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17-8-2016

 

HEIDEGGER: La questione della cosa (1935-1936).

Il reale nel fenomeno non è, nel significato kantiano, ciò che effettivamente esiste nell’apparenza distinto da ciò che non esiste essendo mera fumosa parvenza, reale è ciò che in generale deve essere dato perché si possa decidere riguardo alla sua effettiva esistenza o inesistenza (per potere decidere se qualche cosa esiste oppure no, occorre che qualche cosa ci sia, se no di che cosa decido? Il “reale” per Kant è questa cosa che deve esserci prima che io possa decidere se esiste oppure no, non è che il reale esista o non esista, per Kant è quella cosa che mi consente di potere decidere che una certa cosa, qualunque cosa, esiste oppure no) Il reale è il puro e il primo necessario “qualcosa” in quanto tale. (il qualcosa su cui decido della sua esistenza per esempio, infatti mette “qualcosa” tra virgolette) Senza il reale la materia essenziale, senza cioè il “qualcosa” che lo determina come questo o quello, l’oggetto non solo è inesistente ma non è in generale niente, per questo “qualcosa”, per il reale l’oggetto si caratterizza come ciò che viene in contro in questo o quel modo, il reale è il primo “quale” dell’oggetto, il “qualcosa”, il “quanto”. (è un porre la questione del reale in un modo differente da come avviene generalmente. In un capitolo: La stranezza delle Anticipazioni. Realtà e sensazioni, parla dell’anticipazione del reale nella percezione. Diceva prima che occorre anticipare il reale perché ci sia la percezione di qualche cosa, per potere decidere che qualcosa esiste) pag. 234: La stranezza dell’anticipazione del reale la percezione risulta non solo dal confronto con l’animale ma anche dal paragone con la concezione tradizionale della conoscenza, ricordiamoci dell’“a priori” di cui si è detto trattando della distinzione dei giudizi analitici e sintetici, la caratteristica del giudizio sintetico sta in questo che esso deve portarsi fuori dal rapporto soggetto predicato e mirare a ciò che è completamente altro all’oggetto (la sintesi deve mettere insieme delle cose). La prima fondamentale conoscenza del pensiero rappresentativo volto all’esterno, a ciò che si ha qui innanzi, al “qualcosa” che viene in contro è l’anticipazione del reale (appunto quella cosa di cui dicevamo prima, quel “qualcosa” che deve esserci) quella sintesi o composizione nella quale è rappresentato, è posto innanzi l’ambito del “qualcosa” a partire dal quale i fenomeni debbono avere la possibilità di mostrarsi (qui è sempre Heidegger che parla ovviamente, qui c’è un qualche cosa che evoca la posizione di Heidegger e cioè occorre che esista un qualche cosa perché un qualche cosa possa mostrarsi, l’essere dell’ente, occorre l’essere come apertura all’interno della quale apertura l’ente ha la possibilità di mostrarsi, come dire che il significante deve essere già preso in un significato per essere significante) perciò Kant nel capoverso conclusivo del paragrafo sulle Anticipazioni della percezione afferma: (Kant) Ma il reale che corrisponde alle sensazioni in generale in opposizione alla negazione (uguale zero) rappresenta solo qualcosa il cui concetto racchiude in sé un essere cioè il presentarsi di qualcosa e non altro, significa la sintesi in una coscienza empirica in generale. (Heidegger): La rappresentazione che comprende a priori la realtà apre l’orizzonte del qualcosa assente in generale, nel passo kantiano indicato col termine “essere” e forma, così il rapporto in base al quale la coscienza empirica in generale è coscienza di qualcosa, il “qualcosa” in generale è “la materia trascendentale”, che appartenendo a priori all’oggetto, ciò che sta di contro, rende possibile il suo essere oggetto, il suo essere di contro. (la materia trascendentale in Kant è la necessità che ci sia un qualche cosa che