mondo, sono domande alle quali ci induce quella domanda preliminare che scaturisce necessariamente dalla principale e che suona “che cosa ne è dell’essere?”. Una domanda assai semplice e anche certamente assai inutile e non di meno una domanda anzi la domanda quella che chiede “l’essere è una semplice parola e il suo significato evanescente oppure esso costituisce il destino spirituale dell’occidente?” questa Europa in prede a un inguaribile accecamento sempre sul punto di pugnalarsi da se stessa, si trova oggi (1935) nella morsa della Russia da un lato e dell’America dall’altro, Russia e America rappresentano entrambe da un punto di vista metafisico la stessa cosa, la medesima desolante frenesia della tecnica scatenata e dell’organizzazione senza radici dell’uomo massificato, in un epoca in cui anche l’ultimo angolo del globo terrestre è stato conquistato dalla tecnica ed è diventato economicamente sfruttabile, in cui qualunque evento, in qualsiasi luogo e momento è venuto rapidamente accessibile, in cui si può vivere nel medesimo tempo l’attentato in Francia contro un monarca e un concerto sinfonico a Tokio, per cui il tempo non è più che velocità, istantaneità e simultaneità mentre il tempo come storicità autentica è del tutto scomparso dalla realtà di qualsiasi popolo, in un epoca in cui un pugile è considerato un eroe nazionale in cui i milioni di uomini delle adunate di massa costituiscono un trionfo, allora, proprio allora l’interrogativo “ a che scopo, dove e poi?” continuamente ci si ripresenta come uno spettro al di sopra di tutta questa stregoneria. La decadenza spirituale della terra è così avanzata che i popoli rischiano di perdere l’estrema forza dello spirito, quella che permetterebbe almeno di scorgere e di valutare come tale questa decadenza concepita in rapporto al destino dell’essere, questa semplice constatazione non ha nulla a che vedere con il pessimismo della civiltà, come del resto con l’ottimismo, poiché l’abbuiarsi del mondo, la fuga degli dei, la distruzione della terra, la riduzione dell’uomo a massa, il sospetto gravido d’odio contro tutto ciò che è creativo e libero ha in tutta la terra già raggiunto una tale proporzione che delle categorie così puerili come pessimismo e ottimismo sono divenute ormai da gran tempo risibili, siamo presi nella morsa, il nostro popolo, il popolo tedesco in quanto collocato nel mezzo subisce la pressione più forte della morsa, esso che è il popolo più ricco di vicini e di conseguenza il più esposto è insieme il popolo metafisico per eccellenza, da questa sua caratteristica di cui siamo certi discende d’altronde che questo popolo potrà forgiarsi un destino solo se sarà prima capace di provocare in se stesso una risonanza, una possibilità di risonanza nei confronti di questa caratteristica, esso saprà comprendere la sua tradizione in maniera creatrice, tutto ciò implica che questo popolo, in quanto popolo storico, si avventuri ad esporre se stesso e insieme la storia stessa dell’occidente colta a partire dal centro del suo avvenire nell’originario dominio della potenza dell’essere e se la grande decisione concernente l’Europa non deve verificarsi nel senso dell’annientamento, potrà solo verificarsi per via del dispiegarsi e a partire da questo centro nuove forze storiche e spirituali /…/ chiedere che “cosa ne è dell’essere?” significa nientemeno che attuare la ripetizione del cominciamento del nostro “esserci storico e spirituale” per trasformarlo in un altro cominciamento, (quando lui parla del “cominciamento storico e spirituale” allude a qualche cosa che aveva già elaborato in “Sein und Zeit”, cioè lo spirito è questa forza creatrice, la res cogitans di Cartesio, cioè la potenza del pensiero, questo è lo spirito anche per buona parte dell’idealismo tedesco, che lui conosceva molto bene e apprezzava, quindi l’“incominciamento di questo esserci storico e spirituale” significa che questa forza creatrice del pensiero non può ovviamente essere scollegato dalla storia, dalla sua storia nel senso che si storicizza di volta in volta, il pensiero non può non tenere conto di ciò che lo ha preceduto, non nel senso di ritornare al passato, per Heidegger non è assolutamente così ma