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17 luglio 2024

 

Plotino Enneadi

 

Le Enneadi appaiono essere uno dei testi più importanti di tutta la civiltà. Le metterei al pari della Bibbia, cioè, in pratica, uno di quei testi che cambiano radicalmente il modo di pensare del pianeta intero. Potremmo dire che Plotino ha inventato il monoteismo, quantomeno lo ha istituzionalizzato. Inventando il monoteismo ha dato alla religione un aspetto nuovo; la religione esiste da sempre, ma, per esempio, quella dei greci era tutt’altra cosa da quella di Plotino. Il lavoro che fa Plotino è di costruire, passo dopo passo, il giusto modo di pensare, e cioè quel modo di pensare che può garantire a ciascuno di trovarsi nel giusto modo di pensare. D’altra parte, se Plotino ha inventato il cristianesimo, che dura da più di duemila anni, ci sarà il suo motivo. Come mai ha avuto tanto successo? Domanda che ci poniamo spesso, ma a questo punto forse è il caso di dare una risposta. Plotino ha, sì, certo, inventato il cristianesimo e quindi, con il cristianesimo ha inventato anche la società civile, ha inventato la scienza – l’ha resa pensabile, non l’ha inventata lui. Ha inventato, cioè, quel modo di pensare che si sostiene su qualche cosa di ineffabile, su qualcosa che non c’è; qualche cosa di ineffabile ma che regge tutto. L’esempio più evidente è l’aritmetica: I numeri in aritmetica sono fondamentali, su cosa si reggono? Non si sa, però, si suppone che ci sia un qualche cosa che regge tutto quanto: nessuno sa che cos’è, ma c’è. Questa è l’idea portante in tutto il neoplatonismo, quindi nel cristianesimo e, quindi, nel pensiero comune. Ma, oltre a queste invenzioni, che altro ha inventato? Plotino ha resa possibile quella che poi Hegel chiamerà “anima bella”, l’ha resa possibile, l’ha resa pensabile proprio grazie all’assoluto. Ha dato, cioè, alle persone l’opportunità di pensare di essere meglio degli altri. Non il migliore, badate bene, perché l’anima bella non oserebbe mai tanto, ma meglio degli altri. Perché? Perché conosce la verità, perché quello che pensa è la verità assoluta, anche se non è posta così, però, funziona in effetti come la verità assoluta. Ora, è proprio questo l’elemento che ha fatto sì che Plotino abbia avuto un successo strepitoso. Perché è così importante questa cosa dell’anima bella? Curioso poi che prima di Hegel nessuno abbia mai posta la questione, neanche dopo a dire il vero. Plotino ha offerto alle persone su un piatto d’argento l’opportunità di sentirsi migliore di altri; quindi, ha offerto l’opportunità di redarguire il prossimo perché non sa, perché non si rende conto. Ha fornito, attraverso il suo discorso, un’arma straordinaria alla volontà di potenza, perché ha detto: tu – è la volontà di potenza che parla – hai a disposizione la verità assoluta, che nessuno può mettere in discussione perché non è dimostrabile, ma ce l’hai, e questo ti autorizza a sentirti migliore di chiunque. Quindi, ha reso possibile alle persone di pensare di trovarsi in quella posizione di forza, di superiorità, di sentirsi superiori, migliori di tutti. Ora, tenuto conto che la volontà di potenza aspira esattamente a questo, ad avere potere, a godere di questa posizione di superiorità, di forza, ciò che ha offerto Plotino è stato determinante e, potremmo dirla così molto semplicemente, da quel momento non c’è più stato bisogno di altro: ha fornito tutto, tutto ciò che era necessario. Questo ha fatto sì che il