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17 novembre 2021

 

Parmenide di Platone

 

Siamo ad Atene, seconda metà del V secolo a.C. Si incontrano alcuni personaggi tra cui Socrate, Zenone e Parmenide. Socrate e altri invitano Parmenide a parlare. Socrate aveva avuto prima un dialogo con Zenone intorno alla questione delle Idee e Socrate aveva avuto delle difficoltà rispetto a questa questione, perché se da una parte le Idee sono separate dalle cose allora non c’è modo di conoscere queste cose se non si mettono altre idee in mezzo, che facciano da tramite, solo che a questo punto si va avanti all’infinito; non si possono neanche pensare delle cose perché sennò sarebbero le cose a pensare; insomma, Socrate si trova in difficoltà e Parmenide dice che deve lavorare ancora sulle questioni, non è ancora abbastanza profondo, abbastanza acuto per risolvere il problema. Platone poi lo risolverà a modo suo con l’idea della reminiscenza. E, allora, chiedono a Parmenide di mostrare come si conduce una riflessione teorica. Parmenide inizia dicendo che potrebbe avviare la discussione a partire da una sua idea, quella dell’Uno e dei molti. A pag. 387. La prima ipotesi: Se l’Uno è. Partiamo da questo. Ebbene – disse Parmenide , se l’Uno è Uno, non è vero che per nessuna ragione potrà essere molti?”. “Infatti, come potrebbe?”. “allora, è necessario che non si abbia una parte dell’Uno e che esso stesso non sia un tutto”. “Perché?”. “La parte è parte di un tutto”. “Sì”. “Che cos’è un tutto? Non è forse quello a cui non manca alcuna parte?”. Quindi, se non ha parti non è neanche una figura geometrica, perché una figura geometrica è composta di parti, dice. “Ed essendo così, non sarà in alcun luogo. Non può infatti essere né in Altro da sé né in se stesso”. “Come mai?”. “Se fosse in Altro, sarebbe circondato, come un cerchio, dalla realtà in cui è, con la quale avrebbe molti punti di contatto; ma poiché è Uno, è senza parti e non partecipa del rotondo, è impossibile che abbia contatti intorno a sé in più punti”. Non è una figura, dice, e non ha punti di contatto. Parmenide qui sta mostrando come a partire da questa ipotesi che “l’Uno è” si incomincia mano a mano a vedere che non ha luogo, non ha né movimento né quiete, perché il movimento è uno spostamento da un luogo a un altro e la quiete è l’occupare un luogo, ma se non ha luogo…; quindi, non ha identità, differenze, insomma, non ha niente. Giunge, quindi, a concludere che “l’Uno che è” è niente. Questo è interessante. La prima affermazione è che “l’Uno non è i molti” vedremo poi che invece cambia il punto di partenza, quando si chiede se l’Uno ha l’essere oppure no – ma se l’Uno non è i molti, che cosa implica tutto ciò? Implica che non ha un rinvio, cioè, l’Uno, posto in questi termini, è fuori da ogni connessione, da ogni rinvio, da ogni relazione. Come dire che qualunque ente, se immaginato privo di una qualunque relazione, non è nemmeno un ente, perché se di questo non possiamo dire nulla, se non lo possiamo determinare in nessun modo, allora è niente; lo possiamo determinare solo attraverso dei rinvii. Quindi, se l’Uno non ha nessun rinvio, se è per sé, separato, allora non esiste. A pag. 391. Conclusione: l’Uno in sé non partecipa dell’Essere, non è Uno e non è conoscibile. /…/ “Allora, se l’Uno non partecipa in alcun modo di alcun tempo, non è mai divenuto, né stava divenendo, né era, e ora non è diventato, né diviene, né è, e in futuro non starà divenendo, né sarà divenuto, né sarà”. /…/ Se l’Uno è, che cosa ne consegue per l’Uno considerato in rapporto agli Altri dall’Uno. “Vuoi dunque che ricominciamo ad esaminare da capo l’ipotesi, per vedere se ci appaiano risultati diversi a un nuovo esame?”. “Lo voglio certamente”. “Dunque, se l’Uno è, diciamo che dobbiamo accettare le conseguenze che ne risultano per l’Uno, quali che siano. Non è così?”. “Sì”. “Guarda allora da capo. Se l’Uno è, è possibile che sia non partecipando dell’Essere?”