piuttosto di fare agire ciò che è stato in ciò che è, dice:) una tal cosa è possibile, questo oltretutto corrisponde alla capacità formatrice e commisuratrice della storia in quanto si ricollega all’evento fondamentale. Un cominciamento si ripete non con il riportarvisi come ad alcunché di trascorso, di ormai risaputo e semplicemente da imitare bensì in modo che il cominciamento venga ricominciato in maniera ancor più originaria (come dire in ciascun atto, ciascuna volta è questo cominciamento “storico” nel senso che non può non tener conto di ciò che lo ha prodotto) la ripetizione come noi la intendiamo è tutt’altro che la prosecuzione migliorata di ciò che si è già attuato con i mezzi già esistenti, allora la domanda che “cosa ne è dell’essere?” si trova come domanda preliminare inclusa nella nostra domanda guida e cioè “perché vi è in generale l’essente e non il nulla?” se ci si pone alla ricerca di ciò che in tale domanda preliminare viene perseguito vale a dire l’ “essere”, tosto, l’espressione di Nietzsche ci appare nella sua piena verità giacché, a ben guardare, cos’è l’essere per noi più che un semplice “flatus vocis” un significato vago, indeterminato, inafferrabile come il fumo? L’essere per lui, per Nietzsche, è un’illusione, un inganno che non sarebbe mai dovuto verificarsi, l’essere, qualcosa di vago, indeterminato, evanescente come fumo, dunque? È vero non intendiamo contestare questo fatto, si tratta anzi di chiarirne la natura per chiarirne tutta la portata (cioè l’ “essere” come una sciocchezza, qui dice, lo diceva prima, è il concetto più generale in assoluto) l’ambito della sua validità si estende a tutto e a ogni cosa in particolare sino al nulla, eccolo qua che torna, il quale in quanto pensato e in quanto espresso è pure anch’esso qualcosa, al di sopra e al di fuori della sfera di validità di questo concetto che è il più generale l’“essere”, non esiste a rigore più nulla da cui esso stesso possa venire ulteriormente determinato ( se è il concetto più generale, se fosse determinato da un altro concetto, questo altro sarebbe ancora più generale dell’ “essere”, ovviamente ) il concetto dell’essere è qualcosa di ultimo questo corrisponde anche a una legge della logica che dice “più un concetto è esteso – e quale concetto è più esteso di essere? – più il suo contenuto risulta vuoto e indeterminato” (se io dico “tutto” appunto dico tutto e nulla. Più avanti dà una definizione di “spirito” visto che prima ne ha parlato “lo spirito è la risolutiva apertura originariamente disposta e cosciente all’essenza dell’essere, lo spirito è la pienezza del potere dato alle potenze dell’essere come tale nella sua totalità” dire che lo spirito è l’apertura cioè l’apertura a ciò che vi è di più essenziale, più radicale possa essere pensato, questo è lo spirito. Poi qui fa qualche riflessione sull’etimologia della parola “essere” perché a suo parere ciò che i greci intendevano con “essere” è importante per intendere in seguito il modo in cui lui proporrà questa nozione di essere) Questa via (cioè quella di seguire i greci sull’etimo) essa deve sulla base di esempi grammaticali mostrarci come e perché l’esperienza, la concezione e l’interpretazione del linguaggio divenute normative per l’occidente siano la risultante di una concezione del tutto particolare dell’essere. Le parole πτσις e γχυσις significano cadere, oscillare, inclinarsi. C’è qui l’idea di una deviazione dallo stare eretto e diritto, ma questo lo star lì eretto in se stesso, il venire in posizione e il rimanere in posizione, i greci lo intendono come essere, (l’essere cioè è qualche cosa che è in posizione e sta lì dritto) ciò che in tal guisa viene in posizione diventa in sé stabile, si pone con ciò da se stesso liberamente nella necessità del suo limite πέρας, quest’ultimo non è qualcosa che provenga all’essente dal di fuori, ancor meno esso rappresenta una mancanza, una privazione (cioè il fatto di essere fermo lì) l’arrestarsi, il trattenersi in base al proprio limite, di possedersi nel mantenersi stabile, è questo l’essere dell’essente. (qui lui ha detto in modo chiarissimo che cosa intende con l’essere dell’essente. Ciò che si trattiene lì, che sta lì, che non si muove