neoplatonismo, quindi cristianesimo, abbia potuto avere tutto il successo che ha avuto. In fondo, risponde alla domanda famosa Nietzsche: duemila anni e nessun nuovo Dio. No, non ce n’è bisogno perché quello che c’è è più che sufficiente, nel senso che offre ciò di cui ciascuno ha bisogno: sentirsi più importanti degli altri. Una volta ottenuto questo, di che altro può avere bisogno qualcuno? Se io sono, se mi sento il meglio, che altro posso volere? Ho tutto ciò di cui ho bisogno. Ecco perché non è servito nessun nuovo dio: perché quello che c’era forniva tutto il necessario, cioè, la possibilità di sentirsi migliore. È questo che fa Plotino, è questa la cosa straordinaria e incredibile, perché leggendo Plotino, le finezze teoretiche, il problematizzare delle questioni importanti, tutto ciò non esiste, non c’è niente di tutto ciò. C’è questa necessità, al di sopra di tutto, di sottomissione. Che poi è questo che, in fondo, l’anima bella vuole, che ciascuno si sottometta a questo assoluto, che lei conosce, naturalmente. Sottomissione, che poi è diventata una legge per esempio nell’islam. sette secoli dopo il cristianesimo. In Plotino la sottomissione è sempre presente, ne parla continuamente nelle prime Enneadi: sottomettersi all’Uno, di fronte all’Uno ci si può solo sottomettere. Ora, se io conosco l’Uno, so che procedo dall’Uno, so che tutti procedono dall’Uno, per cui tutti devono sottomettersi, con le buone o con le cattive. Quindi, questi sono gli elementi importanti: l’assoluto, indimostrabile, perché, se fosse dimostrabile, sarebbe sottoponibile a un criterio verofunzionale, cioè, qualcuno potrebbe controargomentare, mentre di fronte all’assoluto è impossibile controargomentare. Quindi, un assoluto non argomentabile né argomentato, naturalmente: infatti, non lo argomenta, dice che c’è e basta, perché c’è l’Uno, perché pensando tutti quanti cercano di unificare i pensieri e, quindi, c’è l’idea – che poi è di Platone – che ci sia un uno al di sopra di tutto, che è quello che unifica tutte le cose. È questa la sostanza dell’argomentazione di Plotino per giustificare l’Uno, non è che sia chissà che cosa. Poi, questo Uno, che non è argomentato né argomentabile, diventa un’ipostasi; se non è argomentabile è un’ipostasi. Questa ipostasi è quella cosa che esige la sottomissione, perché non c’è qualcuno che possa opporsi all’Uno, quindi, io sono autorizzato, se conosco l’Uno, a imporlo; anche se in Plotino non c’è proprio questa imposizione, che verrà dopo con il cristianesimo e, soprattutto, con l’islam, sono autorizzato a imporre la sottomissione. Ed ecco il terzo elemento, la volontà di potenza: io, conoscendo questo, ho il potere di “imporre” a tutti quello che io penso, perché quello che io penso è, se viene dall’Uno, dall’assoluto, è necessariamente vero. Quarto elemento è l’utilizzo fatto dalla volontà di potenza, che vive di questo, vive dell’idea del pensiero di essere migliore, per il solo fatto di essere a conoscenza, in un modo o nell’altro, di questo assoluto. Mi vengono alla mente certi programmi televisivi, come Lascia o raddoppia, dove si deve rispondere a delle domande molto stupide, ma dove ciascuno ha l’opportunità, se sa rispondere alle domande, di sentirsi importante. Senza sapere, senza volere, ignorando totalmente Plotino, hanno utilizzato il suo stesso criterio: fare sentire qualcuno importante, perché ha una conoscenza che altri non hanno.

Intervento: C’è un aspetto gnostico in tutto questo.