. Vedete che qui è diversa la premessa. La prima volta si è chiesto se Uno non è molti; adesso chiede Se l’Uno è, è possibile che sia non partecipando dell’Essere? “Non è possibile”, risponde l’interlocutore. “Quindi, l’Essere dell’Uno sarà, anche se non sarà identico all’Uno. In caso contrario, infatti, il primo non sarebbe essere dell’Uno e l’altro, cioè l’Uno, non parteciperebbe del primo, ma sarebbe la stessa cosa dire che “l’Uno è” e che “l’Uno è Uno”. Ora invece la nostra ipotesi non è: “se l’Uno è Uno, che cosa ne consegue”, ma: “se l’Uno è”. Non è così?” /…/ Prima affermazione. “Ripetiamo di nuovo: se l’Uno è, che cosa ne risulterà? Osserva: questa ipotesi non significa necessariamente che l’Uno è tale da comportare delle parti?”. “Come dici?”. Qui l’interlocutore è Aristotele, non lo Stagirita ma un altro Aristotele, uno dei Trenta tiranni.  “In questo modo: se l’Essere si dice dell’Uno che è e l’Uno dell’Essere che è Uno, non sono la stessa cosa l’Essere e l’Uno, ma si predicano entrambi di quella realtà che abbiamo posto come ipotesi, dell’Uno-che-è. Non è allora necessario che lo stesso Uno-che-è sia un tutto, di cui siano parti l’Uno e l’Essere?”. A questo punto fa rientrare nell’Uno, ponendolo come tutto, l’Uno e l’Essere. A pag. 393. “E che? Ciascuna delle parti dell’Uno-che-è, cioè l’Uno e l’Essere, è forse separata, l’Uno dalla parte dell’Essere e l’Essere dalla parte dell’Uno?”. “Non è possibile”. Non è possibile perché fanno parte del tutto. “Di nuovo dunque ciascuna delle parti implica sia l’Uno sia l’Essere, e la parte viene ad essere costituita almeno da due parti, e così, per lo stesso ragionamento che si può ripetere sempre, ciò che diviene parte implica ogni volta queste due parti: l’Uno sempre implica l’Essere e l’Essere l’Uno. Perciò necessariamente non c’è mai l’Uno perché si sdoppia nel continuo. L’operazione che sta facendo qui Platone è mostrare come di fatto ciascuna volta, se si pone qualche cosa l’Uno o l’Essere, quel che si vuole – necessariamente dobbiamo porlo in connessione con un altro, cioè: se dico, dico necessariamente qualcosa, che è un’altra cosa rispetto a ciò che dico. Ora, qui giunge ad affermare che l’Uno è in se stesso e anche in altro. Qui fa diverse argomentazioni che non è necessario leggere; ne dirò qualcosa giusto per dare un’idea. Dice che l’Uno è in se stesso e in Altro: questa è una delle conseguenze del fatto che “l’Uno è”, e preso per sé è altro dall’Essere. Quindi, una delle conseguenze è che l’Uno è in se stesso e in Altro, cioè, è in se stesso ma anche nell’Essere. A pag. 395. “Ma che? Se è un tutto, non avrà anche inizio, mezzo e termine? O è possibile che ci sia un qualche tutto senza queste tre determinazioni? E se una di queste gli manca, potrà ancora essere un tutto?”. “Non potrà”. “Dunque, a quanto sembra, l’Uno avrà inizio, termine e mezzo”. “Così dovrebbe essere”. “Ma il mezzo è a uguale distanza dalle estremità, altrimenti non sarebbe mezzo”. “No, infatti”. “Allora, a quanto sembra, l’Uno, essendo così, parteciperà di una qualche forma, sia diritta, sia rotonda, sia mista delle due”. “Infatti, ne parteciperà”. “Ma, stando così le cose l’Uno non sarà forse sia in se stesso sia in Altro?”. Che è in se stesso lo abbiamo stabilito per principio, ma non è soltanto in se stesso, è anche in altro, è in tutto ciò di cui fa parte. Poi, con lo stesso metodo giunge a dire che l’Uno è in movimento ma anche immobile. A pag. 396. “Ciò che è sempre nello stesso luogo, è necessario che stia così sempre”. “Senz’altro”. “E allora? Ciò che è sempre in Altro, non è forse necessario, al contrario, che non sia mai nello stesso luogo? Così, non essendo mai nello stesso luogo, non potrà essere immobile e, poiché non è immobile, non dovrà forse muoversi?”