17-8-2006
Qualche questione intanto?
Intervento: si è
specificato bene il compito dell’analista della parola, sufficientemente bene,
certo bisogna dirne ancora parecchio… è costrittivo… il linguaggio che pensa se
stesso… l’analista della parola ha a che fare con i luoghi comuni e quindi con
la non esistenza che il linguaggio produce… il paradosso del paradosso…
uno dei più grossi paradossi il linguaggio produce la non esistenza insieme
all’esistenza…
Perché è un paradosso?
Intervento: perché nel
discorso occidentale la questione del ciò che è e ciò che non è… queste istanze metafisiche che funzionano così, l’analista della
parola ha a che fare con i discorsi delle persone che producono in qualche modo
ciò che non è, una paura, per esempio, una paura è la produzione della non
esistenza di qualcosa, in effetti se uno ha paura di qualche cosa immagina che
questo qualcosa non sia ancora lì in quel momento ma è qualcosa che potrà
succedere, in questo senso parlavo di non esistenza…
Una persona può avere paura di qualcosa che è presente…
Intervento: se si può
considerare il linguaggio certamente, ma quando una persona si trova a
raccontare o a raccontarsi la sua paura, l’oggetto
della sua paura è qualche cosa che la persona attende…
E se è presente?
Intervento: se è
presente non ha più paura perché se no sarebbe una
contraddizione, non sarebbe più paura a quel punto la questione sarebbe già… io
ho paura di qualche cosa che deve avvenire non ho paura per qualcosa che c’è,
c’è nei miei pensieri, nelle mie fantasie ma non c’è in presenza… io ho paura
dell’assassino, questa paura questa fobia di un assassino che individuo in
ciascuna persona oppure in un assassino che mi perseguita o che inferisco o in
qualcuno che mi vuole male… ma questo non c’è se ci fosse io non parlerei di
paura… se così fosse sarebbe già compiuto…
Intervento: però se uno
col coltello mi corre dietro e vuole ammazzarmi…
Intervento: questa
è un’altra questione, io sto parlando della paura, quando uno ha paura di qualche cosa…
Intervento: sì, sì in genere
viene proiettata nel futuro… però…
Intervento: però in
quel caso l’utilizzo che ne fa il linguaggio di queste proposizioni non si chiama propriamente paura, quella si chiama in un
altro modo… ho paura di un pericolo ha anche un’altra accezione… se uno è
dietro di me con il coltello…
Cos’è?
Intervento: è angoscia
quasi come se ci fosse l’individuazione dell’assassino…
C’è qualcosa in ciò che dice Beatrice che è interessante
anche se…
Intervento: sì, in
genere è la fantasia che crea la paura…
Intervento: io
parlavo dell’esistenza e della non esistenza che crea
il linguaggio, era un esempio quello della paura…
Occorre precisare, per esempio: i civili che si trovano
nel Libano sotto le bombe degli Israeliani, possono avere paura? Le probabilità
di morire sono alte quindi il pericolo è presente, è presente sotto forma di
cannoni che sparano, però è anche vero che la paura in
effetti è di ciò che questo potrebbe comportare, appunto una bomba che
cade sulla casa e che la fa saltare per aria con me dentro, cosa che ancora non
si è verificata, si verificherà, forse sì o forse no, però è l’attesa di
qualche cosa, nel momento in cui ciò che mi fa paura è in atto, cioè si sta
verificando, allora la paura non c’è, se sono ancora vivo c’è invece il darmi
da fare per salvare la pelle eventualmente. La paura è sempre per qualche cosa
che sta per avvenire, anche se è una bomba che sta per arrivare e si sente già
il fischio…
Intervento: sì però se
qualcuno mi corre dietro con il coltello per piantarmelo nella schiena a questo
punto…
Mentre il coltello entra nella sua schiena
lei cessa di avere paura, ciò che le fa paura è quello che potrebbe accadere
non ciò che sta accadendo…
Intervento: ma se uno
ha paura di una mosca bianca? Stessa cosa, è una cosa