La gnosi, in effetti, potremmo dire che è il contrappunto del neoplatonismo, come dire che inserisce nella melodia del neoplatonismo un’altra melodia che la richiama; tuttavia, quest’altra melodia è fatta di un qualche cosa che per Plotino era un’eresia assoluta, perché l’idea di potere diventare l’Uno lo mandava fuori di matto. Però, per gli gnostici era questa la scommessa: diventare Dio. È ciò che poi, in effetti, è accaduto storicamente con l’Illuminismo, con la ragione. La ragione è stata in un certo qual modo sottratta a Dio. Se ce l’ha lui devo avercela anch’Io, perché mai deve avercela solo lui? Lo stesso Galilei: l’universo è scritto in caratteri matematici, per cui se noi conosciamo la matematica siamo come dio. Possiamo essere Dio. Con l’Illuminismo la ragione ha preso il sopravvento sulla religione, si è sostituita a partire già da Spinoza, che ha aperto la strada: la natura e Dio sono la stessa cosa, la natura è ragione e ordine, chiaramente. Ecco, dunque, con queste quattro mosse, che vi ho elencate, Plotino ha vinto, ha sbaragliato il resto del mondo; non solo, ma ha costruito un pensiero che è diventato necessariamente dominante, perché non c’è un altro pensiero che fornisca la stessa soddisfazione alla volontà di potenza, di dire a chiunque “tu non sai, io so”. Non che questa cosa non esistesse in Platone, certo che c’era, ma con Plotino è istituzionalizzata, ha avuto le sue ragioni. Così come la religione, come sappiamo, è sempre esistita da quando c’è traccia degli umani, ma una religione pensata a questa maniera, che fornisce, cioè, al singolo individuo la possibilità di essere direttamente a contatto con l’Uno, con Dio, questo non c’era prima, l’ha inventata Plotino. In fondo, la differenza tra neoplatonismo e gnosticismo si può anche ridurre a questo: gli gnostici dicono “sarete come dei”; per il neoplatonismo, no, non sarete come Dio, perché Dio è irraggiungibile, ma ci andrete molto vicino se fate le cose giuste, se vi comportate ammodo, Dio vi sarà vicino e potrete eventualmente godere del Bene assoluto. In fondo, la differenza è questa. Siamo a pag. 585. Qui Plotino cerca di giustificare alcune cose. Per esempio, l’ingiustizia: se c’è l’Uno, come è possibile l’ingiustizia? È un problema sollevato in seguito anche dai teologi medioevali. Se le cose devono accadere secondo cause e conseguenze naturali e secondo la ragione e un ordine unico, bisogna credere che anche i più piccoli particolari siano ordinati e coordinati. Tutto viene dall’uno, quindi. Certamente, l’ingiustizia che un uomo commette verso un altro è sempre un’ingiustizia da parte di chi la commise e il suo autore non sfugge al castigo; ma poiché è inserita nell’ordine universale, non è ingiustizia in esso, neppure per colui che l’ha subita: perché così era necessario. Se colui che la subisce è buono, anche l’ingiustizia conduce per lui a un bene. Quindi, sottomettetevi, è per il vostro bene. Prima non sarebbe stato proponibile un discorso del genere; pensate all’eroe greco, non si sottomette neanche per idea. Non si pensi però che questo ordinamento sia empio o ingiusto: esso assegna con rigore a ciascuno ciò che gli spetta, ma le sue ragioni sono occulte e a chi le ignora offrono motivi di biasimo. Ci sono le buone ragioni, ma sono occulte. È sempre per il vostro bene, perché è tutto all’interno dell’Uno e, quindi, del Bene assoluto: voi non lo vedete ancora, ma è per il vostro bene. A pag. 589. E nemmeno c’è da credere – penso – che le anime si servano del linguaggio finché sono nel mondo intelligibile o, con il loro corpo, nel cielo. Tutto ciò che per bisogno o per incertezza ci induce quaggiù a parlare, lassù non ha luogo; le anime, agendo sempre nell’ordine a seconda natura, non hanno bisogno né di comandare né di consigliarsi, ma possano conoscersi, nei loro rapporti reciproci, con un atto intuitivo. Anche quaggiù noi riusciamo a comprendere spesso persino chi tace, da un semplice sguardo; ma lassù il corpo è tutto puro e ciascuno è come un occhio, nulla è nascosto o simulato; e prima che si parli ad un altro, costui ha già visto e compreso. Lassù