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17 ottobre 2018

 

La struttura originaria di E. Severino

 

Siamo arrivati a pag. 181, capitolo 10, Significato concreto dell’identità. a) Sia il soggetto, sia il predicato della proposizione: “L’essere è essere” non sono semplici momenti noetici, dei quali il giudizio, espresso da quella proposizione, sia sintesi; ma sono il giudizio, l’identità stessa nel suo esser posta. La noesi sarebbe il cogliere qualcosa, il puro porre qualche cosa; la dianoesi è l’atto non solo del percepire l’atto ma l’atto discorsivo, l’accogliere attraverso un giudizio. Potremmo dire che l’atto noetico sarebbe l’astratto, che individuo ogni volta che l’astraggo dal concreto, mentre il momento dianoetico il concreto, quello che effettivamente mi appare ma mi appare dialetticamente all’interno di un discorso, di un progetto, come direbbe Heidegger. Che il soggetto e il predicato del giudizio abbiano essi stessi valore apofantico, deve essere affermato relativamente a ogni giudizio. Apofantico vuol dire il giudizio che è o vero o falso, quindi, un giudizio su qualche cosa che già presuppone e prevede un valore di questa cosa; mentre nella noesi e nella dianoesi non c’è necessariamente un giudizio: l’uno sarebbe l’astrarre, cioè la lampada; l’altro, quello dianoetico, sarebbe il cogliere questa lampada che è sul tavolo; apofansi (πόφανσις) è un enunciato dichiarativo. Il teorema che qui dunque si intende chiarire è che l’identità concreta dell’essere con se stesso non è identità dell’essere, inteso come momento noetico… Cioè, astratto. …con l‘essere, daccapo inteso come momento noetico: l’identità concreta non è una siffatta identità sia che la noesi (che entra appunto a costituire l’identità siffattamente concepita) venga astrattamente concepita, sia che si pretenda di concepirla concretamente: l’identità concreta è invece identità dell’essere, che è già esso identità di sé con sé, con l’essere che, daccapo, è già esso questa identità. Qui non dice niente che non abbia già detto, in effetti. A pag. 182. Si è già constatato nel paragrafo precedente che se il soggetto e il predicato sono presupposti all’identità (che è appunto la loro identità), essi si costituiscono come un’alterità, per la quale si dovrà affermare che l’essere (soggetto) non è l’essere (predicato). Quando li isolo da questa relazione allora, come dice giustamente, diventano contraddittori. In quanto l’essere (soggetto) e l’essere (predicato) sono presupposti alla loro identità… Quindi isolati, presupposti, cioè, c’è prima la lampada e poi c’è il tavolo e dopo ci sarebbe questa lampada che è sul tavolo, mentre per Severino è esattamente il contrario. …essi sono manifestamente presupposti come momenti noetici… Cioè, isolati. …stante appunto che la dianoesi è ciò rispetto cui essi sono presupposti. Il concreto, il non isolato, è ciò che consente l’isolamento, perché è sempre a partire da questa relazione – ricordate la formula A=A – è a partire da questa relazione che posso astrarre le due A presenti nella formula, perché sono in questa relazione, che è il concreto. Io astraggo una A e, allora, una diventa il soggetto e l’altra il predicato. Ed ecco la situazione logica che a questo punto è importante rilevare: si può affermare che “l’essere è essere”, solo in quanto l’essere, che vale come soggetto di questa proposizione, è visto (=posto) appunto come l’essere che è essere; e in quanto l’essere, che vale come predicato, è visto appunto come predicato, e cioè, daccapo, come essere dell’essere. Ciò significa che sia il soggetto, come il predicato in questione, non hanno semplice valore noetico, ma sono già essi, come tali, realizzazione dell’apofansi, ossia dell’identità. Sta dicendo che se non li separiamo, l’essere come soggetto e l’essere come predicato, allora