. “È così”. “Dunque, necessariamente l’Uno, essendo sempre in sé e in Altro, sempre si muove e sempre è immobile”. È immobile in quanto in sé ma è sempre in movimento in quanto è in altro. Terza affermazione: l’Uno è identico e diverso sia a sé sia agli Altri. Dice a pag. 397 “Forse l’Uno è anche e simile e dissimile a se stesso e agli Altri?”. “Forse”. “Poiché s’è rivelato diverso dagli Altri, anche gli Altri saranno in qualche modo diversi dall’Uno”. /…/ “Non sarà dunque diverso dagli Altri quanto gli Altri sono diversi da esso, né di più né di meno?” /…/ “Dunque, poiché è diverso dagli Altri come gli Altri sono diversi da questo, per ciò stesso si troveranno ad avere un’identità l’Uno con gli Altri e gli Altri con l’Uno”. Questo lavoro che sta facendo sta mostrando l’impossibilità di separare l’Uno dai molti, è questa la questione centrale. Passiamo alla quinta affermazione. L’Uno è uguale e diseguale a sé e agli Altri. “Poniamo che l’Uno sia più grade o più piccolo degli Altri, o all’opposto che gli Altri siano più grandi o più piccoli dell’Uno; non è forse vero allora che non sarebbero affatto più grandi o più piccoli per la loro propria natura, cioè non per il fatto di essere l’Uno l’Uno o Altri dall’Uno gli Altri? Ma se, oltre ad essere quello che sono entrambi, possedessero l’uguaglianza, sarebbero uguali tra loro; se gli Altri avessero grandezza e l’Uno piccolezza, o anche all’opposto l’Uno avesse grandezza, gli Altri piccolezza, quell’Idea cui inerisce la grandezza non sarebbe maggiore, mentre quella a cui inerisce la piccolezza sarebbe minore?”. “Necessariamente”. “Dunque, ci sono due Idee, la grandezza e la piccolezza? Se infatti non ci fossero, né potrebbero essere contrarie fra di loro, né potrebbero ingenerarsi nelle cose che sono”. Cioè, le cose potrebbero essere grandi e piccole simultaneamente. Tutta la questione ora verte intorno al fatto che posso porre l’Uno come separato oppure in relazione. Lui ci sta dicendo con tutte queste cose, negando ciascuna volta che l’Uno possa avere a un tempo un luogo e un non luogo, che sia fermo ma anche in movimento, che sia nel tempo e fuori del tempo, ecc., ci sta dicendo che se considero l’Uno come separato è, per farla breve, immobile, non ha relazione con niente; se lo considero, invece, in relazione, allora è chiaramente in movimento. Il lavoro che sta facendo è quello di mostrare che l’Uno è necessariamente sia l’una cosa che l’altra, e cioè che non c’è l’Uno senza i molti, che qui è tradotto con Altri. Si tratterebbe di vedere la traduzione, qui non c’è il testo greco a fronte, se usa τερον oppure πολλαχς, che è il termine che Aristotele utilizza per indicare il molteplice, i molti. Stavo dicendo che ci sta mostrando che perché ciascuna cosa possa essere occorre che sia Uno e molti, che sia cioè positivo e negativo, che sia sé e altro da sé. Questo perché possa essere, perché sennò non è. Nella prima parte diceva che l’Uno non è i molti e, quindi, l’Uno è separato da tutto. È come dire che il significante lo separo dal significato: il significante è uno e il significato è molti. Se considero l’Uno, il significante, separato dai molti, cioè dal significato, il significante non significa più niente, non è propriamente, è nulla. Quindi, perché questo Uno, questo significante sia è necessario che ci siano i molti: sono i molti che lo fanno esistere in quanto uno, ma i molti a loro volta non potrebbero esistere senza l’Uno, anche perché se sono molti vuol dire che c’è l’uno, il due, il tre, ecc., che sono parti. Quindi, allo stesso tempo diviene e non diviene, perché se lo considero separato non diviene, è immobile; ma non posso considerarlo come separato. A pag. 405. Qui parla del divenire. “Dunque, per un verso, in quanto nessuna realtà diviene più vecchia o più giovane di un’altra, perché differiscono reciprocamente di una quantità costante, l’Uno non diventa né più vecchio né più giovane degli Altri, né gli Altri dell’Uno; ma per l’altro verso, in quanto necessariamente ciò che è nato prima differisce da quello che è