non c’è il linguaggio, non serve il linguaggio, perché è già tutto compreso all’interno dell’Uno. Quindi, non essendoci linguaggio, non c’è neanche nulla da obiettare. Riprende Platone, naturalmente, e cioè il fatto che le Idee, che stanno lassù, non hanno bisogno di nulla. A pag. 609. O forse sarà la parola che accompagna l’atto intellettivo, quella che viene accolta nell’immaginazione. L’atto intellettivo, infatti, è senza parti e finché non è uscito, per così dire, al di fuori, ci sfugge; ma la parola, esplicando il pensiero e facendolo passare dall’ambito intellettivo a quello immaginativo, ne mostra l’atto come in uno specchio, e così il pensiero è colto, persiste ed è ricordato. Ecco, questa è la funzione del linguaggio: ricordare le cose e in qualche modo rappresentarsele, è l’immaginazione. A pag. 613. Essa (l’anima) fugge dal molteplice e conduce il molteplice ad unità... Badate bene: fugge il molteplice come il male. …abbandonando l’indeterminato. Qualcuno potrebbe dire: ma non abbiamo detto che l’Uno è indeterminato? Ci sono contraddizioni continue, un disastro totale… ma non importa, perché anche le contraddizioni, se ci sono e ci sono, sono gestite dall’Uno. Questo poi lo diranno i teologi medievali, Cusano in prima istanza: tutte le contraddizioni che ci sono convergono verso l’Uno, sono per così dire annullate nell’Uno, il quale non solo le gestisce, ma le ha anche prodotte, perché l’Uno ha in sé tutto, anche la contraddizione. Solo così essa non ha più in sé con sé il molteplice, ma è leggera e sola con se stessa: infatti, anche quaggiù, allorché desidera essere lassù, pur rimanendo sulla terra, abbandona qualsiasi altra cosa: poche infatti sono le cose che di qui essa porta lassù: anzi, nella sua dimora celeste il più lo lascia perdere. A pag. 615. …che cosa dirà? quali ricordi conserverà un’anima che sia entrata nel mondo intelligibile, vicino alla realtà suprema? È logico affermare che essa contempli ed operi fra quelli esseri in mezzo ai quali si trova, oppure essa non è affatto lassù. Nulla essa ricorda delle cose terrene, nemmeno, per esempio, di aver studiato filosofia né di aver contemplato, stando quaggiù, gli Intelligibili. Si dimentica tutto perché non ha più bisogno di niente. Poco dopo. E poi, se – com’è plausibile – ogni pensiero è senza tempo, perché le cose di lassù non sono nel tempo ma nell’eternità, non è possibile lassù il ricordo, non sono delle cose di quaggiù, ma di una cosa qualsiasi. Se è eterno, non c’è né presente, né passato, né futuro. Anzi, lì ogni cosa è presente… Ecco, almeno uno c’è, il presente. …poiché non c’è né un discorso né un passaggio da cosa a cosa. Ma come? Non c’è divisione, dall’alto, in categorie, e un salire, dal basso, all’universale e al superiore? Non c’è questa cosa, quindi, non c’è induzione né deduzione. Si neghi pur questo all’Intelligenza che è tutta in atto; ma perché ciò non varrebbe per l’anima, che si trova lassù? Che cosa impedisce che anch’essa diventi l’intuizione subitanea di cose intuite tutte insieme? Forse è come l’intuizione di una cosa singola colta tutta quanta? No, ma come se gli atti di pensiero, tutti insieme, abbracciassero molte cose. Poiché, come la cosa vista è variata, così si fa variato e molteplice anche l’atto del pensiero; e molti sono i pensieri come sono molte le sensazioni nella percezione di un volto, essendo visti nello stesso tempo gli occhi e il naso dalle altre parti. Arriva quindi al dunque. Ma se l’anima divide e dispiega qualcosa di unitario? Nell’Intelligenza la divisione è già fatta, e un simile atto e per essa piuttosto un punto d’appoggio; nei generi il prima e il poi non hanno a che fare col tempo; perciò, anche il pensiero del prima e del dopo non ha nulla di temporale, ma ha soltanto un rapporto con l’ordine... Ecco, qui deve risolvere di nuovo il problema dell’uno e dei molti: se c’è l’uno e i molti vuol dire che prima c’è l’uno poi l’altro; no, perché se c’è l’eternità c’è l’infinito, quindi, non ce né un prima né un dopo; quindi non ci sono i molti, c’è soltanto l’uno. A pag. 617. L’uomo, dunque, è in atto se stesso