questi due elementi sono lo stesso, sono il medesimo, e a questo punto dire che uno è il soggetto e l’altro il predicato non significa più niente perché, comunque, sono esattamente la stessa cosa. Questo è il suo modo di affrontare la questione dell’identità. Poi, c’è una nota, dove dice Per altro verso: se la noesi è astrattamente separata dalla dianoesi, ciò che è posto non è l’essere: appunto perché l’essere è, per essenza, ciò che è se stesso. Quindi, non posso isolarlo da qualche cosa, è se stesso, non posso farlo a pezzettini. Porre l’essere e non porre la sua identità con sé, significa non porre l’essere:… Questo è fondamentale. Se pongo l’essere, dice Severino, lo pongo necessariamente come identico a sé. …appunto perché l’essere è identità con sé. La contraddizione qui, è data da questo: che ciò che si intende porre come essere non è essere. Se io immagino che questo essere non sia identico a sé, allora ciò che pongo come essere non è essere, è un’altra cosa, perché se non è se stesso è un’altra cosa e, quindi, non sto ponendo l’essere. Andiamo a pag. 190. È interessante sottolineare che, dunque, il concetto astratto dell’astratto… Quello che immagina che la lampada sia separata. …si produce, in questo caso, in quanto si vuol dare un concetto concreto dell’astratto, che assuma come contenuto astratto sia il soggetto sia il predicato di (E’=E”)=(E”=E’), ossia in quanto si vuol concepire (concretamente) come un momento astratto sia il soggetto sia il predicato di quella equazione. Il concetto dell’astratto dell’astratto, dice, si produce voglio porre qualche cosa, che ho astratto dal concreto, immaginando che quello sia un tutto e, quindi, ponendolo come un concreto. Cosa che per Severino non è possibile, perché il concreto è l’impossibilità di separare un elemento da un altro con cui è in relazione. Il concreto è la relazione, la cosa unica è l’astratto, che appunto viene astratta dal concreto. Dice …si vuol concepire (concretamente) come un momento astratto sia il soggetto sia il predicato di quell’equazione. Pertanto: se E’=E” è astrattamente separato da E”=E’ – o E’ da E” – … Questo lo scrive solo per visualizzare che io astraggo la prima parentesi dalla relazione con la seconda… se non metto a seconda parentesi, allora diventano due cose effettivamente separate. È un po’ come il soggetto e il predicato: li ho isolati e, quindi, non sono più all’interno di una relazione. Se invece si vuole concepire concretamente l’astratto, ma in modo che, assunto E’=E” come concretamente distinto dal concreto, si intenda assumere anche E”=E’ come concretamente distinto dal concreto, l’eliminazione della differenza tra E’=E” e E”=E’ importa addirittura che la posizione di questo “secondo” termine non sia altro che la ripetizione del “primo”. Si badi che, in questo secondo caso, si produce il concetto astratto solo qualora si intenda che la posizione di E’=E” e la posizione di E”=E’, come significati rispettivamente distinti dal concreto, esauriscono l’analisi del concreto, sì che questa consista nella posizione di quei due significati distinti. Operare questa distinzione significa togliere l’astratto dal concreto e, quindi, farne un astratto dell’astratto, cioè, come dice lui, un pensiero che prende la lampada completamente avulsa e astratta da questa lampada che è sul tavolo. A pag. 191, capitolo 12, Aporia e soluzione. Le considerazioni svolte nel paragrafo precedente rendono possibile la soluzione di un’aporia che è probabilmente tra le più insidiose che siano provocate dalla comprensione astratta del principio di identità. Comprensione astratta del principio di identità: cosa vuol dire? Riprendiamo l’esempio della lampada sul tavolo. Voglio fissare l’identità di questa lampada. Per Severino l’identità non è mai data da qualcosa che è astratta dal