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17-9-2014

 

Allora concludiamo la lettura del testo di Severino, il capitolo conclusivo è “Husserl e il diorisms del principio più saldo”: dopo aver tentato di dimostrare che il principio psicologico di contraddizione può essere al massimo una legge empirica Łukasiewicz esclude anche questa possibilità fondandosi soprattutto al capitolo V dei Prolegomeni a una logica pura, con i quali si aprono le Ricerche Logiche di Husserl. In questo capitolo Łukasiewicz scrive che contiene una critica perfetta alle idee di alcuni recenti filosofi come Miller, Ranger, Sigward eccetera i quali confondono il principio logico di contraddizione con quello psicologico. Łukasiewicz riporta il seguente passo di Husserl dove dapprima si richiama per escluderla la formulazione psicologica del principio di contraddizione, dunque dice Husserl “nel medesimo individuo o meglio ancora nella medesima coscienza non possono permanere per un tratto di tempo, per quanto possa essere breve, atti di credenza contraddittori e poi ci si chiede “ma questa è realmente una legge?” possiamo realmente esprimerla come fornita una generalità illimitata? Dove sono le induzioni psicologiche (sono gli esempi) che giustificano la sua assunzione? Non possono forse esistere o non sono mai esistiti uomini che talora hanno ritenute vere nello stesso tempo due cose opposte ad esempio perché ingannati da false argomentazioni? Sono state avviate indagini scientifiche per accertare se qualcosa di simile non accada tra i dementi o forse anche nel caso delle contraddizioni esplicite? Che ne è degli stati di ipnosi, del delirio da febbre, eccetera? (Husserl dice Severino non prende in considerazione il testo del libro IV della Metafisica dove Aristotele enuncia il principio più saldo e su questa base dimostra il diorisms essenziale di tale principio cioè l’impossibilità di contraddirsi, dove la dimostrazione consiste nel rilevare che il diorisms è un caso particolare ossia una individuazione della formulazione universale del principio più saldo): Dunque Husserl non discute nemmeno questa dimostrazione ma discute quella che anche lui considera come la formulazione psicologica di tale principio, e tale formulazione gli si presenta come una formulazione che non può essere una legge empirica fornita di una generalità illimitata ché mancano appunto le induzioni psicologiche che potrebbero giustificarla, i Prolegomeni a una logica pura sono pertanto dei luoghi in cui appare con più chiarezza la tesi che il principio di non contraddizione nega sì l’esistenza del contenuto contraddittorio della contraddizione ma non nega affatto l’esistenza della contraddizione cioè del contraddirsi (questo lo abbiamo visto l’altra volta) come si può escludere che nelle false argomentazioni, nella demenza, nell’ipnosi, nei deliri e persino negli stati di normalità psichica siano ritenute vere nello stesso tempo due cose opposte? E che in questi casi le contraddizioni siano ritenute vere non solo quando sussistono in modo implicito ma perfino nel caso delle contraddizioni esplicite? Intendendo come legge logica tale principio esso dice che un giudizio che contemporaneamente afferma e nega il medesimo stato di cose non può essere vero, ma esso non dice affatto se atti giudicativi contraddittori, nella stessa coscienza o in coscienze diverse questo è indifferente, possano coesistere realiter o no? (cioè dice che logicamente possono esistere dei giudizi contraddittori): ora contraddizioni implicite sono quelle dove le due affermazioni opposte non appaiono (qui comincia la questione interessante): nella coscienza che si contraddice come opposte, contraddizioni esplicite sono quelle dove le due affermazioni opposte appaiono invece come opposte (quelle implicite non appaiono, non sembra che siano contrarie, quelle esplicite sì) Aristotele mostra che il diorisms essenziale del principio più saldo riguarda le contraddizioni esplicite, le quali sono esplicite solo se sono espliciti i termini da cui sono costituite e cioè