appartiene alla cosa e che la mostra a priori consentendo il mostrarsi di qualche cosa, per cui a questo punto se percepisco qualcosa allora posso giudicare di qualcosa, è un giudizio di esistenza però prima che ci sia occorre che ci sia qualche cosa su cui io possa esercitare il mio giudizio di esistenza, (è il trascendentale) infatti dice il “qualcosa” in generale è la “materia trascendentale” che appartenendo a priori all’oggetto, a ciò che sta di contro rende possibile il suo essere oggetto.” Cioè solo a questo punto posso decidere che è un oggetto, che esiste in quanto oggetto) Il concetto di grandezza nel significato di quantità. Tutti i fenomeni sono in quanto intuizioni grandezze estensive e in quanto sensazioni grandezze intensive, sono cioè quantità (ogni cosa è un “quanto” un quanto di qualche cosa) quindi il concetto di grandezza nel significato di quantità trova nella scienza il suo sostegno e nel numero il suo senso, il numero rappresenta le quantità nella loro determinatezza, la matematica dunque è applicabile agli oggetti in quanto ciò che si incontra in generale nei fenomeni è a priori fissato, reso stabile dai concetti di quantità e qualità in quanto unità, regolano le unificazioni a priori della conoscenza. (cioè la mia conoscenza a priori è regolata da questa percezione di quantità e di qualità delle cose) Per lo stesso motivo è possibile trovare corrispondenza tra la costruzione matematica e il suo oggetto e darne la prova attraverso l’esperimento (perché la prova matematica si appoggia su un qualche cosa che ha una quantità, cioè è misurabile) la condizione dell’apparire dei fenomeni, la determinatezza quantitativa della loro forma, della loro materia è insieme la condizione del loro star di contro, della loro unità e stabilità. (ciò che sta di contro cioè l’oggetto, Gegenstand, è l’unità e stabilità di queste due cose che stanno insieme cioè della quantità e della qualità) Pag. 236: Si deve dimostrare che i principi sono quelle determinazioni che sole rendono possibile l’esperienza di oggetti in generale. si deve dimostrare che i principi (ché lui cerca il principio della conoscenza “sono quelle determinazioni che sole rendono possibile l’esperienza di oggetti in generale” dopo tutto è il programma della Critica della Ragion pura) Ma come lo si dimostra? Mostrando che essi stessi (cioè i principi) sono possibili soltanto in base all’unità, alla coappartenenza dei concetti puri dell’intelletto e di ciò che viene incontro nell’intuizione (badate bene questa unità di intuizione e pensiero, abbiamo visto l’altra volta, l’intuizione pura e poi il pensiero, l’intelletto) è essa stessa l’essenza dell’esperienza, la dimostrazione consiste allora nel mostrare che i principi dell’intelletto puro sono possibili (cioè i principi che reggono l’intelletto puro) solo attraverso ciò essi stessi debbono rendere possibile l’esperienza e questo chiaramente è un circolo, (per potere avere l’esperienza devo avere l’intuizione pura, per avere l’intuizione pura devo avere l’esperienza, perché l’esperienza non è altro, l’aveva detto all’inizio, che l’unità di intuizione e pensiero quindi per esserci esperienza deve esserci intuizione, ma non posso avere intuizione senza esperienza cioè senza che questa intuizione non sia allo stesso tempo presa insieme con il pensiero) certo, ma per comprendere il procedimento dimostrativo e la natura della questione è indispensabile che non ci si limiti ad avanzare sospetti di circolo (che poi più in là diventerà il circolo ermeneutico) criticando così la correttezza della dimostrazione e che riconosca invece apertamente il circolo e lo si ripercorra. Kant avrebbe dovuto capire poco del compito e dell’intento suoi più profondi se non avesse scorto il procedimento circolare di queste dimostrazioni? Di fatto ad esso allude quando afferma che queste proposizioni definiscono