concreto ma osso trovarla solo all’interno del concreto. È per questo motivo che fa tutte quelle formule, perché l’identità, secondo lui, va ricercata nel concreto e mai nell’astratto. Se io la cerco nell’astratto, isolata dal concreto, mi trovo in una contraddizione, come dire che questa cosa non è questa cosa. tenendo appunto fermo che, per affermare che l’essere è essere, è necessario distinguere l’essere dall’essere, si conclude rilevano che la distinzione contraddice l’identità affermata; ossia daccapo, per affermare l’identità è necessario negare l’incontraddittorietà dell’essere. E, quindi, dire che l’essere è altro da sé; se nego l’incontraddittorietà diventa autocontraddittorio, cioè afferma di sé di essere e di non essere. Si badi che questa aporia è nuova, rispetto a quella formulata all’inizio del paragrafo 9, perché ora la noesi – che può essere intesa sia come E’ sia come E’=E” – non è astrattamente presupposta all’identità… Come si diceva prima, si presuppone l’astratto al concreto e, quindi, lo si analizza in quanto tale, in quanto isolato. …sì che la distinzione, e quindi la contraddizione che si produce, appare come la distinzione richiesta dalla formulazione stessa dell’identità concretamente concepita. Dice: qua ci si potrebbe confondere, perché questa identità di E’ non viene presupposta all’identità generale e perciò potrebbe essere intesa come qualcosa di concreto: se non viene presupposta allora vuol dire che viene presa all’interno di un contesto. Diciamo che l’aporia è del tutto valida qualora si intenda che l’analisi dell’identità si risolve in due semplici momenti distinti;… Cosa che per lui è complicata perché non può risolversi in due momenti distinti, deve essere il concreto, deve essere la relazione. Aveva fatto quel discorso dell’identità: per stabilire l’identità non mi basta scrivere A=B ma devo scrivere (A=B)=(B=A), solo a questo punto ho stabilito un’identità, cioè dico che il soggetto e il predicato sono il medesimo. È questa la condizione per stabilire l’identità, non affermare l’identità, che non significa nulla: dire che la lampada è la lampada non significa nulla. …qualora cioè il soggetto e il predicato dell’identità siano assunti come determinazioni distinte dall’identità stessa. Come quando A e B vengono posti come isolati. Appunto in questo modo il Gentile, nella sua Logica, concepisce l’analisi della proposizione A=A come risolventesi in A, A. Secondo Severino, questa è la posizione di Gentile: A, A… una ripetizione della A. si osservi che ciò che in questa situazione logica presenta difficoltà è proprio ciò che per il Gentile sta innanzi come qualcosa di facilmente afferrabile: la differenza dell’identico. Se io voglio stabilire un’identità è perché c’è una differenza e Gentile la risolve così. Poi, vedremo. Infatti, che l’essere sia essere, ossia che l’essere non sia distinto da sé, questo è il lato più facilmente rilevabile della questione, una volta che soggetto e predicato non siano presupposti all’identità. Se io presuppongo nella formula il soggetto e il predicato allora mi trovo nella mala parata, perché sono costretto ad ammettere che una cosa è quella che è ma anche il contrario. Da qui, come dicevamo prima tutto il suo discorso su (A=B)=(B=A), cioè la relazione. Questo lo diceva anche Greimas, anche se in un modo un po’ diverso: quando due elementi, A e B, sono in relazione, la relazione è il terzo elemento; da quel momento non ci sono più A e B ma c’è una relazione, che è primaria rispetto agli altri due elementi. Ma – e qui è la vera difficoltà – in che consiste la differenza, che d’altra parte è necessariamente richiesta dal costituirsi stesso dell’identità? L’identità non può farsi senza una differenza. Perché è identico? Perché non è differente. Quindi, siamo sempre al discorso originario e