solo se tali termini appaiono non con un qualsiasi significato ma proprio con il significato che rende opposte le affermazioni da essi costituite (e cioè questo significato deve essere esattamente lo stesso appunto è l’essere sé, poi dirà più precisamente dopo che è l’ente): se questo non accade (e cioè che i termini appaiono con il significato che rende opposte le affermazioni) se questo non accade solo impropriamente si può dire che appaiono affermazioni opposte e che si possa esser convinti di entrambe, in questo caso il diorisms essenziale del principio più saldo non nega che si possa essere convinti di ciò che effettivamente appare e che il linguaggio alterando ciò che appare effettivamente possa dire che la stessa cosa è e non è qualche cos’altro, alcuni credono, dice Aristotele, che Eraclito abbia pensato che lo stesso sia e non sia, però non è necessario che le cose che uno dice le pensi anche, se quello che Eraclito dice viene inteso come negazione esplicita del principio più saldo (cioè che le cose sono e non sono) Eraclito non può aver pensato quello che egli ha detto e quel che egli ha detto non solo è un’alterazione di quello che egli ha effettivamente pensato ma non può essere nemmeno inteso come negazione esplicita e consapevole del principio più saldo (sta dicendo Severino che Eraclito ha detto che “tutto scorre” il famoso “panta rei”, che “le cose sono e non sono” lui l’ha detto però ciò che ha detto è stato alterato rispetto a ciò che ha pensato, lui non può, Eraclito, pensare una cosa del genere, non può pensarla perché se la cosa fosse e non fosse penserebbe che cosa esattamente? Questo non lo dice Severino, lo dico io per rendere esplicita la cosa, Eraclito ha fatto un’affermazione, l’ha detto ma non può averlo pensato realmente, perché se no non avrebbe pensato niente. Qui c’è un’annotazione interessante che fa Severino): invece Husserl che ignora il diorisms essenziale del primo principio aristotelico (che è il principio di non contraddizione) scrive che i grandi filosofi come Epicuro, Hegel hanno negato il principio di non contraddizione (anche se non tutti sono d’accordo sul fatto che Hegel fosse un negatore del principio di non contraddizione e che forse anche per questo aspetto i geni e i folli sono affini. A parte il riferimento generico a Epicuro e a Hegel anticipando Aristotele Platone dice che nemmeno il folle (mainmenon) e nemmeno in sogno (oud’en hýpnoi) è possibile pensare che una cosa è altro da sé, ad esempio che il bello è brutto, che il giusto è l’ingiusto, il bove e il cavallo /…/ anche la posizione di Husserl tende a oscillare tra una concezione logicistica del principio di non contraddizione per la quale esso non dice nulla della realtà e una concezione che invece vede in esso un principio dell’ente, si legge per esempio (questo è di Husserl) esso dice che un giudizio che contemporaneamente afferma e nega il medesimo stato di cose non può essere vero oppure due proposizioni opposte non sono insieme vere e cioè gli stati di cose ad essi corrispondenti non possono sussistere insieme, dove gli stati di cose sono appunto gli enti e dunque in questa concezione il principio di non contraddizione afferma dell’ente ciò senza di cui non si può affermare nulla dell’ente (Severino dice che se l’ente non è quello che è così come appare non posso dirne nulla e adesso dirà per quale motivo): il senso complessivo della riflessione su Eraclito del passo 1500 b 24 26 della Metafisica può essere indicato dicendo che in relazione al principio più saldo di tutti Aristotele indica dunque una triplice stratificazione del sapere, alla base la dimensione della conoscenza di tale principio intorno al quale è necessario essere sempre nella verità e non è mai possibile essere nell’errore, la conoscenza di tale principio appartiene ad ogni essere pensante ma solo al linguaggio del filosofo è consentito esprimerla (solo il filosofo lo sa) al di sopra di questo primo strato si trovano le opinioni più o meno fondate degli uomini, di coloro che cercano la verità tra questi