che costruisce lui ma ha paura allo stesso modo…
È sempre la paura per qualche cosa che si teme possa
accadere, che sia fantastico o sia reale comunque non
è ancora accaduto, io ho paura adesso per qualcosa che temo che succederà…
Intervento: no, ma
anche vedere l’oggetto di paura…
Finché lo vedo vuole dire che
l’oggetto ancora non ha posta in essere la sua minaccia, se io vedo un cannone
che apre il fuoco la bomba non è ancora arrivata, ci mette qualche secondo ad
arrivare, ecco in quei secondi io posso avere paura, dopo no, che sia in
brandelli o sia che sia salvo in ogni caso il pericolo è cessato perché si è
realizzato, quindi è terminato…
Intervento: tutto
questo era per dire che il linguaggio… partendo da
tutto ciò che produce il linguaggio… cioè il linguaggio non può al momento in
cui funziona produrre il non essere in qualche modo, perché funziona e quindi
produce qualcosa che io posso chiamare non essere, posso chiamare paura, posso
chiamare in qualsiasi modo ma lo sto producendo, questo è il paradosso di cui
abbiamo parlato quando abbiamo parlato dell’esistenza, tutto ciò che fa
esistere il linguaggio… i filosofi si sono interrogati da sempre… abbiamo
parlato del concetto di esistenza e possiamo parlare del concetto di non
esistenza, esistenza e non esistenza per il discorso occidentale, posta nei
termini in cui l’abbiamo posta mi sembra semplice intendere se possiamo
interrogarci sul funzionamento del linguaggio, l’esempio della paura era un
esempio tra gli altri… quante cose funzionano come non essere, ecco il concetto
di non esistenza… un altro concetto di non essere è la speranza, il gioco
linguistico della speranza,anche la speranza è per qualcosa che in quel momento
non c’è se no non mi troverei a sperare e quindi…
La gioia è per qualcosa che c’è, il piacere è per
qualcosa che c’è, così anche come la soddisfazione…
Intervento: la cosa in
sé costruita dalla metafisica ha dato origine a questa esistenza
fuori dal linguaggio e quindi anche alla non esistenza… nulla esiste? Esiste
che cosa? Questa proposizione intanto esiste, questa è una questione che sembra
ancestrale però il discorso occidentale trae le
differenze da questo qualcosa di cui io non sono responsabile perché se fossi
responsabile, sapessi di essere l’artefice di ciò che mi trovo a fare allora… le
persone che si rivolgono a uno psicanalista, questo personaggio ha a che fare
con una produzione massiccia di non esistenza, le persone vanno lì proprio per
poter parlare di questo qualcosa che le interroga e proprio perché si rendono
conto che potrebbe anche non esserci vogliono parlarne, direi che l’inconscio è
stato costruito proprio a partire da questo concetto di non c’è, e allora
bisogna costruirlo… per il linguaggio posta come l’abbiamo posta è
semplicissima la questione il concetto di qualche cosa che non c’è è una
produzione linguistica e serve a costruire dei discorsi per farli girare a
lungo, cercando giustificazioni in tutti i modi e trovandone perché tutte le
varie fantasie sono reperibili all’interno del discorso occidentale e quindi le
ha costruite… ha costruito anche i marziani e c’è gente che ci crede, va
benissimo qualsiasi cosa, il paranoico che è continuamente alla ricerca del
persecutore, ha a che fare con la realtà di questo persecutore però chi
l’ascolta, chi si trova a parlare con lui che non sia un’analista della parola
dice sono fantasie di questa persona come dire è qualche cosa che non
c’è…occorre far intendere che questa cosa che non c’è ha motivo di esistere
perché serve a costruire tutto quel po’ po’ di proposizioni che mette in atto nel
giro di 15 o 16 anni e… i popoli non funziona così? Sono perseguitati
continuamente… sono pochissime le cose che esistono le cose
che non esistono sono quelle che danno più da dire…
Dipende da cosa si intende con
esistenza.