fondamentale di Severino: l’essere non è non essere perché il non essere lo tolgo; ma devo porlo perché, se non lo pongo, allora non c’è questo non essere, in quanto tolto, e l’essere non è più in grado di dire di se stesso di non essere non essere, quindi, può essere se stesso e anche altro. Questa è l’operazione che Severino fa in tutto il libro, e qui sta facendo un po’ la stessa cosa dicendo che l’identità comprende la differenza, è lo stesso discorso: pongo la differenza ma poi la tolgo dall’identità, e quindi non è differente da sé. A e A sono assolutamente il medesimo. Ma poiché, nonostante l’impossibilità di affermare una differenza tra A e A, una differenza immanente all’identità deve pur essere ammessa affinché l’identità sia tale… Devo ammettere una differenza perché sennò l’identità è identità rispetto a che? …segue che la differenza, che si deve riconoscere immanente all’identità, vien lasciata semplicemente accanto all’identità, in opposizione con questa (in quanto questa è assolutamente escludente la differenza) … Come dicevamo prima, devo escluderla, deve essere lì come il non essere rispetto all’essere: deve esserci in quanto tolto. Stando così le cose, proposizioni come: “A è A in quanto ciascuno di questi due termini è diverso dall’altro, ma identico all’altro”, “deve essere diverso ma per essergli identico”… Qui sta ancora citando Gentile. …tali proposizioni non sono che ‘esplicitazione della contraddizione, e niente affatto la soluzione dell’aporia. Secondo Severino il problema qui non si risolve. In effetti, per Gentile, non ponendo la questione come Severino, dice soltanto che A è A. Per Severino, invece, non sono propriamente il medesimo perché uno è una cosa e l’altro è un’altra, sono due. La cosa interessante in Severino è che, se non si pone la relazione tra i due, che interviene come un qualche cosa che rende un uno questi due elementi, in effetti, non si riesce a dire che queste due cose sono identiche, perché rimangono differenti e, quindi, c’è sempre questa differenza attaccata all’identità, per cui è identico ma anche differente. La differenza in questo caso non si può togliere; soltanto la relazione può farlo. La relazione è una, è qualcosa di molto prossimo a ciò che lui chiama il concreto: Questa lampada che è sul tavolo: c’è questa relazione tra lampada e il tavolo che rende la lampada e il tavolo non due cose, non le posso astrarre, è il concreto, il dianoetico, ciò da cui parto, dal tutto, da ciò che Heidegger chiama il mondo. Non ci sono prima le cose che compongono il mondo, il mondo è già fatto di tutte queste cose, ed è proprio perché c’è il mondo che posso accorgermi di queste cose. Tutto ciò ha delle implicazioni interessanti, che vedremo più avanti. Dunque, questa cosa che fa Gentile, dice, non risolve l’aporia, semplicemente la illustra ma non va oltre. E, quindi, riferendosi alla soluzione dell’aporia, dice: La quale (aporia) si risolve nel modo già indicato nel paragrafo precedente: la distinzione implicata dalla proposizione: “L’essere è essere” è la distinzione tra l’astratto e il concreto, e non – come vorrebbe il discorso aporetico – tra l’essere e l’essere, intesi entrambi come momenti astratti. Questa è la soluzione di Severino: non sono due momenti astratti, perché sennò abbiamo la contraddizione: l’essere è una cosa e l’essere è un’altra; come è possibile questo? No, dice Severino, “l’essere è essere”, questa proposizione che mette tra virgolette, è la distinzione tra l’astratto e il concreto; cioè, tra l’essere e essere come il tutto, la relazione, il concreto, è l’astratto che individua due momenti del concreto, li individua come astratti, certo, ma sono astratti in quanto inseriti nel concreto. Quindi, non sono due cose a se stanti, sono soltanto modi diversi di intendere la cosa. Questa lampada