solo quando non pensa nulla? Certamente: se l’uomo resta se stesso, allora egli è vuoto dell’universo, perché non lo pensa. Ma se questo io è tale da essere il tutto, allora, se pensa se stesso, pensa insieme il tutto: sicché un tale essere, guardando a se stesso, vede sé in atto e insieme abbraccia tutte le cose e contemplando tutte le cose, abbraccia insieme se stesso. Questa è la sua idea di come l’individuo si rapporti all’Uno: vedendo le cose, lui vede l’Uno, perché vede ciò che le ha prodotte e, quindi, abbracciando le cose, abbraccia l’Uno. Ma l’anima, quando è nel mondo intellegibile, sperimenta ciò come qualcosa di diverso quando pensa prima se stessa e poi gli Intelligibili? No, se essa è in stato di purezza nel mondo intelligibile, possiede anch’essa l’inalterabilità. Essa è allora ciò che sono gli oggetti del suo pensiero. Poiché, quand’essa si ritrova in quel luogo, deve necessariamente arrivare a unificarsi con l’Intelligenza, una volta che gli si sia rivolta; e, rivolta che gli si sia, non ha alcun termine intermedio e, arrivata all’Intelligenza, si accorda con lei senza tuttavia perdere se stessa; ambedue sono unità e insieme dualità. Quindi ambedue, l’Anima e l’Intelligenza, sono unità e insieme dualità. Finché l’anima si conserva così, non può alterarsi, ma è in rapporto immutabile col pensiero e rimane, nello stesso tempo, cosciente di sé, poiché è diventata una sola e identica cosa con il pensiero intelligibile. C’è questa dualità, l’Anima e l’Intelligenza, ma quando l’Anima diventa coscienza di sé, diventa una sola identica cosa con l’intelletto: di nuovo si riunisce dall’Uno, come dovevasi dimostrare. A pag. 621. E che dunque? È proprio questa potenza, con cui si ha il ricordo, che realizza in noi gli Intelligibili? No, noi non li vediamo in loro stessi quando le ricordiamo, ma se li vediamo in loro stessi, li vediamo con quel potere con cui le vedevamo lassù. Questo potere si ridesta contemporaneamente agli oggetti che lo destano, ed è questo potere che vede nei casi di cui si è parlato. Per svelarli non è necessario infatti ricorrere né a congetture né a sillogismi, che traggono altrove le loro premesse; ma è possibile parlare degli Intelligibili, come ho asserito, anche a coloro che sono quaggiù per mezzo di quello stesso potere che ha la funzione di contemplare le entità superiori;… Quindi, è meglio lasciare perdere i sillogismi, perché i sillogismi traggono le loro premesse da altrove, e poi non si sa bene queste premesse di cosa siano fatte: è meglio un rapporto diretto con l’Uno. Se io percepisco l’Uno dentro di me, non ho bisogno di argomentazioni. Come vi dicevo all’inizio, teoreticamente è assolutamente irrilevante tutto ciò, ovviamente, però, c’è questo altro aspetto, chiamiamolo, emotivo. A pag. 629. Del Principio ordinatore noi parliamo in due sensi: ora come “Demiurgo”, ora come “Anima del mondo”; e quando parliamo di Zeus, ora ci riferiamo al “Demiurgo”, ora al Principio che regge l’universo. Ma adesso, riguardo al Demiurgo, dobbiamo eliminare assolutamente ogni “prima” e ogni “dopo” e attribuirgli una vita immutabile e atemporale. Ma la vita dell’universo, che implica in sé il Principio reggente, richiede un discorso più lungo. Certamente, l’Anima del mondo non trascorre la sua vita nel calcolare e nel ricercare quello che deve fare! Poiché ciò che egli deve fare è già ideato e ordinato, non però ordinato a un certo momento, perché le cose fatte a un certo momento erano degli accadimenti, ma il principio creatore è l’ordinamento stesso, cioè l’attività dell’anima, la quale dipende da quella immobile saggezza la cui immagine è l’ordine interiore dell’anima stessa. Ecco, qui c’è un ordine interiore. Come sappiamo che deve esserci un ordine assoluto? Lo sappiamo perché c’è un ordine interiore: io lo sento. Proprio perché questa saggezza non subisce mutamenti, necessariamente non può mutare nemmeno l’anima: infatti non ci sono momenti in cui essa guardi lassù e momenti in cui non guardi (in tal caso rimarrebbe nell’incertezza). L’incertezza? Lassù è il bene assoluto, come fa a esserci incertezza? L’anima