principi e pertanto non hanno mai la certezza intuitiva di due più due uguale quattro. Sorge la domanda perché le analogie dell’esperienza non fanno parte dei principi della modalità? (l’esperienza procede in genere per analogie, però si chiede lui perché queste analogie non sono delle modalità?) Si risponda: perché l’esistenza è definibile solo come rapporto tra i diversi stati dei fenomeni e mai direttamente in sé e per sé. L’esperienza è definibile attraverso rapporti mai per sé (questo non è poco se tenete conto di ciò che dice “i principi sono quelle determinazioni che sole rendono possibile l’esperienza degli oggetti in generale” (e l’esperienza è fatta di intuizione pura e di pensiero, quindi questa esperienza tuttavia la si può definire soltanto come rapporto tra diversi stati dei fenomeni e mai direttamente in sé e per sé, questa esperienza entra in una relazione di rapporti). Oggetto è ciò che sta di contro e si rivela come ciò che sta solo se è colto nella sua indipendenza dall’atto percettivo che di volta in volta occasionalmente lo percepisce (ciò che sta di contro posso percepirlo soltanto se universalizzo il pensiero, se fosse soltanto l’intuizione pura, questo lo diceva già all’inizio, questa intuizione pura senza il pensiero è cieca, l’oggetto si rivela soltanto dalla pura percezione ma è dipendente invece dal pensiero) In dipendenza da … è però solo una determinazione negativa, non basta quindi a fondare positivamente lo “stare” dell’oggetto, il che chiaramente è possibile soltanto se l’oggetto è posto in rapporto agli altri oggetti e se questo rapporto è la stabilità e l’unità di un contesto di per sé esistente al cui interno stanno i singoli oggetti, la stabilità dell’oggetto si fonda perciò sulla connessione “nexus” dei fenomeni, più precisamente su ciò che rende a priori possibile tale connessione (e qui il circolo continua a riproporsi “la stabilità dell’oggetto si fonda sulla connessione dei fenomeni cioè sulla rete di relazioni, ma su ciò che rende a priori possibile tale connessione”, che cos’è che rende “a priori” possibile tale connessione? Lo diceva prima “i principi dell’intelletto puro sono possibili solo attraverso ciò che essi stessi debbono rendere possibile l’esperienza”, ciò che rende a priori possibile tale connessione è l’esperienza, che arriva dopo eppure è ciò che rende possibile ciò che veniva prima) pag. 251 Risulta evidente che anche i chiarimenti dei postulati come la dimostrazione si muovono in circolo, perché questo movimento circolare e che cosa significa? I principi o proposizioni fondamentali debbono essere dimostrati come le proposizioni che fondano le possibilità e l’esperienza di oggetti, (questo è il progetto della fisica anche ma di Kant: trovare quei principi che rendono possibile la conoscenza e questa è l’analitica trascendentale) come vengono dimostrate queste proposizioni? Mostrando che sono possibili solo in base all’unità e all’unione dei concetti puri dell’intelletto con le forme dell’intuire, con lo spazio e il tempo, l’unità di pensiero e intuizione definisce anche l’essenza dell’esperienza, la dimostrazione consiste nel mostrare che i principi del puro intelletto sono possibili soltanto mediante ciò che essi stessi rendono possibile mediante l’essenza dell’esperienza. I principi vengono dimostrati risalendo a ciò che proprio essi rendono possibile e cioè fanno sorgere perché questi principi non altro devono mettere in luce che questo movimento in circolo, dal momento che è questo che costituisce l’essenza dell’esperienza. Nella parte conclusiva della sua opera Kant afferma che il principio dell’intelletto puro ha la caratteristica di rendere possibile innanzi tutto il fondamento della sua dimostrazione cioè l’esperienza e di dover sempre essere presupposta in questa. I principi sono quelle proposizioni che nel fondare il fondamento