che è sul tavolo, il concreto, comporta un astratto, che è la lampada. Certo, posso considerarla la lampada, ma questo non si oppone al concreto, perché posso dire che questa lampada è l’astratto per via del concreto, che me l’ha mostrata in quanto lampada sul tavolo. Qui siamo sempre insieme con Heidegger. Conclude dicendo: Se identità è intesa come identità di momenti astratti, non si può non affermare che la condizione dell’identità è la contraddizione, stante che la differenza, richiesta dal costituirsi dell’identità, non può essere riferita che all’identico in quanto tale. Dice che se l’identità è intesa come identità di momenti astratti e non come il concreto, allora c’è contraddizione. Se isolo la lampada da “questa lampada che è sul tavolo” mi ritrovo una lampada che non è una lampada. Siamo a pag. 197. Capitolo 16, Nota sull’esito dell’assunzione astratta dei due aspetti del principio. I due aspetti sopra rilevati sono i momenti astratti di una concretezza che è la loro stessa relazione. Pensate ad A e B della formula (A=B)=(B=A). Questi sono i momenti astratti di un concreto, sono i termini di una relazione. Il problema, dice Severino, è che non possono essere isolati dalla relazione. È la relazione che li fa sussistere in quanto tali; una volta isolati, succede il pandemonio. Se, considerando l’incontraddittorietà dell’essere immediato, si crede di poter progettare la contraddittorietà di ciò che non appartiene all’immediato, significa che l’incontraddittorietà dell’immediato non è tenuta in relazione all’incontraddittorietà dell’essere – significa cioè che l‘immediato non è colto come essere. L’immediato, dice, è l’essere e, quindi, se io immagino che l’immediato sia una cosa e l’essere sia un’altra, allora non mi trovo più di fronte all’incontraddittorietà dell’essere ma alla sua contraddittorietà, perché in questo caso l’essere sarebbe mediato dall’immediatezza. Donde segue che, contrariamente all’assunto, non si è nemmeno in grado di escludere il non essere dell’immediato. Perché a questo punto se l’immediato è separato dall’essere potrebbe anche non essere immediato, quindi, essere mediato e, pertanto, non essere sé. Nella misura in cui, invece, l’essere è colto nell’immediato… L’essere non può essere mediato da qualcosa; questo lo sapeva già Parmenide: se l’essere viene da qualche altra cosa, allora ha un’origine, e vuole dire che prima non era, e se prima non era com’è che a un certo punto è? Da dove arriva? Vuole dire che qualche cosa lo ha fatto essere quello che è, quindi, c’è un qualche cosa che precede l’essere, che ne è la condizione. Nella misura in cui, invece, l’essere è colto nell’immediato, il progetto della contraddittorietà di un essere che non appartenga all’immediato è immediatamente tolto. Se l’essere è immediato, è chiaro che non c’è nulla che lo media e, quindi, è incontraddittorio; come direbbe Severino, e lo dirà più avanti, è eterno, per cui non viene da qualche cosa e non può cessare di essere quello che è. Quindi, non viene da una cosa e non va verso un’altra e, pertanto, è sempre. Ecco perché dice che è eterno. Non riguarda soltanto il fatto di una durata infinita nel tempo ma con eterno sta dicendo che non ha origine e non ha fine, perché non può, se è essere, non essere in eterno quello che è. Se invece ciò che si considera isolatamente è l’incontraddittorietà dell’essere – se cioè l’essere non è colto come essere immediato, ma è tenuto fermo come puro essere (posizione parmenidea), l’affermazione dell’essere non ha più alcun contenuto (“nulla è”, diceva Gorgia): e pertanto l’incontraddittorietà non può essere affermata perché non sussiste il contenuto incontraddittorio. Se nulla è non è neanche l’essere, e quindi non c’è nessuna contraddizione né incontraddizione, non c’è nulla e il discorso è bell’e chiuso.