perché non può muoversi, mentre l’ente sappiamo che si modifica, l’essere no. (non lo sta oggettivando e quindi diventa un ente anche quello? No, a parer suo, non lo oggettiva nel senso che ne parla, è ovvio che bisogna parlare, poi a parer suo non lo oggettiva perché per lui l’essere non è un ente ma è il disvelarsi eccetera) È questo l’essere dell’essente, è ciò che costituisce primariamente l’essente come tale nella differenza dal non essente (cioè la differenza per Heidegger fra l’essere e l’essente, è propriamente ciò che distingue l’essente dal non essente, perché? Perché l’essente è, il non essente no, questo è ciò che fa essere l’essente quello che è, anziché non essere, la domanda principale “perché l’essente anziché nulla?) venire in posizione significa conseguentemente darsi un limite, delimitarsi perciò un carattere fondamentale dell’essente è costituito da ciò che viene chiamato in greco τ τέλος che non significa né il fine né lo scopo (τέλος viene tradotto con “scopo” da cui teleologia) ma il “termine” in tedesco “ende” cioè fine. “Termine” non va qui inteso affatto in senso negativo come se si trattasse di qualcosa che non va più avanti, che fallisce, che finisce, “termine” significa il terminare, la terminazione nel senso del compimento (per altro è in accezione che praticamente utilizzava Verdiglione) il limite e il termine sono ciò per cui l’essente incomincia ad essere. (cioè questo essente incomincia ad essere qualcosa che viene delimitato perché è terminato) da questo punto di vista è da intendersi la denominazione più alta che Aristotele usa per l’essere ντελχεια: il mantenersi, conservarsi nella terminazione (limite). L’uso che la filosofia posteriore e anche la biologia hanno fatto, vedi Leibniz, del termine ντελχεια denota tutto il distacco dai greci ciò che si pone nel suo limite compiendolo e così costituendosi ha forma (morfè da cui morfologia eccetera), la forma così come concepita dai greci è essenzialmente uno schiudersi che si dispone nel limite ( si dischiude e si dispone in un limite cioè è determinato) se non ché ciò che si mantiene consiste in se stesso diviene dal punto di vista dell’osservatore ciò che si propone, che si offre mostrandosi nella sua apparenza, l’apparire di una cosa viene detto dai greci εδος o “idea”. (l’idea è l’apparire, ciò che appare) In εδος risalta in primo piano ciò che intendiamo anche quando diciamo “la cosa ha un certo aspetto, si lascia vedere, consta” la cosa “consiste” , essa riposa nell’apparire, è come dire nel sorgere della sua essenza (appare quando sorge) Tutte le determinazioni dell’essere finora enumerate traggono tuttavia il loro fondamento e risultano insieme collegate da ciò in cui i greci sperimentano inequivocabilmente il senso dell’essere e che essi chiamano οσία (la sostanza) e in senso più pieno παρουσα, la solita povertà di pensiero traduce la parola con “sostanza” e ne falsa con ciò completamente il significato (in tutti i manuali di filosofia al temine greco οσία viene tradotto con “sostanza” pero lui dice invece) Noi abbiamo per παρουσα la parola tedesca corrispondente “an wesen” si usa designare così una proprietà fondiaria e di tipo rurale in sé conchiusa, una proprietà, ancora al tempo di Aristotele οσία è usata in questo senso e insieme nel senso del termine filosofico fondamentale, una cosa si presenta, essa permane in se stessa e così si propone, essa è. Essere significa in fondo per i greci presenza. Non di meno la filosofia greca non è risalita più oltre sul fondamento dell’essere cioè verso quello che esso nasconde, essa si è fermata alla prima fase dell’esser presente e ha cercato di considerarlo secondo le sue accennate determinazioni. (che sono appunto enti) Quanto abbiamo detto ci permette di comprendere meglio per ciò che riguarda l’illustrazione del termine “metafisica”, l’interpretazione greca dell’essere da noi menzionata fin dall’inizio: l’apprensione cioè dell’essere come φύσις (natura). Bisogna, dicemmo, mettere completamente da parte ogni altro concetto di natura φύσις designa l’erigersi nell’atto di schiudersi (qualcosa che si erige nell’atto in cui si dischiude, compare, appare) il dispiegarsi permanendo in sé (si dispiega