nato dopo per una percentuale sempre diversa, e lo stesso vale per ciò che è nato dopo rispetto a ciò che è nato prima, per questo di necessità divengono reciprocamente più vecchi e più giovani, sia gli Altri rispetto all’Uno, sia l’Uno rispetto ali Altri”. “Certo”. “Secondo tutti questi ragionamenti, quindi, l’Uno è e diviene più vecchio e più giovane sia di sé sia degli Altri, e nel contempo non è né diventa più vecchio e più giovane né di sé né degli Altri”. Conseguenza: L’Uno-che-è è conoscibile. “Tuttavia, poiché l’Uno partecipa del tempo e del divenire più vecchio e più giovane, non è necessario che partecipi anche del prima, del poi, dell’adesso, se partecipa del tempo?”. “Necessario”. “Allora, l’Uno era, è e sarà, diveniva, diviene e diverrà”. “E allora?”. “E ad esso e di esso qualcosa può esserci, e c’era e c’è e ci sarà”. “Di esso, quindi, si può avere scienza, opinione e sensazione, visto che anche noi ora sviluppiamo tutte queste forme di conoscenza nei suoi confronti”. /…/ “Ed ha un nome e una definizione, ed è nominato e definito; e quanto attiene a tutti gli altri enti vale anche per l’Uno”.  Aggiunge poi una cosa interessante. “Riprendiamo l’esame per la terza volta: se l’Uno è quale abbiamo argomentato, non è necessario che, essendo sia uno e molti, sia non uno e non molti e partecipando del tempo, a volte partecipi dell’Essere perché è Uno, a volte no perché non è?”. “Necessario”. “Ma gli sarà possibile, quando partecipa, di non partecipare o, quando non partecipa, di partecipare?”. “Questo non è possibile”. “Quindi, in un momento partecipa, in un altro non partecipa: solo così può partecipare e non partecipare a una medesima realtà”. “Giusto”. “C’è dunque anche un momento in cui coglie l’Essere e uno in cui lo abbandona? Come infatti potrebbe ora averlo, ora non averlo, se non lo prende e non lo abbandona in diversi momenti?”. Qui introduce un concetto interessante, che lui chiama “istante”. Dice che tra la quiete e il movimento c’è l’istante; potremmo intendere meglio questo “istante” se lo cogliamo come simultaneità. A pag. 406. “L’istante. In verità questo sembra il significato della parola “istante”: ciò da cui partono i cambiamenti nelle due opposte direzioni. Non è infatti dall’immobilità ancora immobile, né dal movimento ancora in moto, che c’è il mutamento; ma è questo istante dalla straordinaria natura, posto in mezzo tra movimento e immobilità, e che non è in alcun tempo, ciò verso il quale e dal quale quanto si muove nella quiete e quanto è fermo muta nel movimento”. “Potrebbe essere vero”. “E l’Uno, se è immobile e se si muove, dovrà cambiare in entrambe le direzioni (solo così potrebbe realizzarle entrambe); quando cambia lo fa nell’istante e quindi non sarà in alcun tempo, né si muoverà, né starà fermo. Dice che questo ente né si muove né sta fermo. È la simultaneità. Che cosa ci dice la simultaneità? Che il movimento e la quiete sono simultanei, sono lo stesso, sono due momenti dello stesso, dirà poi Hegel. Ma qui è già anticipato, e forse anche meglio. “Per lo stesso ragionamento quando passa dall’Uno ai molti e dai molti all’Uno, non è né uno né molti, né si divide né si riunifica. E nel passare dal simile al dissimile e dal dissimile al simile, non è né simile né dissimile, né si assimila né si diversifica. E quando da piccolo diviene grande e uguale, e viceversa, non è né piccolo, né grande, né uguale, e non aumenta, né diminuisce, né eguaglia”. “Sembra di no”. “Tutto questo l’Uno dovrebbe subire, se è”. Sta indicando, di fatto, la relazione, dove i due elementi non sono più quelli prima; non sono né più grandi né più piccoli, sono la relazione, potremmo dire l’istante, sono quella simultaneità che è la relazione, per cui questi due elementi, di fatto, nella relazione diventano altro, non sono più quelli di prima, sono un’altra cosa. A pag. 408. “Dunque, ogni volta che consideriamo in se stessa la realtà diversa dall’Idea, quale che sia la parte esaminata, sempre la troveremo essere una molteplicità infinita?”