è una e una è la sua opera: anche il Principio reggente è sempre uno, e mai accade che una volta domini e una volta sia dominato: da dove infatti sorgerebbe quella molteplicità che potrebbe generare il contrasto e l’incertezza? Ecco, la molteplicità è sempre causa, sempre foriera di malanni, di contratti e di incertezze. I molti sono il male, lo diceva Platone, l’Uno il Bene assoluto; quindi, si tratta sempre di far convergere i molti verso l’Uno. Eppure, anche se, rimanendo una, mutasse le cose, non rimarrebbe tuttavia nell’incertezza: perché, se pur vi sono nel mondo tante forme e parti e tanti contrasti fra le parti, non per questo l’anima sarà incerta sul come disporle: essa non comincia dalle cose ultime e dalle parti, ma dalle cose prime e, partendo da ciò che è primo, procede senza ostacoli sul suo cammino verso tutte le altre e dà loro ordinamento e il suo dominio è possibile perché essa persevera in un’opera unitaria e identica e rimane sempre la stessa. Questo è importante, è una “critica” ad Aristotele. Sta dicendo che se si partisse dal basso, cioè dai molti, per arrivare all’Uno – come diceva Aristotele, per induzione costruisce la premessa maggiore, cioè l’universale – questo non andrebbe bene perché allora rimarrebbe incerta. Cosa vuol dire che rimane incerta? Che non riesce a stabilire l’assoluto, così come non riesce a farlo ovviamente Aristotele. Per potere permanere l’assoluto bisogna partire dall’assoluto, cioè da qualcosa che non esiste, e poi da lì dedurre una serie di implicazioni necessarie; ma partendo sempre da qualcosa che non esiste, cioè da questo assoluto che non esiste per Aristotele: non c’è, la verità epistemica è una fantasia, un’idea, così come un’altra. Per questo è importantissimo che questo assoluto sia fuori dal linguaggio: questa è una condizione assoluta, la condizione assoluta dell’assoluto, cioè che non sia il risultato di un’argomentazione, cioè che non provenga dai molti, perché il risultato di argomentazione è il risultato di molti che a un certo punto forniscono questo risultato; ma questo non può avvenire, perché tutto ciò non fornisce nessuna certezza, nessuna sicurezza. A pag. 631. Quale calcolo, quale numerazione o quale ricordo saranno necessari qui dove una saggezza, eternamente presente e operante, domina governa sempre uguale a se stessa? Se c’è questa saggezza eternamente operante ed eternamente presente, a cosa serve calcolare? Abbiamo già tutta la certezza che ci serve. E poiché le cose che accadono sono varie e differenziate, non c’è bisogno di pensare che il loro Creatore ne segua i mutamenti, anzi, quanto più i fenomeni sono differenti, tanto più il Principio creatore permane inalterabile. Non si cura dei dettagli, dei particolari, delle cose che accadono quaggiù, e non se ne cura non tanto perché ha altro da fare, quanto perché, in realtà, non ha niente da fare. Essendo tutto, la conoscenza, la verità, il Bene assoluto, non ha nulla da fare perché non gli manca niente. Se si occupasse dei particolari sarebbe perché ha bisogno di qualche cosa, di occuparsi di quella cosa lì, e, invece, no. Questo poi è il credo dalla Chiesa: Dio non è che si occupa dei problemi. Certo, dovete pregarlo perché fa bene, anche alla salute, ma non potete pretendere che Dio si occupi dei vostri problemi, come quello che prega per vincere al totocalcio. Dio non si occupa di queste cose, ha altro a cui pensare, cioè nulla, perché è nulla, in effetti. Qui si apre la questione enorme, di nuovo ripresa dai teologi medievali; il fatto che questo Uno… lo stesso Plotino dice a un certo punto che è nulla, è nulla di tutto; da qui la teologia negativa, per cui Dio non è questo, non è quest’altro, quindi, è nulla. Sì, ma questo nulla è ciò su cui si costruisce tutto, che rende possibile tutto. Come dicevo, è stato uno dei grossi problemi della teologia medievale, perché è tutto ma è anche nulla, cioè, è simultaneamente l’uno e i molti. E, allora, come si risolve il problema? È al di sopra, è al di sopra di queste contraddizioni, anzi, è lui che le crea; e queste contraddizioni sono in lui perché in lui è tutto.