ultimi il filosofo autentico costruisce l’episteme della verità dell’ente (l’episteme è la verità certificata e dimostrata) in quanto ente assumendo quel principio come fondamento esplicito (il fatto che l’ente sia l’ente). Il pensiero (hypolambánein) e le convinzioni (doxai) degli altri pur non potendo sottrarsi alla conoscenza vera del primo principio che si trova al loro fondamento possono avere un contenuto che implica la negazione di tale principio ma che non rende e non può rendere esplicita tale implicazione (la si può pensare, si può dire che una cosa è contraria all’altra però di fatto non si può renderla esplicita, perché se la rendo esplicita devo dire che questo non è questo e quindi che cos’è? È nulla. È per questo che Severino ad un certo punto giunge a dire insieme con molti altri che l’Essere è nulla, per una serie di buoni motivi ma questa è un’altra questione che magari possiamo vedere un’altra volta): come terzo strato il linguaggio che può configurarsi in modo da essere interpretato come negazione del primo principio ma che in questo caso è in effetti un’alterazione sia di quel primo sia di quel secondo strato. Appunto per questa stratificazione Aristotele che pur nega la possibilità di contraddirsi cioè dell’esser convinti che un contenuto contraddittorio può dire anche di certuni che hanno cercato la verità che essi hanno pensato e si sono convinti della negazione del principio più saldo cioè si sono convinti del contenuto contraddittorio per eccellenza, nel senso che il loro linguaggio presentandosi come negazione del primo principio (per esempio che Eraclito che dice che le cose sono e non sono) altera quelle loro convinzioni esplicite che implicano sì la negazione del primo principio ma che la implicano implicitamente e quindi hanno come contenuto qualcosa che non appare come una siffatta negazione, ciò che appare è ciò appare esplicitamente. 19.37 Il libro IV della Metafisica discute ad esempio anche la posizione di coloro che in seguito a difficoltà e aporie dovute soprattutto al chiudersi di costoro nelle considerazione delle cose sensibili, giunsero a pensare così ossia giunsero all’opinione che le affermazioni contraddittorie e contrarie convengono insieme allo stesso. Anche in questo passo del capitolo 5 del libro IV della Metafisica si presentano le stesse forme linguistiche, il verbo “hypolambánein” e il sostantivo “dxa” che sono protagonisti del discorso in cui si mostra il diorisms essenziale della “bebaiotátē ark” eccetera /…/ Passi come questo aiutano a comprendere che quando i contrari sono, ed è il caso considerato nel capitolo 3°, convinzioni “doxai” tra loro opposte cioè quando i contrari sono convinzioni cioè determinazione della coscienza o del pensiero allora il rapporto di contrarietà più in generale di opposizione sussiste solo in quanto gli opposti sono con saputi e pensati come tali cioè solo in quanto “appaiono” come opposti (“appaiono” come opposti, qui lui ha messo in evidenza “come opposti” ma avrebbe forse potuto mettere in evidenza “appaiono” perché mi sembra la cosa fondamentale): il che significa solo in quanto il rapporto di opposizione è esplicito , se nello stesso pensiero sono presenti due “doxai” che non appaiono come opposte allora in, e per questo pensiero, esse non sono degli opposti, se sono degli opposti solo per il pensiero che riesce a scorgere il loro essere l’una la negazione dell’altra cioè solo se nel pensiero appaiono così (nel pensiero ma il fatto che appaiano così nel pensiero non significa che così appaia l’ente, è l’ente che è sempre se stesso, io posso pensare che implicitamente l’ente possa essere diverso da sé ma in modo esplicito non lo posso fare, è quello che sta dicendo Aristotele) Aristotele sviluppa il tema del diorisms essenziale del principio più saldo mantenendosi all’interno dell’essenza del nichilismo e dunque all’interno della comprensione nichilistica del senso della contraddizione e della non contraddizione, ma se si riconduce questo tema alla struttura del destino della verità (cioè all’essere