della loro dimostrazione basano proprio su questo la loro fondazione, in altri termini il fondamento che essi pongono l’essenza dell’esperienza non è una cosa a nostra disposizione a cui ricorrere per trovarvi semplicemente sostegno, l’esperienza è un accadere che ruota su se stesso, in forza del quale quanto si trova all’interno del circolo diviene manifesto “l’aperto”, il luogo dell’apparire non è altro che il medio, il medio tra noi e la cosa (il luogo dell’apparire cioè è aperto, qui è Heidegger, dunque l’aperto, il luogo dell’apparire, l’essere, non è altro che il medio tra noi e la cosa. Ciò che c’è tra noi e la cosa, che sono metafore visto che la “cosa in sé” non è conoscibile, ciò che rende possibile l’esistenza di noi e della cosa è il medio cioè l’essere, è questo aperto, è l’apertura, la radura, la Lichtung. Questa apertura, questo medio Kant lo indicava come un circolo, un circolo per cui l’esperienza prevede l’intuizione pura, l’intuizione pura prevede l’esperienza, alla fine di tutto Kant si trova di fronte esattamente alla stessa questione di fronte alla quale ci troviamo da sempre: a fondamento della conoscenza c’è qualche cosa di circolare, c’è qualche cosa che è quello che è a condizione di non essere quello che è. Possiamo dire che questo è questo a condizione che questo non sia questo, e possiamo dire che questo non è questo a condizione che questo sia questo. La questione è sempre esattamente la stessa, che è il problema del linguaggio, un problema che poi ha assunto varie forme, varie configurazioni, ma si presenta sempre alla stessa maniera già dai tempi di Eraclito, di Parmenide. Il “problema”, sempre nell’accezione di Heidegger, è la questione del linguaggio e cioè per potere dire quello che una cosa è, devo dire ciò che quella cosa non è, in un certo senso, per dire che cos’è questa cosa qui devo dire delle altre cose che non sono questa cosa qui. Ciò che Kant chiamava circolarità non è altro che il trovarsi presi continuamente in questo gioco di rinvii che poi altri hanno individuato, la semiotica per esempio ha colto bene la questione, un gioco di rinvii che fa sì che una certa cosa che è quella che è, si sposta su un’altra, quest’altra è quella che è perché si sposta su un’altra e così via all’infinito. Ciò che ritorna sempre è la differenza che il dire che cos’è qualche cosa instaura inesorabilmente. Per poterlo fissare devo inserire una differenza tra ciò che intendo fissare e ciò che mi serve per fissarlo, cioè un’altra parola, che è poi la “difference” di cui parlava Derrida. Ricordatevi sempre che noi abbiamo letto questo libro che andrebbe, come tutti i libri di Heidegger, andrebbe riletto dieci volte prima di poterne cogliere tutte le finezze, le sottigliezze, le aperture, l’abbiamo letto molto rapidamente attenendoci unicamente a ciò che a noi interessava in questo momento, una lettura molto particolare ovviamente. Ciò a cui vuole giungere Kant, cioè fondare la possibilità della conoscenza, risulta un problema, perché le proposizioni che stabiliscono i principi sono circolari, quindi la conoscenza tutta è fondata su una circolarità, quindi di fatto infondabile se con “conoscenza” si intende ovviamente l’apprensione pura della cosa come voleva Husserl, è chiaro che se intendiamo “conoscenza” un’altra cosa il problema non c’è più. Si tratta di trarre da queste cose delle altre considerazioni, cioè la possibilità per esempio che ha la parola dicendosi per esempio di sorprendere. Avete presente quel quadro celeberrimo di Magritte, quello che rappresenta una pipa e sotto c’è la scritta Ceci n’est pas une pipe, “Questa non è una pipa”. Ora questo quadro è diventato celebre per questa proposizione del paradosso, del non senso, delle sconcerto, dello smarrimento, però provate a prendere questo quadro, togliete la pipa e metteteci una macchina da scrivere, o una