Intervento: Se nulla è, l’essere esiste…

Mi aspettavo questa considerazione ma questa considerazione ci porterà a una questione, che Severino affronterà. Non esiste una cosa che lui non affronti. In effetti, occorre distinguere tra la forma dell’affermazione e il contenuto di quell’affermazione. Questo lo affronterà quando parlerà del nulla. È una questione antica: il nulla è qualche cosa? Se ne sto parlando è qualche cosa, ma di che cosa sto parlando? Di nulla. La posizione di Severino è che il nulla è qualche cosa è una proposizione che significa qualcosa, ma cosa significa? Significa che il nulla è, che è nulla. Questo è il contenuto. Lui distingue tra forma e contenuto, in modo da risolvere il problema antico del nulla che è o non è. Andiamo a pag. 199. Il concetto concreto, pur guardando alla sinteticità del principio, la tiene in relazione all’analiticità di questo. il concetto astratto rompe la relazione e tien fermo il momento astratto come l’intero del valore. A pag. 201, Nota 19. Dire che l’essere formale ha lo stesso valore semantico sia in quanto è in relazione con la determinazione astratta, che con la determinazione concreta; sia in quanto è in relazione con la totalità della determinazione, che con un momento di questa totalità; significa mettere in risalto quell’aspetto di univocità che l’analogicità dell’essere pur contiene per quel tanto che l’essere è predicato secundum rationem eandem. In altri termini: se “ente” è la sintesi tra l’essere (formale) e la determinazione, concetto analogo è quello di ente, non quello di essere (che è univoco). (Si badi peraltro che il termine “essere”, quando è usato senza altra precisazione, significa “ente”, ossia l’essere nel suo concreto determinarsi). Qui sta ponendo una questione che sembra irrilevante, però, dice se “ente” è la sintesi tra l’essere (formale) e la determinazione, cioè, se l‘ente è qualcosa, allora concetto analogo è quello di ente, non quello di essere, che è univoco, cioè, l’essere non può essere altro da sé mentre l’ente può essere qualunque cosa. Andiamo a pag. 209, Capitolo IV, L’aporetica del nulla e il suo risolvimento. Qui parla del nulla. Anni fa leggemmo il De nihilo et tenebris di Fredegiso di Tours. La posizione del principio di non contraddizione richiede la posizione del non essere. Nel principio di non contraddizione l’essere non è non essere; quindi, il non essere è richiesto. Come dicevamo prima, occorre porlo per toglierlo. Non solo, ma il “non essere” appartiene allo stesso significato “essere”. Perché l’essere è quello che è in quanto nega di non essere essere, cioè di non essere se stesso. Soltanto a questa condizione abbiamo l’essere, che nega di non essere. Questa appartenenza del non essere sia al momento dianoetico… Dianoetico, cioè, dialettico. …(onde si costituisce il principio di non contraddizione), che al momento noetico… (conoscitivo) …(onde si costituisce il significato “essere”)… Quindi, il momento dianoetico è quello che consente di costruire il principio di non contraddizione: penso l’essere, se l’essere è vuole dire che non è non essere; mentre, il momento noetico è quello semantico, è il significato: essere è. Dice che questa cosa è il duplice aspetto di una medesima situazione logica. Ci si può limitare qui alla considerazione dell’appartenenza del non essere al momento dianoetico… Perché è quello in cui rifletto sull’essere e considero che se l’essere è, non può essere non essere. …tenendo però presente che le aporie determinate da questa appartenenza sono formulabili in termini di appartenenza del non essere al significato “essere” – e che la soluzione che qui si dà di questa aporetica, è soluzione di entrambi i modi secondo i quali tale aporetica è formulabile. Se io pongo l’essere semanticamente, e non tengo conto dell’aspetto dianoetico, allora l’essere non ha più il non essere e, quindi, è possibile che non sia. Da qui la contraddizione. L’aporetica che intendiamo considerare compete al non essere, non in quanto questo è un certo non essere – ossia è un certo essere (essere determinato) – ma in quanto il non essere