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17 luglio 2019

 

La Fenomenologia dello spirito di G.W.F. Hegel

 

Siamo al Capitolo II, La percezione o la cosa e l’illusione. È un capitolo interessante, complesso. La certezza immediata non prende il vero, perché sua verità è l’universale. Invece, tutto ciò che per lei è l’essente, la percezione lo prende come Universale. Nel senso che non ha altro modo. Dacché suo principio in generale è l’universalità, i momenti di essa, immediatamente distinguentesi, sono: Io come Io universale, e l’oggetto come oggetto universale. Quel principio è sorto a noi… È sorto a noi, cioè, ci è apparso inequivocabilmente, diciamola così. …e quindi il nostro apprendere la percezione non è più un apprendere apparente, come era quello della certezza sensibile, ma necessario. Sta dicendo che questa cosa ci è apparsa come inequivocabile, come incontrovertibile, e cioè il fatto che ci sia e ci sia l’oggetto, e che io colga l’oggetto non come singolarità ma come universalità. Nell’atto in cui il principio sorge son già contemporaneamente divenuti i due momenti, i quali al loro apparire soltanto vengon fuori:… Cioè, nel momento della percezione compaiono queste cose. …l’uno il momento dell’indicare; l’altro il movimento medesimo, ma come alcunché di semplice; l’uno il percepire, l’altro l’oggetto. In Hegel si tratta sempre di due movimenti. …il movimento, il dispiegamento e la distinzione dei momenti; l’oggetto, il loro essere raccolti insieme. Tutti questi momenti nella percezione vengono chiaramente raccolti insieme, sennò non si percepisce. Per noi o in sé, l’universale come principio è l’essenza della percezione, e di contro a questa astrazione i due distinti, il percipiente e il percepito, sono l’inessenziale. Questo è importante. L’universale è l’essenza della percezione, cioè: la percezione è percezione dell’universale; potremmo dire, percezione del significato, per cui ciò che percepisco sono significati. Ciò che importa, ciò che è essenziale, dice Hegel, è questa relazione. Il significato, l’universale, è una relazione, poiché una cosa è quella che è in relazione a un’altra. Rispetto a questa relazione, che è l’essenziale, io che percepisco e la cosa che è percepita diventano inessenziali. È la relazione ciò che conta, che è in prima istanza. A pag. 94. …soltanto la percezione ha nella sua essenza la negazione, la differenza o la varietà molteplice. Quindi, dice che la percezione è comprensiva della negazione: ciò che percepisco non può darsi sena la negazione. Punto 24. Il questo è dunque posto come non questo o come tolto… Nell’universale non c’è questo in quanto tale, il questo è tolto: se c’è ‘universale non c’è il singolare, il particolare. …e, quindi, non come un nulla, anzi come un nulla determinato, o come un nulla di un contenuto, cioè del questo. Il questo è un nulla di contenuto; quindi, la cosa, è un nulla di contenuto. Perciò il sensibile è esso stesso ancora presente,… Il sensibile, cioè, ciò che percepisco, che mi viene incontro. Ma non come dovrebbe essere nella certezza immediata, ossia come il singolo dell’opinione, bensì come universale, o come ciò che si determinerà come proprietà. Ciò che mi appare, dunque, è sempre l’universale, perché il questo è nullo, c’è ma è nullo di contenuto; l’oggetto, la cosa, è nulla di contenuto, c’è solo l’universale. Il superare presenta il suo vero duplice significato che noi abbiamo visto nel negativo; è un negare e parimenti un conservare. Il superare è questo: mantenere, conservare il negativo, ma superarlo. Più avanti. Ma anche l’universalità semplice ed eguale a se stessa è essa stessa distinta e libera da quelle determinatezze;… L’universale è determinato da una serie di cose. Se è universale ci dice che tutte quelle cose che comprende hanno certe proprietà. …essa è il puro rapportarsi a se stesso o è il mezzo dove quelle determinatezze, tutte quante, sono; dove tutte quante, dunque, si compenetrano in essa come in un’unità semplice, ma senza toccarsi;… Ecco che ritorna sempre alla stessa cosa: l’uno e i molti. L’uno, l’universalità è uno, un’unità; ma è fatta di molti. …giacché esse sono indifferentemente per sé proprio per via della partecipazione a questa universalità. Tale astratto mezzo universale che può venir detto la cosalità in generale o l’essenza pura, non è altro dal qui e dall’ora, com’essi si sono mostrati, cioè come un insieme semplice di