Dicevamo che l’analista della parola è il
linguaggio che pensa se stesso. Come fa a pensare se stesso il linguaggio? Deve
considerare e prendere atto del suo funzionamento. Per prendere atto e
considerare il suo funzionamento deve intendere che cosa è necessario al il suo
funzionamento, vale a dire quali sono gli elementi senza i quali non
funzionerebbe, che sono quelli che abbiamo individuati
come procedure: la possibilità di individuare un elemento rispetto agli altri,
un sistema inferenziale, sono elementi necessari al funzionamento del
linguaggio cioè costituiscono il linguaggio, dunque una volta individuati gli
elementi che sono necessari e visto come funzionano allora pone tutto ciò che
ha acquisito come premessa maggiore di qualunque discorso costruirà,
utilizzando un sistema ricorsivo: ogni volta che si trova ad affermare qualcosa
riconduce questo qualcosa al linguaggio e al suo funzionamento. Riflettendo sul
suo funzionamento è venuto a sapere che il linguaggio non ha altro scopo se non
proseguire se stesso, cosa che lo induce a considerare che qualunque cosa, lui
stesso, il soggetto è l’analista, o chiunque altro si trovi a dire, a fare, a
pensare, lo scopo di tutto ciò è proseguire a parlare, nient’altro che questo.
Come sa una cosa del genere, considerato che gli umani in genere
non lo sanno? Lo sa perché ponendo sempre il linguaggio come premessa maggiore
per qualunque discorso si è interrogato su che cosa sia un fine, uno scopo, e
se qualunque cosa appartiene o meglio è fatto di linguaggio anche la nozione di
scopo, di fine ultimo sarà fatta di linguaggio, e questo lo induce a
considerare che l’unica cosa che il linguaggio fa e che non può non fare,
perché non l’ha mai fatto, è interrompere se stesso cioè
di arrestarsi, ho detto: non l’ha mai fatto, quindi o usato una sorta di
induzione “siccome non lo ha mai fatto fino adesso allora non lo farà neanche
domani”. L’induzione, come sappiamo è una forma di inferenza
piuttosto debole, quindi dobbiamo trovarne una di più forte, perché dunque non
può smettere di proseguire? Perché se smettesse di proseguire, in quel caso, facciamo l’ipotesi per assurdo che smetta di proseguire,
allora il linguaggio non sarebbe mai esistito, da quel momento non sarebbe mai
esistito quindi se il linguaggio non esiste allora non può né cominciare né finire,
ma soprattutto non può cessare di funzionare, perché per potere pensare abbiamo
bisogno del linguaggio, noi possiamo pensare al linguaggio che cessa di
funzionare ma possiamo farlo perché sta funzionando, potremmo dire che se il
linguaggio cessasse di funzionare allora noi non ci saremmo, un po’ come il
discorso che faceva Epicuro “se ci siamo noi non c’è la morte, se c’è la morte
non ci siamo noi”, quindi non c’è nulla da temere. Qualunque scopo io possa attribuire al linguaggio di fatto è una costruzione
che io faccio, ma lo scopo di questa costruzione che serve a capire qual è lo
scopo del linguaggio non fa altro comunque che proseguire il linguaggio: lo
scopo ultimo del linguaggio è proseguire se stesso. L’analista della parola
dunque sa questo e sa che ciascuna cosa si dica serve
soltanto a questo: proseguire a parlare. Questo a cosa gli serve? A fare il suo
lavoro naturalmente, ma in modo specifico a non attendere nulla se non altre
proposizioni che verranno inesorabilmente e quindi non ha da stare ad attendere
perché è inevitabile, non attendere nessuna verità
perché la conosce, per questo dicevamo l’altra volta che non c’è nulla da
sperare e nulla da attendere. Gli uomini si attendono che il discorso prosegua,
ma vestendo questa attesa di costruzioni di ogni
sorta, un mondo migliore, che domani succeda questo, che finisca la guerra per
poi cominciarne un’altra ovviamente…
Intervento: si
concentrano sulle opere, questa attesa è costellata di
opere…
Non attendendosi nulla dunque ha l’occasione di potere ascoltare
ciò che si produce nel suo discorso e nel discorso altrui, proprio perché non
si attende niente, cosa significa ascoltare il discorso proprio o quello altrui? Se come abbiamo detto e come abbiamo anche
confortato con varie argomentazioni il linguaggio non ha nessuna
altro scopo se non proseguire se stesso, allora l’analista ascolta il
modo in cui il linguaggio prosegue, e perché prosegue in quel modo, non perché