. Quando considero una qualunque cosa mi trovo preso in una molteplicità infinita. Considero l’Uno? Bene, lo prendo in considerazione e questo Uno diventa una molteplicità infinita, solo perché l’ho preso in considerazione. Ma non posso in un certo qual modo non prenderlo in considerazione: se lo penso lo sto prendendo in considerazione e, quindi, è già nella relazione di cui parlava prima, è già nella simultaneità con il suo opposto, cioè, con il molteplice. Abbiamo visto finora “l’Uno che è”; adesso considera “l’Uno che non è”. A pag. 410. Se l’Uno non è (in senso assoluto), che cosa ne consegue per l’Uno considerato in rapporto agli Altri dall’Uno. Inoltre l’Uno-che-non-è partecipa anche di varie determinazioni: del “di quello”, del “di qualcosa”, del “di questo”, “a questo”, “di questi”, e di tutte le altre simili. Anche “l’Uno che non è” devo pensarlo, quindi, devo dirne qualche cosa, devo determinarlo. In caso contrario non si potrebbe parlare dell’Uno, né delle realtà diverse dall’Uno, e nulla sarebbe “a questo” o “di questo” Uno, e non si potrebbe dire qualcosa, se non partecipasse del “qualcosa” e di quelle altre determinazioni. Se dico, dico qualcosa. Poi, si chiede se l’Uno-che-non-è è simile o dissimile e giunge a concludere che è necessariamente simile e dissimile. Partecipa dell’uguaglianza, della grandezza e della piccolezza, ecc. ecc. A pag. 412. “L’Uno deve essere così come stiamo dicendo; se non fosse così non diremmo la verità dicendo che l’Uno non è; se invece diciamo la verità è chiaro che diciamo come sono le cose. L’Uno come stiamo dicendo: se l’Uno è, è chiaro che lo determino, ma anche se l’Uno non è, se parto da questa idea che l’Uno non sia, in ogni caso è sempre un qualche cosa, perché ne sto parlando, lo sto determinando. E qui c’è già in Platone la verità come ρθότης (orthotes). “Allora, l’Uno, per non essere, deve avere, come legame al Non essere, l’essere del Non essere… È qualche cosa, per es. non-Uno. …così come ciò che è, per essere compiutamente, deve avere il non essere del Non essere. Così ciò che è sarà in modo pieno e ciò che non è non sarà: ciò che è, se deve compiutamente essere, partecipa all’essere dell’Essere che non è; ciò che non è, se anch’esso deve compiutamente non essere, partecipa al non essere del Non essere che non è, e all’essere dell’Essere che non è. È esattamente quello che dice Severino rispetto all’essere: l’essere è essere in quanto non è non-essere; tuttavia ha bisogno del non-essere per potere essere. È questo che sfugge a Severino: se tolgo il non-essere, come vorrebbe fare lui, tolgo anche l’essere. A pag. 413. L’Uno non ha nessuna determinazione. “Torniamo dunque da capo per vedere nuovamente se le cose ci appariranno come sono apparse ora o in modo diverso”. “Dunque diciamo, se l’Uno non è, che conseguenze gliene vengono?” /…/ “Quando diciamo che non è, forse significhiamo qualcosa d’altro se non l’assenza d’Essere di ciò che diciamo che non è?” “Null’altro”. “Forse che quando diciamo che qualcosa non è, diciamo che in un certo senso non è, in un altro senso è? Oppure questa espressione “che non è “significa in senso assoluto che ciò che non è in nessun modo e in nessun senso è e da nessun punto di vista può partecipare all’Essere?”. “In modo assoluto”. “Allora, ciò che non è non potrà essere né potrà partecipare in nessun altro modo dell’Essere”. “No, infatti”. “Il nascere e il perire non sono altro che il cogliere e il perdere l’Essere”. “Nient’altro”. “Ma ciò che non ha nulla dell’Essere, non può né coglierlo né perderlo”. “Come infatti potrebbe?”. “L’Uno allora, poiché non è affatto, non potrà né avere né perdere né partecipare in nessun modo dell’Essere”. “È verosimile”. “Allora, l’Uno-che-non-è né perisce, né nasce, visto che non partecipa in nessun modo dell’Essere”. “Appare di no”. “Né si modifica in alcun modo /…/ “Né diremo che sia in quiete ciò che non è in alcun luogo… E conclude: “Così l’Uno-che-non-è non ha in alcun modo alcuna determinazione” /…/ “Diciamo di nuovo: se l’Uno non è, quali affezioni subiranno gli Altri?”