molti;… Il “qui”, per esempio, è uno; quando dico “qui” dico qualcosa che è singolare apparentemente ma è un universale, perché questo “qui” è tutti i “qui” possibili. Fa poi un esempio. Questo è un qui semplice ed è in pari tempo molteplice: è bianco, ed è anche sapido, ed è anche cubico di forma, e anche di un peso determinato, ecc. È anche tutte queste cose. Tutte queste molte proprietà sono in qui semplice… Perché sono il sale. …dov’esse dunque si compenetrano; nessuna ha un qui diverso da quello dell’altra;… Difatti, il sapido è qui, il cubico è qui, sono tutti qui, hanno tutti in comune questo “qui”. …e in pari tempo, senza essere staccate per via di qui diversi, in questa compenetrazione esse non si affèttano;… Non si affèttano, cioè, non si contaminano, non si influenzano, non si alterano. …il bianco non affètta né altera il cubico, entrambi non toccano il sapido, ecc.; anzi ciascuna, poiché è un semplice rapportarsi a se stessa,… Ciascuna di queste determinazioni si rapporta a se stessa: il sapido è il sapido, non è il cubico. …lascia in pace le altre e loro si rapporta solo mediante un indifferente anche. Questo “anche” è l’unica cosa che le connette: il sale è sapido ma anche cubico, ma ha anche un peso, ma anche… Questo “anche” è dunque proprio il puro universale o il mezzo: è la cosalità che raccoglie insieme quelle proprietà. Vedete come qui cerca di risolvere il problema dell’uno e dei molti e che alla fine dovrà risolvere in qualche modo; si può intuire come. In questa relazione che è resultata, per la prima volta il carattere dell’universalità positiva è sviluppato e lo si può osservare;… Questa universalità è fatta di molti, ma questi molti rimangono all’interno dell’universalità come elementi determinati e identici a sé, non si affettano gli uni con gli altri, non si modificano a vicenda, rimangono quelle che sono; quindi, sono tante cose dentro l’uno. E, allora, la domanda di Parmenide: è uno o molti? Risponderà poi qui a questa domanda. Ossia, dato che le molte determinate proprietà fossero senz’altro indifferenti e si rapportassero solamente ciascuna a se stessa, non sarebbero proprietà determinate;… se ognuna stesse per i fatti suoi da un’altra parte; invece, dice, …esse infatti lo sono in quanto si distinguono e si rapportano ad altre proprietà come opposte. Questa è l’unica cosa che le distingue, come qualunque cosa: il fatto di essere in opposizione a tutto ciò che non è quella cosa lì: il sapido non è il peso, non è il cubico. Poco più avanti. E perciò questo non è soltanto un anche, unità indifferente, ma altresì un Uno, un’unità esclusiva. Questa universalità è un uno, un’unità esclusiva. L’Uno è il momento della negazione, in quanto esso si rapporta a se stesso in modo semplice ed esclude altro, cosicché la cosalità è determinata come cosa. Per determinare una cosa devo stabilire che quella cosa non è un’altra cosa. Determinare qualcosa, come dice la parola stessa: de-terminare, cioè termine qualcosa in un certo modo, lo termine perché lì finisce la cosa e ne incomincia un’altra; questa “è” e finisce qui, quindi, è in opposizione. Nella proprietà la negazione è come determinatezza che fa immediatamente uno con l’immediatezza dell’essere… La negazione è la determinatezza, nel senso che per determinare qualcosa devo negare che questa cosa sia un’altra cosa, e, quindi, si ritrova ad essere in questa sorta di immediatezza con l’essere: questa cosa “è”, è se stessa. …ma la negazione è come Uno quando è liberata da quest’unità con il contrario, ed è in se e per se stessa. Questa negazione è Uno. Noi possiamo dire che questa cosa è uno perché non c’è niente altro che le si opponga; quindi, deve essere liberata da tutto ciò che le si oppone, da tutto ciò che è altro. In questi momenti presi insieme è compiuta la cosa come il vero della percezione,… Quindi, la percezione non sarebbe altro che il cogliere che la determinatezza di qualche cosa è tale in quanto esclude un’altra cosa, si libera da ciò che non è. Essa è α) l’universalità indifferente e passiva, l’anche delle molte proprietà o, piuttosto, materie;… Quindi, universalità indifferente e passiva, è l’universalità per se stessa, che non fa nulla, semplicemente si mostra come universale. β) la negazione non meno semplice o l’Uno, l’esclusione di proprietà opposte;… Quindi, abbiamo l’universalità e poi il fatto che l’universalità nega di avere determinazioni che si oppongono a lei. Per