sé dell’essente) va rilevato che se due affermazioni opposte non appaiono come opposte, esse non sono opposte (devono apparire, “apparire” nel senso che da Severino a questo termine cioè non l’“apparire” nel senso di “sembrare” ma nel senso di qualcosa che appare in sé e per sé, potremmo dire): dunque se due affermazioni opposte non appaiono come opposte esse non sono opposte perché se lo fossero la loro opposizione apparterrebbe al destino della verità e quello non apparire come opposte sarebbe quindi il loro isolamento dal destino, cioè dalla dimensione sul fondamento della quale la loro relazione è un’opposizione ma isolato dal proprio fondamento tale opposizione non può essere un’opposizione cioè le due affermazioni non sono opposte. Per dirla in altri termini, se una cosa non appare per quello che è così come è, l’apparire dell’esser sé dell’essente, se non fosse così, allora questo non sarebbe un essente, sarebbe niente, appunto parla di “isolamento” dal destino, lui parla del destino della necessità e il destino della necessità è l’apparire dell’esser sé dell’essente, se non appare allora è fuori dal destino della necessità, cioè non appare niente è niente, per questo dicevo prima che per Severino l’Essere è niente, per questa e anche per altre considerazioni. Queste ultime cose che vi ho lette pongono una questione importante perché se soltanto nel momento in cui l’ente si manifesta, cioè appare, questo “apparire” è ciò che non può essere negato, questo è il fondamento della bebaiotate archè, perché se potesse essere negato che questo appare come un ente, cioè quello che è, allora non si darebbe la conoscenza, cioè non sarebbe possibile “conoscere” alcunché, la conoscenza stessa sarebbe impossibile. Ora mettiamo a confronto queste due tesi in termini molto spicci, quella di Łukasiewicz e quella di Severino, da una parte dunque il principio di non contraddizione, il fondamento stesso del pensiero, il principio primo senza il quale, come dice Aristotele, non c’è possibilità di pensiero stesso, questo stesso principio per Łukasiewicz non è dimostrabile, che è un bel fatto se si tiene conto che per esempio tutto il pensiero e quindi la scienza, tutto il pensiero scientifico è fondato sul principio di non contraddizione che non ha nessun fondamento, cioè non è dimostrabile. La scienza, come sapete, si adopera e si agita per dimostrare tutto ciò che afferma, questo è un principio tradizionale della scienza, se non provasse nulla di ciò che afferma, che scienza sarebbe? Ecco però ogni dimostrazione ovviamente non può non tenere conto del principio di non contraddizione, che se no affermerebbe una cosa e affermandola affermerebbe anche il suo contrario, quindi non ci sarebbe la possibilità della scienza, non ci sarebbe appunto come dicevo prima la possibilità stessa della “conoscenza”. Come abbiamo visto qualche volta fa, l’unico utilizzo che secondo Łukasiewicz può farsi con ragione e con legittimità del principio di non contraddizione è l’uso pratico, pragmatico, cioè utilizzare il principio di non contraddizione per districarsi nelle argomentazioni, nel fare quotidiano anche, ma questa cosa, dice Łukasiewicz, non ha nessun fondamento, nessun valore logico propriamente ma ha un valore pragmatico, cioè serve nella vita di tutti i giorni per fare quello che le persone fanno generalmente, cioè parlano, chiacchierano, discutono, decidono, affermano, negano eccetera. La tesi di Severino invece è un po’ differente. Łukasiewicz, come ricorderete, muoveva obiezioni non tanto al principio di contraddizione per quanto riguarda l’aspetto ontologico e quello logico, ma a quello psicologico. Cosa dice il principio ontologico di contraddizione? Che un ente non può possedere e non possedere la stessa proprietà nello stesso tempo e nel medesimo rispetto, il principio logico afferma non possono esserci due giudizi contrari sulla stessa cosa nello stesso tempo e nello stesso rispetto, il principio psicologico verte sulle convinzioni, e Łukasiewicz è su questo principio che si appunta perché non