. “In qualche modo devono essere Altri; se infatti non fossero Altri, non potremmo parlare degli Altri”. Qui ci sta mostrando come senza l’Uno non ci sono gli Altri e che senza gli Altri non c’è l’Uno. “Visto che il ragionamento verte sugli Altri, questi sono diversi. Non indichi la stessa cosa quando usi “altro” e “diverso”?”. “Forse che non diciamo che il diverso è diverso da un diverso e che l’Altro è altro da un Altro” /…/ “Essi quindi sono reciprocamente altri come pluralità rispetto a una pluralità. Sono molti rispetto a molti. Non è infatti possibile che lo siano come unità rispetto a un’unità, poiché l’Uno non è.  Questo era il principio da cui era partito: l’Uno non è. Ma ciascuno a quanto sembra, preso come insieme è una molteplicità infinita: anche se si prende quello più piccolo possibile, immediatamente, per il continuo sminuzzarsi in parti, da Uno che sembrava si rivela molteplice e da piccolissimo un tutto enorme, come un oggetto sognato dormendo”. “Giustissimo”. “Dunque, gli Altri saranno reciprocamente altri in rapporto a tali insiemi, se sono Altri pur non essendoci l’Uno”. “È certamente così”. “Dunque, vi saranno molti insiemi, ognuno dei quali apparirà Uno, ma non lo sarà, dato che l’Uno non è?”. “È così”. “E sembreranno avere numero, visto che ciascuno di loro sembrerà Uno, pur essendo molti”. “Senza dubbio”.  “E il pari e il dispari ci appariranno in loro, ma non vi saranno davvero, poiché l’Uno non è”. “E aggiungiamo, sembrerà essere in questi anche l’infinitamente piccolo, che però apparirà molteplice e grande rispetto a ciascuno dei molti che sono piccoli”. “Come no!” “E ciascun insieme apparirà uguale a questi molti e piccoli: non potrebbe infatti passare dall’apparire più grande all’apparire più piccolo prima di sembrare raggiungere il punto intermedio, che sarà il simulacro di uguaglianza”. “Sembra”. “Dunque, ci sembrerà anche che ogni insieme abbia un limite rispetto agli altri, anche se in sé non ha né inizio, né termine, né mezzo?”. “Perché?”. “Perché sempre, quando si coglie con la mente qualcuno di questi insiemi, come un insieme che è, prima dell’inizio appare sempre un altro inizio, dopo il termine rimane sempre un altro termine, nel mezzo altre parti più centrali del mezzo e più piccole, questo perché non è possibile prendere ciascuno di questi come Uno, in quanto l’Uno non c’è”. “Verissimo”. “Così è necessario, io credo, che frantumandosi si polverizzi progressivamente l’Essere che è colto con il pensiero: infatti sarà sempre come se prendessimo un insieme privo di unità”. Perché l’Uno non c’è. “In queste condizioni non è forse necessario che ogni insieme appaia Uno ad un esame da lontano e superficiale, mentre da vicino e ad una riflessione approfondita apparirà infinita molteplicità, poiché manca dell’Uno-che-non-è?”. “Così, se l’Uno non è mentre gli Altri dall’Uno sono, questi dovranno apparire in ciascun insieme illimitati e limitati, uno e molti”. Se non c’è l’Uno non c’è un limite. A pag. 416. “Ancora una volta torniamo all’inizio per dire che cosa deve risultare se l’Uno non è mentre gli Altri dall’Uno sono”. “Dunque, gli Altri non saranno Uno”. “Ma nemmeno molti: in quelli che sono molti, deve esserci anche l’Uno. Se infatti nessuno di questi è Uno, il totale è niente, e quindi non sono nemmeno molti”. Se non c’è l’Uno non ci sono i molti. “Se quindi l’Uno non è negli Altri, gli Altri non sono né molti né uno”. “E nemmeno appaiono uno e molti”. “perché gli Altri non possono avere con nessuna delle cose che non sono alcuna comunanza, in nessun caso e in nessun modo, né qualcuna delle cose che non sono è in qualcuno degli Altri: infatti ciò che non è non ha nessuna parte”. “Allora, gli