petroliera, e lasciate sotto la scritta “questa non è una pipa”, chiunque direbbe che certo che non lo è perché è una macchina da scrivere, quindi perché questo quadro, quindi questa proposizione abbia l’efficacia che ha nel dire che quella non è una pipa occorre che quella “sia” una pipa, perché se no non succede niente. Ma questa considerazione è applicabile al linguaggio in toto o solo in alcune circostanze particolari? Sembrerebbe che, da quanto andiamo dicendo ormai da tempo, sia applicabile alla struttura stessa del linguaggio, al suo funzionamento, e come ci dice Kant: posso anche avere eventualmente, anche se come abbiamo visto l’altra volta è problematico, l’intuizione pura, il darsi, la datità ma questa datità non c’è, è niente. Lo stesso Kant in qualche modo lo rileva, non è niente se non c’è la ragione, se non c’è l’intelletto, cioè se non c’è l’esperienza, l’esperienza che mi dice che questo è un qualche cosa perché soltanto l’esperienza mi dice che qualche cosa è qualche cosa su cui posso giudicare, per esempio attribuire il giudizio di esistenza “esiste o non esiste?”. Questo qualcosa che è già dato a priori è il linguaggio. Il linguaggio è già da sempre, è il linguaggio che costruisce l’esperienza attraverso dei comandi, come in una macchina nella quale si mette un comando che dice “ciascuna volta che rilevi una certa cosa, una certa condizione, una certa variazione, chiamerai questa cosa “qualcosa”, dopo di che lo tratterai come un qualcosa in base alle istruzioni che ti vengono via, via fornite. Ora tutto ciò lo abbiamo posto all’interno di un lavoro che stiamo facendo relativo alla volontà di potenza. La volontà di potenza non è altro che il significato delle cose, ciò che le cose significano, poi all’interno di questa volontà di potenza possono prendere varie configurazioni, questo è irrilevante, però è la volontà di potenza a indirizzare in una direzione che è sempre quella, cioè per dare un senso, proprio letteralmente una “direzione”. Dunque come conosciamo qual è la condizione della conoscenza? Che è l’obiettivo della Critica della Ragion Pura. Se dobbiamo riprendere Kant e i suoi concetti, questa esperienza da dove arriva? Lui si trova costretto a mostrarne la circolarità: “da dove arriva l’esperienza? Dall’intuizione pura che però senza l’intelletto non fa niente, e entrambi costituiscono l’esperienza, quindi se c’è esperienza c’è intuizione pura e se c’è intuizione pura c’è necessariamente esperienza. Questa circolarità che cosa ci dice ancora? Che la conoscenza di per sé in quanto tale non è fondabile se non sulla circolarità appunto, quindi non è fondabile, a questo punto potremmo aggiungere: perché non è fondabile? La fondabilità che Kant cerca, cioè la presa diretta sull’oggetto, adesso la dico in modo molto spiccio, cioè la conoscenza immediata cioè non mediata da altro, la “percezione trascendentale” la chiamava Husserl, questa conoscenza dovrebbe porsi come la conoscenza assoluta, totale appunto perché non mediata da altro, quindi la conoscenza è di conseguenza un possesso, la padronanza totale e assoluta sulla cosa “so esattamente cos’è”. Questo è stato sempre nella mitologia filosofica l’obiettivo da raggiungere, la chimera, che più che chimera si è dimostrata fenice, quando si pensava di avere ottenuto un risultato risorge più e meglio di prima: è la volontà di potenza che impone la conoscenza, questo già Nietzsche lo sapeva. Per Nietzsche la volontà di potenza obbliga per così dire alla conoscenza, per potere controllare, gestire, manipolare: conoscenza, manipolazione, elaborazione dell’ente. Ma volontà di potenza, proprio perché è costretta alla conoscenza per esercitare la sua potenza, deve fondare la conoscenza, quindi deve potere stabilire quali sono i principi su cui si regge la conoscenza, ma la volontà di potenza stessa, non meno di quanto sia accaduto per Kant, si