quel modo non sia quello giusto ovviamente, ma semplicemente perché nel modo in
cui prosegue individua quali sono gli elementi precipui a quel discorso che gli
consentono di costruire proposizioni, può essere una paura, una fobia,
un’angoscia un qualunque accidente, l’unico scopo di tutto ciò che è noto come
nosografia psicanalitica è quello di continuare a parlare, così come sperare
delle cose, fare progetti, fare guerre; continuare a parlare cioè costruire
altre proposizioni e come sappiamo perfettamente, proposizioni che concludano
con un’affermazione che sia vera. Cosa vuole dire che
sia vera? Che non contraddica le premesse da cui è
partita, se non le contraddice è vera, le premesse da cui parte sono generalmente
le cose in cui la persona crede, se questa persona non contraddice le cose a
cui crede allora è vera, se le contraddice è falsa, semplice…
Intervento: infatti non può continuare…
No, se vede che è falsa deve trovare un’altra
strada, da lì non si va. Quindi
il discorso che pensa se stesso è il discorso che tiene conto di ciò che lo costruisce
e cioè il linguaggio. Come sappiamo il linguaggio
costruisce infiniti discorsi, ma qualunque discorso sia costruito questo
discorso non potrà non tenere conto che è fatto dal linguaggio e di linguaggio:
qualunque discorso ha nel linguaggio la premessa maggiore, quella cui torna
ciascuna volta, quindi qualunque discorso ritorna indietro, rileva la struttura
che lo fa esistere, tiene conto della struttura che lo fa esistere e quindi
prosegue, tenendone conto vale a dire sapendo e non potendo non sapere in
nessun modo che essendo fatto di linguaggio il discorso deve soltanto
proseguire, nient’altro che questo. Ecco perché l’analista della parola non ha
angosce, non ha fobie, non ha paure, non che non gli importi niente di niente, l’unica
cosa che gli importa è ciò di cui è fatto e cioè il
linguaggio, certo è improbabile che si affanni con le cose degli umani, perché
tutto ciò che si dice, essendo detto all’unico scopo di dire, ha come unico
valore il fatto di essere una sequenza di proposizioni, questo è il suo valore,
nient’altro che questo. Certo si trova ad avere a che fare
invece con discorsi che non hanno affatto il linguaggio come premessa maggiore,
e allora deve trovare il modo perché questo avvenga. La prima cosa che deve
fare è lasciare parlare, parlando senza avere ostacoli la persona si trova da
sola con le cose che dice anche se immagina di
raccontarle all’analista, però siccome l’analista non fa niente, né conferma,
né disconferma ciò che ascolta, con il suo silenzio, almeno inizialmente, non è
che non intervenga, ma con il suo silenzio è come se mostrasse all’analizzante,
alla persona che sta parlando in quel momento il suo discorso, lasciandola da
sola con le cose che dice allo scopo di fare in modo che si accorga che è lì
con quello che sta dicendo, questo è il primissimo passo, l’avvio di un’analisi,
le prime sedute, dopodiché, quando la persona incomincia ad accorgersi delle
cose che dice allora occorre invitare la persona ad interrogarsi sulle cose che
dice, e a quel punto interviene ciò che dicevamo la volta scorsa e cioè il
mostrare che le verità che la persona va esponendo non sono le uniche che
possono trarsi da quel discorso, fino al punto in cui la persona stessa potrà
accorgersi che le cose che dice sono vere sì, rispetto al gioco che sta facendo,
ma il gioco che sta facendo non è necessario, è arbitrario e quando si accorge
dell’arbitrarietà di ciò che sta facendo, cioè accoglie la responsabilità di ciò
che dice ecco che avviene un passo che è importante in una analisi, incomincia
a cercare le cause di ciò che accade, di ciò che pensa, di ciò che dice non più
fuori di sé ma in ciò che lui stesso dice, e quindi in ciò che lui stesso
crede, a quel punto siamo a buon punto. Anche se non è così immediato, però
siamo a buon punto e cioè la persona è già nelle
condizioni di interrogare le cose in cui crede e cioè quelle cose che senza
rendersi conto ha sempre poste come la premessa maggiore di tutti i suoi discorsi,
soltanto a quel punto incomincia a pensare differentemente, perché ogni volta
che afferma qualcosa incomincia ad accorgersi che la sua affermazione è
arbitraria, non è necessaria, e quindi non è costretto a crederci, non è
costretto a muoversi di conseguenza, a partire per le guerre sante, crociate etc.