Altri non hanno opinione, o simulacro, su ciò che non è e ciò che non è sarà in nessun caso e in nessun modo oggetto di opinione degli Altri”. “Se dunque l’Uno non è, non si può opinare qualcosa degli Altri né come uno né come molti: senza l’Uno è impossibile avere un’opinione sui molti”. “Allora, se l’Uno non è, gli Altri non sono né uno né molti, e non sono oggetto di opinione, né come uno né come molti”. Conclude “Diciamo dunque ciò e inoltre che, a quel che sembra, tanto se l’Uno è quanto se l’Uno non è, sia l’Uno sia gli Altri, da tutti i punti di vista, sono e non sono, appaiono e non appaiono, e in rapporto a sé medesimi, e nel rapporto reciproco tra loro”. Non è determinante vedere tutti i passaggi che fa Platone. Certo, sono divertenti e a volte funambolici, ma com’è che fa queste operazioni? Fa come fanno tutti, cioè, prende una premessa e la considera prendendo alcuni aspetti tralasciandone altri. Lo abbiamo visto all’inizio: prima ha considerato che l’Uno non è i molti; poi, invece, non l’ha più posta così, ma ha considerato se l’Uno ha l’Essere oppure no, e ce l’ha perché se è Uno è qualcosa. Quindi, della premessa prende soltanto un aspetto per trarne tutte le possibili implicazioni. Ma c’è una questione più importante. Ciò che qui Platone sta facendo, anche se la cosa lo infastidisce, è che è impossibile considerare l’Uno se non ci sono i molti: è impossibile che qualcosa esista se non è in relazione ad altro. Questo è un problema e adesso vi dico perché. Considerate il principio di non contraddizione di Aristotele, che si può formalizzare con il solito sistema: non (A e non-A). Perché questa cosa funzioni occorre che A sia assolutamente A, che non sia altro da che ciò che è. Ma cosa dicono gli eleati? Dicono che A è A in quanto è in relazione ad altro, che la A non esiste se non c’è questa relazione con altro; quindi, è sempre altro per essere A, per essere A deve essere altro. E, allora, se io dico A e non-A, questa non-A nega che cosa esattamente? La prima A? Ma la prima A non è identica a sé, non è determinabile in modo assoluto. Se non è determinabile in modo assoluto, allora il principio di non contraddizione fallisce. Questa è la critica più letale che si può fare al principio di non contraddizione, perché il non-A che dovrebbe negare A, di fatto, non si sa che cosa esattamente stia negando, se la A è A in quanto è altro. Qui sta tutta la potenza del pensiero degli eleati. Aristotele fa la sua confutazione rispetto ai negatori del principio di non contraddizione mostrando che non possono negarlo se non utilizzandolo. È vero, certo, ma un conto è il principio di non contraddizione utilizzato retoricamente, argomentativamente, altro è attribuirgli un valore veritativo. Il principio di non contraddizione, come argomentazione retorica, va di pari passo con l’analogia. L’analogia è una somiglianza; perché una cosa sia simile a un’altra occorre che queste cose siano determinate, che siano pensate essere quelle che sono. Se, invece, come dicono gli eleati, questa cosa è quella che è per via del fatto che non è quella che è, allora anche l’analogia vacilla. Potremmo dire che l’analogia e il principio di non contraddizione sono le due figure retoriche per eccellenza. Quindi, il principio di non contraddizione è una figura retorica, utile e necessaria per argomentare, ma non ha nessuna validità veritativa. Questo ci porta a considerare che ciò che ha fatto Parmenide è stato di cogliere la questione centrale, tutto il resto sono orpelli, tutto ciò che è seguito a Parmenide, agli eleati potremmo dire, sono rimaneggiamenti, rimasticamenti, oppure, come vedremo leggendo il Commentario a Parmenide di Porfirio, sono il tentativo riuscito di cancellazione totale del pensiero. Porfirio e il neoplatonismo hanno compiuto questa operazione: hanno cancellato per sempre il pensiero degli eleati, che aveva questa potenza inaudita che mostrava come l’Uno e