permanendo in sé, qualcosa che si dispiega lui faceva l’esempio del fiore che sboccia, della rosa che si dispiega e dispiegandosi permane, questo è l’essere) In questo imporsi riposo e movimento sono ritenuti e insieme manifestati ad opera di una unità originaria, questo imporsi costituisce la presenza predominante e ancora non padroneggiata dal pensiero in cui l’esser presente sussiste come essente, ma questo imporsi fuori esce dalla latenza il che è come dire, per usare l’espressione greca, che l’ “αλήθεια” “la non latenza” accade. (λήθεια” “la verità”, uno dei termini che i greci usavano per “verità” che lui traduce più propriamente come “non latenza”. Cosa vuol dire che accade la “non latenza”? che ad un certo punto ciò che è non latente diventa latente, appare, si dischiude, permane ma ciò che permane è l’essere non l’essente) Infatti ciò che viene qui denominato πόλεμος è un conflitto che emerge da ogni cosa divina e umana, non si tratta di una guerra di tipo umano, la lotta così come concepita da Eraclito è quella che anzitutto fa sì che l’ente si ponga come distinto nel contrasto e che acquisti la sua posizione, la sua condizione, il suo rango. (per differenza potremmo dire) Nell’attuarsi di tale separazione si verificano delle crepe, delle scissure, dei distacchi e delle connessioni e nell’esplicarsi vicendevole del contrasto che si produce il mondo.// Per i greci essere significa stabilità e ciò in duplice senso: 1) lo stare in sé, nel senso del prodursi, del procedere (questa è la “φύσις” la natura, “sta insieme” nel senso che si produce, procede, per questo “sta in sé” si produce è ovvio che sta in sé, ) 2) “lo stare in sé” come tale, come qualcosa di stabile, che rimane, di permanente, nel senso di οσία. (prima era la φύσις seconda “οσία”) “Non essere” per conseguenza significa l’uscire da tale stabilità, proceduta da se stessa. “Esistenza” ed “esistere” significano quindi per i greci precisamente non essere. L’insipienza e la faciloneria con cui ci si serve delle parole “esistenza” ed “esistere” per indicare l’“essere” testimoniano, una volta di più, di quanto ci si è allontanati da esso e da una significazione ben altrimenti all’origine efficace e precisa. (“πτσις” “γχυσις” indicano il cadere, il declinare eccetera. Poi parla dell’infinito il fatto che “essere” sia infinito ma non è così determinante. Ci sono tante cose da leggere ma quello che mi interessava qui è importante) Abbandoniamo dunque il vuoto schema di questa parola “essere” perché risulta una parola vuota eccetera, ma per andare dove? La risposta non è difficile, è il caso se mai di meravigliarci di esserci potuti intrattenere così a lungo e dettagliatamente sulla parola “essere” allora dunque abbandoniamo questa vuota e generica parola “essere” e rivolgiamoci piuttosto ai vari ambiti specifici dell’essente (fa una serie di esempi: i fiumi, i boschi eccetera tutte queste cose sono essenti, anche la folla è essente, la calca umana eccetera anche i pazzi di un manicomio,) essenti sempre ovunque a volontà tutto è essente solo donde noi troviamo la consapevolezza che tutto ciò che presentiamo ed elenchiamo con tanta sicurezza sia veramente un essente? (vedete qui innanzi tutto la portata metafisica anche di queste domande, lui intende con essente un qualche cosa che è se stesso necessariamente, non una parola che ha quindi una certa serie di connessioni e viene utilizzata in un certo modo, no, l’essente è, qualche cosa e questa è metafisica) pare una domanda assurda (cioè come facciamo a sapere che un essente è un essente?) e dato che noi possiamo in ogni caso senza nessuna possibilità di dubbio constatare che un certo essente è (questa penna è) non è nemmeno necessario per questo usare la parola “essente” e “l’essente” estranee al linguaggio comune, né ora pensiamo a dubitare che tutti questi enti in generale non siano, basando il nostro dubbio sulla pretesa e constatazione scientifica che noi non sperimenteremmo che le nostre sensazioni, né usciremmo dal nostro corpo cui tutto quello che abbiamo testé nominato rimarrebbe legato, in realtà l’essente noi lo lasciamo essere così come nella vita di tutti i giorni o nelle ore e momenti decisivi che ci sollecita e ci