è “nihil absolutum”, l’assolutamente altro dall’essere… Qui introduce il nihil absolutum, il nulla assoluto, che non è qualche cosa di cui si può parlare, il nihil absolutum non c’è, non posso neanche parlarne e bell’e fatto. …e quindi – si può dire – in quanto è ciò che sta oltre l’essere, inteso questo come totalità dell’essere. Vale a dire, sarebbe qualcosa che sta al di là dell’essere ma l’essere lo intendiamo come la totalità dell’essere e, quindi, che cosa c’è al di là? Nulla. Se l’essere è la totalità dell’essere, al di là di questa totalità cosa c’è? Il nulla assoluto. Aporia antichissima – della quale già Platone ebbe piena coscienza – ma comunque sempre in certo modo evitata, elusa, e infine lasciata irrisolta. Nessuno ha saputo risolvere questo problema. È chiaro che se si pongono questi elementi, l’essere, il nulla, come oggetti metafisici, allora bisogna trovare un qualche cosa che consenta di parlare dell’essere senza cadere nel nulla, perché sennò siamo in piena contraddizione. Ma se non li considero come oggetti metafisici ma come atti linguistici, cambia tutto. Ordunque: proprio perché si esclude che l’essere sia nulla, proprio affinché questa esclusione sussista, il nulla è posto, presente, e pertanto è. Senza il nulla anche l’essere non è, come abbiamo visto prima. Adesso non parlo del nihil absolutum, parlo del nulla, che deve esserci in quanto tolto rispetto dall’essere, perché se non lo tolgo sono in contraddizione. Se non lo pongo l’essere non ha il non essere come opposizione, all’essere non si oppone niente, quindi, diventa nulla anche lui perché non è possibile determinarlo, non è possibile stabilirlo in quanto identità con sé e, pertanto, può essere qualunque cosa, anche non essere, ovviamente. C’è un discorso sul nulla, e questo discorso attesta l’essere del nulla. O c’è una notizia, una consapevolezza del nulla, che ne attesta l’essere. Sì che sembra doversi concludere che la contraddizione è il fondamento sul quale può realizzarsi lo stesso principio di non contraddizione. Sta dicendo che qui c’è una contraddizione molto più potente di quella tra l’essere e il nulla, e dice che questa cosa è il fondamento sul quale può realizzarsi lo stesso principio di non contraddizione, perché è ancora prima la contraddizione tra l’essere e il nulla. Ora, è chiaro che a Severino questa cosa non va bene. È noto con quanta chiarezza Platone abbi prospettato questa aporia nel Sofista. Ma è noto altresì che qui l’aporia rimane solo prospettata, e poi definitivamente accantonata. Ché, certamente, Platone mostra di quale tipo di non essere si può dire che è – il non essere è come un certo essere –, ma con ciò si lasciano irrisolte le difficoltà, prospettate nel dialogo in un primo tempo (236 – 239), derivanti dal non potere escludere dall’essere il non essere, inteso questo come non essere assoluto, senza peraltro includervelo. Da una parte questo nulla è, ma al tempo stesso devo anche escluderlo, perché se non lo escludo succede quanto dicevamo prima, cioè l’essere senza il non essere non è essere, per cui può essere qualunque cosa e, quindi, anche il suo contrario. Questa è l’aporia tremenda. Per confutare il sofista – ma soprattutto per mostrare come l’essere non implichi, come intendeva Parmenide, la negazione del molteplice – è di certo sufficiente l’analisi platonica; ma l’aporia permane a proposito del non essere assoluto, che Platone tien fermo, con Parmenide, come non essere… Il non essere assoluto è il non essere; poi, ci sono dei gradi per Platone per cui possiamo parlare dell’essere in un certo modo, ma il nihil absolutum non sappiamo come maneggiarlo. Di fronte a questa situazione aporetica è singolare la posizione assunta da Fredegiso di Tours, che nella sua Epistola de nihilo et de tenebris afferma senz’altro l’essere del nulla: “La questione è tuttavia allo stesso modo è se nulla sia qualcosa oppure no. Se a questo si rispondesse “mi sembra essere nulla” allora ciò che penso come negazione comporta l’essere il nulla un qualche cosa. Sembra che sia nulla, vale a dire, mi sembra che il nulla sia qualcosa”. Si