il non-Uno sono la stessa cosa, l’Uno e i molti sono la stessa identica cosa; sono distinti, certo, ne parlo in modo distinto, ma non c’è l’uno senza l’altro. È questo che ci stava dicendo Parmenide attraverso Platone: se tolgo i molti tolgo anche l’Uno, e se tolgo l’Uno tolgo i molti; non possono esistere da soli, in nessun modo. Cosa che, invece, dal neoplatonismo in poi è stato compiuto, compiendo, come dicevo prima, la totale cancellazione del pensiero. È curioso che questo dialogo e altri, come il Sofista, siano considerati dialoghi aporetici, che non giungono cioè a una soluzione. Quale soluzione? La soluzione qui sarebbe dovuta essere quella di parteggiare o per l’una cosa o per l’altra, per l’uno o per i molti, come avverrà in seguito. È in questo senso, quindi, che sono dialoghi aporetici, ma non lo sono affatto se si considera, invece, questa come la conclusione inevitabile, come ciò che necessariamente è, e allora non sono aporetici per nulla, anzi, sono assertivi: l’uno è i molti. È aporetico se uno si immagina che uno debba prendere la supremazia rispetto all’altro, se si debba decidere fra i due l’uno o i molti? – oppure lasciarli entrambi separati, come fa il neoplatonismo. Il neoplatonismo ha avviato, lo vedremo con Plotino, la cancellazione del pensiero per sempre. Questo naturalmente ha avuto degli effetti. È chiaro che tenendo conto, parlando, pensando, di una cosa del genere è arduo; questo lo sapevano gli eleati. La critica che si fa agli eleati per cui non si può più dire nulla è una stupidaggine. Non è così, gli eleati hanno mostrato in modo chiaro e inequivocabile che cosa accade quando parliamo e quando pensiamo. Un po’ come la storia di Achille e la tartaruga: Zenone vede che la Achille sorpassa la tartaruga, ma non è questo il punto. La questione è che Achille sorpassa la tartaruga ma non la sorpassa, inesorabilmente: per sorpassarla non deve sorpassarla. Per sorpassarla deve compiere tutte queste operazioni che sappiamo e, quindi, per sorpassarla non la può sorpassare. È questo che comporta il tenere conto del linguaggio mentre si parla, mentre si pensa, e cioè che ciascun atto di parola è ciò che è a condizione del fatto di non essere ciò che è. È ovvio che non si può costruire nulla su questo e, in effetti, il linguaggio, perdonate l’antropomorfismo, lo sa, per cui parlando facciamo come se questa cosa sia quella che è, perché sennò non la possiamo usare. Questo lo sa bene la volontà di potenza, che deve necessariamente determinare qualche cosa per poterla usare. Gli eleati dicevano, sì, certo, lo determini, ma questo determinare determina propriamente la sua indeterminabilità. Questa è la storia dell’Uno e dei molti. Leggo qui: “allora, se l’Uno non è, gli Altri non sono né Uno né molti”, cioè, i molti non sono pensabili se non c’è l’Uno, non posso pensarli. Come faccio a pensare i molti se non c’è l’Uno? I molti, come dicevano i pitagorici, sono molti uno e, quindi, senza l’uno scompaiono anche loro. Mercoledì prossimo leggeremo questo testo di Porfirio, il Commentario a Parmenide, che ha subito una vicenda strana. È stato trovato nella seconda metà dell’800 per caso in una biblioteca dentro un evangelario. Era in greco, ovviamente, e poi si sono accorti che dal tipo di scrittura, ecc., potevano fare risalire il testo al IV-V secolo dopo Cristo e facendo una serie di considerazioni si è trovato che questo testo era il Commentario a Parmenide di Porfirio. Il luogo in cui fu trovato era Bobbio, un paesello nella provincia di Torino; poi, la biblioteca di Torino in cui era stato portato prese fuoco nei primi anni del’900 distruggendo tutto, ma fortunatamente il manoscritto si salvò perché fortunatamente era già stato trascritto. È interessante in questo testo l’approccio di Porfirio a Parmenide perché indica il modo in cui il pensiero è stato liquidato, quale è stata la via che Porfirio ha utilizzato per neutralizzare Parmenide.