considera in effetti i due primi, che sono di fatto i più fondamentali e più importanti, però per lui riuscire a intendere che è possibile invece credere vera una certa cosa e anche la sua contraria questo avrebbe invalidato il principio di contraddizione in toto, cioè avrebbe mostrato che uno dei tre aspetti del principio di non contraddizione allora anche il principio ontologico e quello logico potrebbero avere dei problemi. Se si dimostra l’infondatezza del principio psicologico si dimostra che una persona può pensare due cose contrarie. Se pensa due cose contrarie ci sono due cose contrarie sempre ovviamente nello stesso tempo e nello stesso rispetto e qui giunge alla considerazione, insieme con Husserl, che è possibile in certe occasioni che la persona abbia in effetti opinioni contrarie sulla stessa cosa, sono dei casi particolarissimi: come sapete se si afferma una legge universale è sufficiente un elemento che non appartenga a quella legge universale per rendere quella legge universale non più universale ma particolare, ne basta uno. Severino riprende la questione del principio di non contraddizione psicologico dicendo che per Aristotele non si tratta affatto di una questione psicologica, la questione psicologica per Severino non sussiste perché secondo lui, in Aristotele, non si pone la questione psicologistica, così come la pone Łukasiewicz, o Husserl, ma queste affermazioni sono una questione ontologica, cioè riguardano l’ente in quanto tale, quindi non si tratta di uno che abbia opinioni, che possa avere opinioni diverse sulla stessa cosa, non le può avere perché è la stessa cosa che non può essere diversa quindi non può pensare di fatto che una cosa sia e non sia. Giunge a dire che Eraclito sì, dice che le cose sono e non sono, ma non può pensarle realmente, non può pensare realmente che una cosa è o non è perché se così fosse non la potrebbe pensare, non penserebbe niente di quella cosa, e anche Platone nel Teeteto, per motivi simili, dice che neanche un folle può pensare che una cosa sia e non sia e il motivo è che non è pensabile che una cosa sia e non sia, cioè non “è pensabile”, non nel senso che non la si possa immaginare, ma non si può costruire un pensiero intorno a quella cosa, se quella cosa è e non è, cioè è altro da sé. E questa è la questione centrale…

Intervento: il fatto che l’ente è così com’è, da che cosa è dovuto?

Questa è una bella domanda, e in effetti è il “punto debole” dell’argomentazione di Severino. Lui in effetti dice che l’ente “appare”, “l’apparire dell’esser sé dell’essente” indica il fatto che qualche cosa appare così come è, nessuno sa esattamente perché “appare così come è”, che è una domanda che Łukasiewicz stesso avrebbe potuto fare a Severino “chi dice che appare così”. La risposta di Severino, adesso qui mi tocca fare tutti e due, e non so se sarebbero del tutto contenti, comunque, per Severino comunque è che perché ci sia conoscenza di qualche cosa, qualche cosa deve apparire così come è, per cui non si pone tanto la questione del come appare, ma il fatto che appare (appare a qualcuno …) c’è sempre un apparire di un ente a un altro ente che è l’uomo che è in condizioni di conoscere, ma è in condizioni di conoscere proprio per questo motivo, perché l’ente “appare”, se non apparisse cosa conoscerebbe? Questa è in due parole l’argomentazione di Severino forse lui avrebbe qualche cosa da dire ma (quindi è come se fosse per lui la realtà?) no, lui non è così ingenuo, la realtà per lui è qualcosa di molto complicato e problematico, di fatto lui stesso si pone la questione: dire che adesso siamo qui noi in questa stanza, dire questo non significa niente, in base a quali cose, a quali considerazioni? Ciascuna di queste considerazioni può essere discutibile, tutto può essere discutibile, per cui alla fine non si arriva da nessuna parte, no lui pone la questione in termini prettamente ontologici, non realistici ma ontologici, che è un po’ diverso. Per lui la necessità riguarda l’ente, cioè il suo apparire, questo è necessario perché ci sia