Intervento: Ma perché avrebbe bisogno di creare contraddizioni?

Le contraddizioni ci sono perché noi le rileviamo, quindi, se ci sono perché noi le rileviamo, vuol dire che in qualche modo si sono costruite. Ma chi le ha costruite? L’unica risposta possibile è che l’abbia costruite l’Uno, perché solo lui può costruire le cose, e se le ha costruite c’è un motivo superiore, occulto, ma c’è.

Intervento: Per gli gnostici il male che c’è sulla terra è stato creato dal Demiurgo….

Per Plotino non c’è creazione del male, non esiste il male, non può esistere perché Dio è il Bene assoluto e, quindi, non può creare il male. A pag. 633. Le difficoltà si incontrano – così sembra – quando ci si dedica a opere estranee, di cui cioè non si ha il dominio. Ma in quelle cose, di cui uno ha l’esclusivo dominio, di che cosa costui avrà bisogno se non di se stesso e del suo volere? Vale a dire, del suo pensiero razionale: poiché, per un essere come lui, il volere non è che pensiero. Di nulla dunque Egli ha bisogno per creare, dato che anche il pensiero non gli è estraneo. Egli non adopera nulla di acquisito, né riflessione, né memoria, poiché queste sono cose acquisite. Lui non ha acquisito nulla, lui pensa e ciò che pensa è, nel momento in cui la pensa quella cosa è. A pag. 635. Ma in che cosa differisce il pensiero, come l’abbiamo descritto, dalla cosiddetta natura? Il pensiero è qualcosa di primo, la natura invece è qualcosa di ultimo. La natura infatti è un’immagine del pensiero e, essendo l’ultima frangia dell’anima, possiede anche l’ultima parte della ragione che irraggia in essa: come quando in uno strato di c’era un’impronta penetra in profondità... /…/ Perciò, la natura non conosce ma crea soltanto. La natura, sì, crea, ma senza conoscere, la conoscenza non le appartiene. …cioè, essa crea dando tutto ciò che possiede, involontariamente, a ciò che dopo di essa, al corporeo, al materiale; così come un corpo riscaldato trasmette la forma del calore... Quindi, in qualche modo risolve la questione della natura: la natura crea, utilizza la materia, che, come abbiamo visto, pare a questo punto dover essere precedente, ma il fatto di creare non è sicuramente la creazione da parte dell’Uno. L’Uno procede attraverso l’Intelletto, poi attraverso l’Anima, dopo c’è la natura e tutto il resto. Quindi, la natura può creare, sì, ma entro i suoi limiti, per così dire. A pag. 641. Qui si fa una domanda. È sempre la questione dell’uno e dei molti, cioè, le molte opinioni che sono molte anziché una sola. Ma anche la parte migliore di noi stessi cambia di opinione? La parte migliore di noi stessi è quella che è rivolta verso l’Uno, e se cambia opinioni che si fa? Non si sottomette più all’Uno? No, il dubitare e il cambiare d’opinione dipendono dallo scontrarsi delle nostre facoltà: la retta ragione, che proviene dalla parte superiore dell’anima immersa, com’è nel complesso delle facoltà, perde il suo vigore, non per se stessa ma perché si trova nella mescolanza… Sono sempre i molti a creare problemi. …allo stesso modo, nel vasto tumulto dell’assemblea, non è il migliore dei consiglieri che si imponga con la sua parola, ma i peggiori fra quelli che urlano e schiamazzano; quello invece siede tranquillo e non può nulla, travolto dal baccano degli individui peggiori. Anche