o a difendere chissà cosa. Però sappiamo quale sia la
difficoltà di tutto ciò, abbandonare la religiosità e cioè pensare che ci sia
una verità fuori dal linguaggio, la religione è questo, è tanto difficile
perché il criterio che viene utilizzato dagli umani per vivere, per compiere
tutte le loro operazioni è l’osservazione, quello che vedono, siccome
chiaramente uno vede una cosa e un altro un’altra ecco che spesso ci sono dei
problemi, ché non è tanto ciò che si vede in quanto tale ma ciò che si aggiunge
alla cosiddetta percezione visiva. Sappiamo che senza linguaggio non ci sarebbe
neanche la percezione visiva, non ci sarebbe niente, perché non ci sarebbe
nulla che faccia esistere la percezione visiva in quanto tale, potremmo dire,
nella migliore delle ipotesi che, come una macchina che rileva delle variazioni
di stato, come una video camera, che non ha nessuna
percezione visiva. Già tanti anni fa si utilizzava un esempio per mostrare
questo, cioè che l’oggetto della visione in realtà è
costruito perché due persone poste di fronte a una stessa cosa la descrivono in
modo differente, come dire che per ciascuno ciò che vede è il pretesto per
costruire delle cose ma ciò che vede non è esente da queste costruzioni, è un
po’ ciò che ha rilevato nella fisica Heisenberg: l’osservatore modifica ciò che
osserva, al momento in cui l’osserva l’osservato, il perceptum è modificato, di
fatto è ciò che noi sosteniamo, cioè il perceptum non esiste finché non viene
osservato e quindi posto all’interno del linguaggio, allora esiste se no non
esiste o, se volete dirla altrimenti, nulla è fuori dalla parola. Per
sbarazzarsi delle obiezioni ormai annose, vetuste e noiose intorno
all’osservazione potrebbe essere sufficiente portare l’osservazione alle
estreme conseguenze, e cioè imporre all’osservante di
descrivere l’osservato: perché per esempio lo stesso osservante si trova a
descrivere il modo differente lo stesso osservato, in momenti diversi? Potrebbe
descriverlo sempre allo stesso modo eppure lo descrive
in modo differente, ma l’obiezione è sempre quella: l’osservato rimane identico
a sé, al che noi chiediamo, come lo sa? È una questione che non abbiamo affrontato solo noi, anche alcuni che si occupano di
fisica sono interessati a questo aspetto e qualcuno anche in modo interessante
come Heisenberg per esempio, ma non soltanto lui, come faccio a sapere che
l’osservato è lo stesso? E cioè che tutte le
caratteristiche rimangano intatte e immutabili? Possiamo ricorrere a una macchina, la macchina dovrebbe essere imparziale, ma
chi valuterà il risultato della macchina? Qualcuno, e questo qualcuno ecco che
osserverà ciò che la macchina descrive e a questo punto siamo daccapo, cioè deve descrivere ciò che osserva rispetto alla macchina
anziché ciò che la macchina ha osservato, c’è solo un passaggio in più, quindi
l’osservazione può garantire dell’osservato? Parrebbe di no, perché lo
modifica, lo deforma, lo altera, poi troveremo argomentazioni anche più forti,
ma allora l’osservato certo che esiste, ma esiste perché esiste un discorso,
quello dell’osservatore, che lo fa esistere, nel momento in cui l’osservato
partecipa del linguaggio allora esiste, partecipa o partecipava, in questo
momento non sto osservando la mia macchina ma so che
esiste e cioè: cosa intendo dire con “so che esiste?” Che mi attengo alle
regole di un certo gioco che sto facendo, il quale gioco ha delle regole ma
sono regole del gioco, le quali regole dicono che se io parcheggio la macchina
in un certo posto e se non intervengono disastri o malanni la ritroverò lì dove
l’ho messa e queste sono regole del gioco, nulla a che fare con il criterio
dell’osservazione. Bisogna portare l’osservazione alle estreme conseguenze, allora si svuota, non regge più e allora ecco che a questo