assale, ci solleva e ci opprime, lasciamo ogni essente “essere” così com’è. Ma è proprio quando ci abbandoniamo così spontaneamente e senza alcuna complicazione al corso della nostra esistenza storica, quando lasciamo che l’essente sia di volta in volta quello che è, che ci troviamo nonostante tutto nella necessità di sapere già che cosa significa “è” ed “essere” e come stabilire d’altra parte che in un certo tempo, in un certo luogo un supposto essente non è, se non siamo in grado di distinguere con chiarezza fra essere e non essere e come compiere questa decisiva distinzione se non sappiamo in modo altrettanto decisivo e determinato che cosa significhino l’essere e il non essere, che vengono qui appunto distinti, come può nel caso specifico e in generale un essente, essere per noi un essente se prima non comprendiamo che cosa significhino “essere” e “non essere”? . Abbiamo constatato all’inizio la parola “essere” non ci dice nulla di determinato (anzi abbiamo visto prima che è la parola più indeterminata possibile) né ci siamo dopo tutto ingannati infatti abbiamo trovato e ci consta tuttora che “essere” ha un significato evanescente, impreciso d’altronde le precisazioni fin qui fatte ci danno la convinzione di distinguere bene e con sicurezza l’“essere” dal “non essere” , per raccapezzarci bisogna fare attenzione a quanto segue: si può certo dubitare che in un luogo o in un tempo qualsiasi un singolo ente sia oppure no, ci si può ingannare ad esempio sul fatto che una finestra che pure è un ente sia chiusa o non lo sia, eppure anche perché semplicemente una cosa di tal genere possa venir posta in dubbio occorre che sia presente una precisa distinzione fra essere e non essere. (non so se la finestra è aperta o chiusa ma so che una finestra è una finestra) Quello di cui, in questo caso, non dubitiamo affatto è che l’essere sia diverso dal non essere. Per quanto la parola “essere” risulti indeterminata nel suo significato non di meno la comprendiamo in modo determinato. “Essere” si rivela così come qualcosa di pienamente indeterminato e altamente determinato, secondo la logica comune vi è qui una contraddizione evidente ma ciò che si contraddice non può essere. Non esiste un circolo quadrato (con buona pace del nostro amico Meinong che invece diceva la sua al riguardo) e tuttavia questa contraddizione “l’essere completamente indeterminato e tuttavia determinato” esiste. Se non vogliamo ingannarci, se in mezzo ai molti affari e impegni della giornata ci concediamo un attimo di riflessione, a questo riguardo ci capita di sorprenderci nel bel mezzo di questa contraddizione, questa nostra situazione è reale come nessun’altra. Il fatto che l’essere sia per noi una parola vuota assume improvvisamente tutt’altro aspetto, diventiamo finalmente diffidenti nei confronti del presunto “vuoto” della parola, riflettendo più attentamente su questa parola risulta alfine questo: malgrado ogni obliterazione, mescolanza, genericità del suo significato noi pensiamo in essa qualcosa di determinato, questo qualcosa di determinato è così determinato e unico nel suo genere che occorre fare la seguente aggiunta: quell’essere che tocca a qualsiasi ente e che si sperde così in tutto ciò che vi è di più comune, è per eccellenza quanto vi è di più unico. (ora avete immediatamente inteso l’importanza di ciò che sta dicendo, anche perché ha anticipato, siamo nel 35, quelle stesse cose che vi stavo dicendo recentemente rispetto alle parole, ai significati. Avete ben chiaro ciò che vi dicevo affermando che una parola è fatta di altre parole, come la semiotica ha mostrato in vario modo e a vario titolo, da Hjelmslev a Greimas a De Saussure eccetera, quindi una parola è fatta di tutte le connessioni che intrattiene simultaneamente con tutte le altre parole. Questo era un grosso problema già per De Saussure ciò non di meno questa parola pur essendo indeterminata oltre che indeterminabile risulta determinata, risulta essere se stessa e cioè risulta utilizzabile perché se fosse effettivamente indeterminata e indeterminabile non sarebbe utilizzabile, sarebbe nulla, sarebbe evanescente, esattamente quello che diceva Heidegger rispetto all’essere, come la parola più generica, più