nell’uomo malvagio, il complesso delle facoltà – di cui l’uomo risulta è simile a uno Stato male organizzato… Sono tutte cose che lui vuole dire per affermare che il male non c’è, non è naturale, perché sennò dovremmo ammettere che viene dall’Uno, cioè, da Dio; sarebbe lui che crea il male e questo non è neanche pensabile, perché Dio è il Bene assoluto. Nell’uomo mediocremente buono è come in una città in cui domina un buon elemento, essendo il governo democratico piuttosto temperato; nell’uomo migliore, la vita è simile a un governo aristocratico, poiché qui l’uomo rifugge dal complesso delle facoltà e si affida a quanto c’è di migliore in lui; nell’ottimo che si distacca, è unica la potenza dominante e da essa deriva l’ordine di tutte le altre cose, come in ordinamento statale che si divida in un elemento superiore e in molti di inferiori, ordinati in funzione di quello superiore. Che nell’Anima dell’universo ci siano dunque unità, identità e uniformità e che nelle altre anime sia diversamente, e per quali ragioni, l’abbiamo detto. E perciò basti così. Qui pone un problema, che già Aristotele poneva; Plotino, però, non lo problematizza. A pag. 651. Non bastano dunque queste due cose sole (l’Anima e la forma), l’oggetto esterno e l’anima, soprattutto perché l’anima non soggiace ad impressioni, ma occorre un terzo elemento che soggiaccia alle impressioni, cioè che possa ricevere la forma. Questo deve avere un sentire comune con colui che percepisce ed essere della stessa materia. Esso subisce l’impressione e l’anima conosce; e l’affezione poi deve essere dare da conservare qualcosa di colui che la produce. È il problema del terzo uomo, di cui parla Aristotele, che non ha soluzione: vedo Cesare, ma il fatto di vedere Cesare comporta il fatto che io abbia un’idea di Cesare, che fa da terzo – terzo uomo –, cioè, l’idea di Cesare attraverso la quale io vedo Cesare. Poi, questa idea, a sua volta, deve essere in contatto con Cesare, ma come? Attraverso un’altra idea. E, quindi, si va avanti all’infinito. È il problema, se ci pensate bene, di Aristotele dell’inerenza: che cosa garantisce che una cosa inerisca a un’altra, che all’uno segua il due? Niente. È l’ύμάρχειν, cioè, un comando: dico che è così e tanto basta, non si discute. Perché, in effetti, non c’è nessuna dimostrazione possibile, cioè, l’inferenza, che serve per le dimostrazioni, non è dimostrabile, se non ricorrendo, lo dirà più avanti Plotino, alla simpatia, per cui il conseguente sarebbe simpatico all’antecedente, e allora ci sarebbe una connessione tra i due. Eccola qui la simpatia. A pag. 657. Perché è necessario, avendo essa un’anima, che i movimenti importanti non le sfuggano. E poi nulla impedisce che la terra abbia la facoltà percettiva proprio allo scopo di ordinar bene le cose umane, finché le cose umane sono in rapporto con essa, ma le può ordinare bene solo mediante la simpatia; e può ascoltare coloro che pregano ed esaudire le loro suppliche, ma non alla maniera nostra… Ecco come risolve il problema delle inferenze: con la simpatia. Per Aristotele l’inferenza non può essere dimostrata, non è dimostrabile ciò che utilizziamo per dimostrarlo, così come ciò che usiamo per calcolare. Plotino come la risolve? Con la simpatia; il conseguente è simpatico all’antecedente, e bell’e fatto.