punto l’unico criterio che regge è quello che noi abbiamo stabilito e cioè un
criterio che ci consente di sapere ciò che è vero utilizzando unicamente ciò
che è la condizione per potere costruire qualcosa di vero, cioè il linguaggio. E
allora non è che dobbiamo sbarazzarci dell’osservazione, l’osservazione semplicemente
è un gioco, è un gioco linguistico, non ha nessun altra
utilità se non essere un gioco linguistico al pari di qualunque altro, quindi
arbitrario. Io stesso utilizzo l’osservazione in moltissimi casi, metto dei
cubetti di acqua dentro il freezer, quando osservo che
quest’acqua è diventata ghiaccio ecco che lo tiro fuori e lo metto dentro l’aperitivo,
per dirne una: ho utilizzato il criterio dell’osservazione. Dovremmo costruire
delle argomentazioni che al pari di questa ci consentano
di fronte a delle obiezioni di portare queste argomentazioni alle estreme
conseguenze fino a farle svanire, utilizzando la stessa argomentazione del
nostro avversario, che utilizza per esempio in questo caso l’osservazione come
criterio, lo utilizziamo anche noi e lo portiamo alle estreme conseguenze e lo
demoliamo, ci rifletteremo meglio, magari questo autunno riprenderemo alcune
questioni retoriche per trovare ancora altre argomentazioni, ancora più
efficaci e più semplici, fluide, questo è un lavoro che è sempre in atto e che
appare essere molto importante. Qualunque cosa se portata alle estreme
conseguenze mostra ciò di cui è fatta, cioè un gioco,
mostra la sua arbitrarietà nel senso che non è provabile…
Intervento: perché una
delle obiezioni che ci venivano poste che questo
discorso toglie le emozioni… questo al pari della vista noi utilizziamo la
vista… nella stessa maniera sono dei giochi diversi ovviamente pur sapendo che
sono poste in atto dalla struttura linguistica non per questo non devono creare
emozioni, che poi siano necessarie no, come il criterio della vista…
È utile ma non è necessario,
anche perché i giochi che si fanno nel vivere civile prevedono l’utilizzo della
vista, come dire che per giocare a poker è importante che ci siano le carte…
Intervento: sembrerebbe
a prima vista che la vista sia più importante che le
emozioni…
Intervento: e le
emozioni che si traggono dalla vista? Come fanno gli
umani se vogliono le emozioni? Io consideravo che se non si può
considerare che ogni cosa è un elemento linguistico le emozioni vanno per la
maggiore perché sono quelle che riproducono il dire, ma se uno potesse
considerare per esempio la condizione cioè il linguaggio e di come le emozioni
per funzionare siano preconfezionate, nel senso che le emozioni sono un
programma sempre uguale che però non posso conoscere vado nel frigorifero,
metto l’acqua, diventa ghiaccio e traggo una grande emozione…
Si emoziona con il ghiaccio?
Intervento: no ma
qualsiasi emozione…
Ve la dico così, giusto approfittando del fatto che
siamo a ferragosto: questo discorso, portato alle estreme conseguenze, il
nostro discorso porta all’assenza di emozioni? La
risposta è: sì. Magari nelle conferenze è preferibile andare più cauti, se no
le persone si terrorizzano, quindi bisogna arrivarci per gradi, ma è così, il
linguaggio non ha nessun bisogno di emozioni,
l’emozione ha a che fare con la sorpresa con una verità improvvisa, se io so
dove sta la verità nessuna verità improvvisa mi sorprende. Bene, questo incontro di ferragosto è stato però denso di cose…
Intervento: un’emozione
sarebbe una contraddizione al nostro discorso? teoricamente
sì…
È inutile, non serve a niente, non ci sono più emozioni
perché non interessano più, lo stesso motivo per cui
uno cessa di giocare con i soldatini…
Intervento: però averle
le emozioni comporta appunto…
Comporta una certa ingenuità. Va
bene ci vediamo giovedì prossimo.