indeterminata che scappa da tutte le parti, eppure ci sta dicendo Heidegger che nonostante questo rimane la parola più determinata.) Qualunque altra cosa, comunque possa essere anche se unica, può venire ulteriormente paragonata ad altro con questa possibilità di comparazione aumenta la sua determinabilità, (quando facciamo un esempio è la stessa cosa) ed è in virtù di questa determinabilità che essa si trova in una condizione, sotto molti aspetti, di indeterminatezza (proprio perché è determinabile è indeterminata, se fosse determinata sarebbe chiusa) L’essere per contro non può essere paragonato con nessun altra cosa, ha questa prerogativa solo il nulla per lui è altro, solo il nulla e qui non c’è nulla da paragonare se l’essere rappresenta così quanto vi è di più unico nel suo genere e il più determinato allora anche la parola “essere” non può rimanere vuota e in verità essa non è mai vuota. Ce ne convinceremo facilmente con un paragone, (appunto con una determinazione se vogliamo riprendere quanto si diceva prima) quando noi percepiamo la parola “essere” udendola come forma sonora o vedendola scritta, essa ci appare tosto come qualcosa di affatto diverso da un seguito di suoni e di lettere come ad esempio “abracadabra”, anche questo è un seguito di suoni ma noi diciamo immediatamente che è privo di senso, anche se può averne come formula magica, per contro “essere” non è in tal modo privo di senso, così “essere” visto scritto è tutt’altro da “kzomil” // Non esistono parole vuote ci sono sì parole usate che mantengono ancora però un certo contenuto, il nome “essere” mantiene ancora la sua forza di appellazione, (si rifà alla parola greca, ai greci antichi ) proporsi di abbandonare l’essere come parola vuota di senso per rivolgersi all’essente particolare è cosa non solo avventata ma oltretutto eminentemente incerta, riflettiamo su tutto questo servendoci ancora una volta di un esempio, il quale d’altronde come ogni esempio … In luogo del concetto generale di “essere” prendiamo per esempio la rappresentazione generale di “albero” (fa anche comodo perché echeggia il segno di De Saussure) per esprimere e precisare che cosa sia l’essenza generale di albero occorre staccarci dalla rappresentazione generale di albero e rivolgerci a particolari specie di alberi, a singoli esemplari di questa specie, è un procedimento così di per sé ovvio che quasi esitiamo a soffermarci su di esso in dettaglio, la cosa tuttavia non è così semplice, come possiamo in genere trovare questo particolare di cui tanto si parla, gli alberi singoli come tali in quanto alberi? Come possiamo in linea di massima anche solo cercare qualcosa del genere come un albero, se non abbiamo già da prima la chiara rappresentazione di quello che sia un albero in generale? (è molto platonico) se questa rappresentazione generale di albero fosse così indeterminata e confusa così che essa non potesse darci alcuna sicura indicazione nel nostro cercare e trovare, potrebbe accadere che invece di questi noi prendessimo come casi particolari determinati come esempi d’alberi delle automobili o dei conigli. Per quanto possa essere esatto che noi per determinare più da vicino i molteplici aspetti dell’essenza “albero” dobbiamo passare attraverso il particolare, permane tuttavia almeno altrettanto esatto che la elucidazione di questa multiformità e dell’essenza si attua e progredisce solo in quanto ci rappresentiamo e conosciamo in modo più originario l’essenza generale “albero” vale a dire l’essenza “pianta” che è come dire l’essenza “vitale” e “vita”. Per quanto riguarda il significato generale di “essere” si potrebbe tuttavia a buon diritto replicare che dato che esso è più generale della rappresentazione che lo concerne, non può risalire a qualcosa di più alto, nel caso del concetto più elevato e più generale il rinvio a ciò che si trova sotto di lui non costituirebbe soltanto una valida rappresentazione ma anche l’unica via per trionfare del vuoto cioè sta dicendo “non possiamo andare su perché sopra l’essere non c’è più niente, possiamo soltanto avvantaggiarci del fatto che ci sono degli essenti che lo determinano, però dice Heidegger non è così, ma ve lo racconto martedì prossimo.