trova presa in un circolo. Fondare la conoscenza per la volontà di potenza cosa significa? Il superpotenziamento mira alla conoscenza pura, ad avere la certezza della sua conoscenza, poi con la tecnica questo si è modificato però questo è un altro discorso che faremo, quindi la fondazione della conoscenza per la volontà di potenza necessita della volontà di potenza stessa, perché è la volontà di potenza che mi consente, che mi costringe a volere sapere che cos’è questa cosa. Ci troviamo nella condizione per cui la conoscenza è prodotta dalla volontà di potenza, a questo punto la volontà di potenza “vuole” avere il principio della conoscenza ma il principio della conoscenza soltanto la volontà di potenza glielo può fornire, soltanto la volontà di potenza può pensare di volere sapere esattamente che cos’è una cosa, cioè qual è il principio primo, come se la volontà di potenza fosse il motore della conoscenza stessa, e ne è anche il significato. Quando Nietzsche dice che la volontà di potenza è l’essere delle cose, sta dicendo che è il significato delle cose e cioè la direzione verso cui le cose vanno sempre e comunque, vanno sempre in quella direzione, la direzione è il super potenziamento ininterrotto. Heidegger, memore di quello che dice Nietzsche, attribuisce all’essere, l’essere progettato, trovarsi presi nel volere fare delle cose, volere cambiare le cose, ma perché vorrebbe cambiare? Per quale motivo? Perché volere fare delle cose continuamente? A che scopo? A questa domanda risponde Nietzsche: per averne il controllo, il possesso. È questo che l’uomo vuole fare delle cose, possederle, e infatti potremmo dire tranquillamente che anche nel caso di Heidegger l’obiettivo dell’Esserci, del Dasein, è la volontà di potenza, e il progetto è il super potenziamento. Questo è il progetto in cui ciascuno è continuamente gettato.

Intervento: al momento in cui si vuole possedere la verità assoluta a quel punto non c’è più volontà di potenza, la verità assoluta è impossibile …

Forse le risponderebbe Nietzsche “questo è dio, ma dio è morto”. Husserl a un certo punto si accorge che comunque c’è sempre un medio, cioè il linguaggio, ma questo medio che è il linguaggio, per riprendere una questione di Kant, questo medio è esattamente ciò che rende possibile me e la cosa, è questo che tra le righe dice Kant, non lo dice in questi termini, però la circolarità è questa, che è poi il circolo ermeneutico in parte almeno. Il medio tra me e la cosa non soltanto mi consente di rappresentarmi la cosa ma fa esistere me e la cosa, fa esistere me che mi rappresento la cosa, la cosa è rappresentata da me e tutto quanto insieme, e questo per Heidegger sarebbe l’essere. Heidegger pone il Λόγος come l’essere, l’essere in quanto apertura, ma questa apertura poi si raccoglie nel Λόγος e diventa un qualche cosa con cui gli umani hanno a che fare continuamente, e cioè la possibilità che qualche cosa si manifesti. Questa possibilità che qualche cosa si manifesti è data dal λόγος e dall’essere, dall’aprirsi delle cose. Il significante esiste nell’apertura del significato e questo non va senza implicazioni, per esempio è esattamente il contrario di quello che poneva Lacan che invece poneva la priorità del significante sul significato, ma il significato è ciò all’interno del quale il significante vive, ciò per cui è significante di qualche cosa. Non ha torto De Saussure scrivendo Significato / significante e non, come ha fatto Lacan, capovolgendo il segno di De Saussure. Questo è anche un modo per riprendere il messaggio di Heidegger, dopo tutto le questioni più antiche sono sempre quelle che continuano a interrogare, quelle che offrono l’opportunità di discuterne ancora, di articolare ancora, di dire ancora e questa questione che è quella del linguaggio: “per dire una cosa devo dirne un’altra” questa è la questione del linguaggio.