conoscenza, necessario perché si dia il pensiero stesso, se no il pensiero non può pensare niente, se pensa qualche cosa, già questo “pensare” è un ente, è qualche cosa, è un oggetto. L’ontologia di Severino si fonda su questo, lui dice che se una cosa non è se stessa, e lui non è che dia delle prove propriamente di questo, dice che se non fosse se stessa non potrei conoscere niente. La volta scorsa riportavo l’esempio della legna che diventa cenere, Severino nega il divenire, secondo Severino il divenire è il nichilismo stesso del pensiero occidentale, che è nichilista per questo, perché se le cose divengono allora vengono dal nulla e tornano nel nulla, quindi sono nulla. Lo stesso motivo per cui dice che l’Essere di Parmenide è nulla, è puro nulla, perché l’essere di Parmenide è irrelato, cioè non è in relazione con l’ente, tesi che riprende, lo dicevamo forse la volta scorsa, anche Heidegger per alcuni versi, non sempre. L’Essere se è irrelato è nulla perché non è connesso con niente, è esattamente la stessa conclusione a cui giunse Greimas, ma anche Hjelmslev, vi ricordate della parola: prendete la parola, togliete alla parola ogni relazione e questa parola è nulla, assolutamente nulla. Severino non parla della “parola” ma dell’ente parmenideo in questo caso, per cui l’Essere di Parmenide se è così è nulla, cioè l’Essere è nulla. Vedete che la questione, l’interrogazione è sempre intorno a qualche cosa di molto simile e cioè intorno a un qualche cosa che invoca la domanda “che cos’è questa cosa?” la domanda da sempre della filosofia. Ora anche la parola è un ente, è un oggetto, infatti considereremo l’oggetto sotto questo profilo, come la parola, nonostante l’implicazione e la complicazione dovuta al fatto che per parlare della parola in quanto oggetto dobbiamo usare la parola, non abbiamo altro strumento, comunque vi dicevo che la parola in quanto ente è quello che è perché presa in una relazione, in una rete di connessioni, questo è ciò che Severino nega, e cioè che l’ente sia tale perché connesso con altri elementi, perché se è connesso allora questa connessione è esattamente quel percorso che fa la legna per diventare cenere e cioè c’è un passaggio che connette una cosa all’altra, cosa che lui nega per cui non c’è nessun passaggio ma enti e ciascun ente è eterno. Eterno è ciascun istante in ciò che ciascuno vede quando guarda la legna che diventa cenere, è una successione, non importa quanto grande, di “eterni”, ciascun istante è eterno. Dicevo il passaggio è appunto il divenire altro da sé, la legna che diventa altro da sé finché diventa qualche cosa che non è più legna ma è un’altra cosa: è cenere. Questo passaggio per Severino non è possibile perché sarebbe ammettere che una cosa è se stessa e anche altra, e cioè che la legna è cenere. Che l’Essere è niente.

Siamo partiti dalla questione del significato, da qual è il significato di una cosa, da qui una serie di considerazioni ci ha condotti a intendere l’ente come lo intendono i semiotici, cioè come un qualche cosa che è perché è connesso con altri enti, perché se no non esiste, fino ad arrivare a Severino che ci dice che invece se fosse connesso con altre cose che non esisterebbe, esattamente il contrario. La questione interessante è che entrambe le posizioni possono essere sostenute e argomentate con solidi argomenti, e allora in un certo senso potremmo dire che hanno ragione i semiotici ad affermare che un ente, una parola non ha nessuna esistenza al di fuori della rete di connessioni all’interno della quale è inserita, e al tempo stesso possiamo dire che è assolutamente vero che un elemento, un ente, se fosse connesso con altri sarebbe necessariamente se stesso e altro da sé, ma se così fosse, cioè se stesso e altro da sé non sarebbe perché non sarebbe conoscibile. Ha perfettamente ragione Severino, e ha perfettamente ragione anche Greimas, e questa è un apertura anziché una chiusura, perché ci mostra che allora la cosa va pensata in un altro modo, e cioè che occorre inserire altri elementi e cioè uscire dall’ontologia.