dovrà dunque concludere che anche il nulla è. Col che viene esplicitamente negato il principio di non contraddizione. perché il principio di non contraddizione è quella cosa che pone il nulla a fianco all’essere ma lo toglie. Qui invece stiamo dicendo che non possiamo toglierlo perché anche il nulla è, e quindi è un essere. Qui è complicata la cosa. Andiamo direttamente alla soluzione dell’aporia, a pag. 215. Relativamente alla prima aporia prospettata, si risponderà dunque riconoscendo che, certamente, il nulla è; ma non nel senso del “nulla” significhi “essere”:… Qui fa la distinzione tra l’aspetto formale di un’affermazione e il suo contenuto. Dicendo che il nulla è, questo è l’aspetto formale, ma nel contenuto di quest’affermazione non c’è l’essere. Questa è la prima cosa che dice. …in questo senso, il nulla non è, e l’essere è – ed è questo non essere del nulla ed essere dell’essere, che viene affermato dal principio di non contraddizione; dire infatti che “nulla” non è assolutamente significante come “essere”, equivale a dire che il nulla non è. Il nulla non è significante come essere. Il contenuto è un’altra cosa dalla forma, e il contenuto cosa dice? Dice: dire infatti che “nulla” non è assolutamente significante come “essere”, equivale a dire che il nulla non è. Se io non attribuisco al nulla questa significazione di essere l’essere, allora…, ci sarebbe da discutere, ma per adesso… Si dice dunque che il nulla è, nel senso che un positivo significare – un essere – è significante come l’assolutamente negativo, come “nulla” appunto; ossia è significante come quel “nulla” che, esso, non è assolutamente significante come “essere”. Dunque, il nulla non è assolutamente significante come essere, cioè, semanticamente è un’altra cosa; quindi, non può essere l’essere. Si dice dunque che il nulla è, nel senso che un positivo significare – un essere – è significante come l’assolutamente negativo. Un positivo significare, cioè, un significare qualcosa. Dire che il nulla è significa qualcosa, è un positivo significare. … come “nulla” appunto; ossia è significante come quel “nulla” che, esso, non è assolutamente significante come “essere”. È quello che dicevo prima, e cioè che questo nulla è significante qualcosa ma ciò che significo non è assolutamente l’essere. Pertanto il nulla è, nel senso che l’assolutamente negativo è positivamente significante; o il nulla è, nel senso che quello di “nulla” è un significato autocontraddittorio. I due lati o momenti di questa autocontraddittorietà sono – come è già stato rilevato – l’essere (il positivo significare), e il nulla, come significato incontraddittorio (appunto perché il nulla-momento non è assolutamente significante come “essere”). Tutto questo per dire che quando noi diciamo che il nulla è lo diciamo in modo formale, costruiamo una proposizione dove diciamo che il nulla è, ma dire che nulla è non significa porre il nulla come essere. Qui lui non lo fa, però, occorrerebbe una precisazione circa l’utilizzo in un’argomentazione dialettica dell’“è” come copula e, invece, la “è” come essere. Perché quando dico che il nulla è sto dicendo che a questo nulla appartiene qualcosa attraverso una copula, ma questa copula non indica l’essere. Questa è la distinzione che fa Severino per venire fuori da questo impiccio, tra posizione formale e il contenuto dell’affermazione. La posizione formale dice che il nulla è, quindi è qualcosa, ma il contenuto non mi dice che sia l’essere; sono due cose diverse. Se è vuole dire che ha un significato positivo, nel senso che ne parlo, e soltanto questo, non sto affermando che il nulla è l’essere dicendo che il nulla è. Se ne parlo è qualcosa, ma questo è un significare positivo, non è lo stabilire che il nulla è l’essere, significa soltanto che sto parlando del nulla inteso come significante, come ente. Ma, dice Severino, occorre tenere ben presente che l’essere, cioè il positivo significare il nulla – lo chiama il nulla-momento, cioè questa individuazione del nulla all’interno di questa proposizione che dice “nulla è” – non è assolutamente significante come essere.