essere uno occorre che sia quella e non altro. γ ) le molte proprietà stesse, il rapporto dei due primi momenti; la negazione com’essa rapportasi all’elemento indifferente ed ivi si espande come una copiosità di differenze:… Il rapporto tra questi due momenti ci dice che questa negazione permane, non viene cancellata, viene tolta ma non cancellata. Dice ed ivi si espande come una copiosità di differenze, come se si moltiplicasse, perché se io dico che questa è quella che è e che non è quell’altra, questa cosa poi mi si moltiplica, ma non è neanche poi quest’altra, ma non è neanche quest’altra, ecc. …il punto della singolarità che nel mezzo del sussistere si irradia nella molteplicità. Il punto della singolarità, cioè il fatto di essere uno, in effetti, potremmo dirla così, fa fatica a rimanere uno, perché si irradia in una molteplicità, cioè, non è questo, non è quest’altro, non è quest’altro, ecc. E, allora, che uno è? Secondo quel lato per cui queste differenze appartengono all’indifferente mezzo, anch’esse sono universali, si rapportano solo a sé e non si affettano tra di loro; … ma questo rapporto di opposizione esse lo hanno necessariamente in proprietà che sono lontane dal loro anche. L’universalità sensibile, ossia l’unità immediata dell’essere e del negativo,… Sappiamo che l’universalità è l’unità immediata di una cosa e del suo negativo perché l’universalità contiene anche il negativo. …è proprietà soltanto ora, in quanto da tale universalità sono sviluppati e distinti l’uno dall’altra l’uno e l’universalità pura, ed essa li conchiude entrambi; soltanto questo rapporto di essa con i puri momenti essenziali compie la cosa. Vediamo che c’è una direzione, che poi ci porterà alla sintesi, e cioè in questa universalità per il momento vediamo come distinti l’uno e l’universalità pura. L’universalità pura è fatta di molti elementi ma è uno; la cosa è fatta di questo rapporto tra i due. A pag. 97. Così è ora costituita la cosa della percezione; e la coscienza, in quanto suo oggetto è la cosa, è determinata come Percipiente. A questo punto, dice, la coscienza può percepire, perché è in condizione di cogliere nella cosa il suo contrario, quindi, distinguere la cosa dal suo contrario e coglierla, quindi, in quanto singolarità; ma una singolarità, come vedremo tra poco, che di fatto è anche molteplicità. Quindi, il percepire è rendersi conto che la cosa è una e molti. Essa ha solo da prendere l’oggetto e da comportarsi come puro assumere; ciò che così le risulta è il vero. Se in questo prendere essa esplicasse una qualche attività, con un simile atto dell’attribuire o del tralasciare altererebbe la verità. La coscienza deve soltanto assumere su di sé soltanto passivamente la verità della cosa; non deve entrarci in mezzo, perché se ci entra altera la cosa e quindi quella cosa non è più il vero. Poiché l’oggetto è il vero e l’universale, l’eguale a se stesso, e la coscienza si è il mutevole e l’inessenziale, le può accadere di assumere l’oggetto in guisa non giusta, le può accadere di illudersi. È chiaro che se la coscienza interviene nella percezione dell’oggetto modifica l’oggetto. È quello che voleva fare Husserl: arrivare alla cosa stessa, in carne e ossa, senza mediazione. L’attività percettiva ha la consapevolezza della possibilità dell’illusione, giacché nell’universalità, che è il Principio, l’esser-altro è anch’esso immediatamente per l’attività percettiva, ma come il nullo, come il tolto. Per ciascuno, in questa attività percettiva, l’essere altro di qualche cosa viene escluso, viene considerato come niente, deve essere tolto perché o è vero o è falso. Perciò il suo criterio della verità è l’eguaglianza con se stesso, e il suo comportamento è di assumere l’eguale a sé. Essendo in pari tempo il diverso per essa, essa è un rapportare gli uni a gli altri i diversi momenti del suo assumere. Se peraltro in questo confronto scaturisca una ineguaglianza, questa non è una non-verità dell’oggetto (ché esso è l’eguale a se stesso) ma del percepire. Questo è il discorso comune: non ho capito bene, non ho visto bene, non inteso bene com’era veramente la cosa. Poco più avanti. L’oggetto che io apprendo si presenta come puramente uno; inoltre io mi accorgo della proprietà che è in esso e che è universale, ma che perciò va oltre la singolarità. Questo aggeggio, il posacenere, è singolare, ma c’è un’universalità che va oltre. È universale in quanto questo posacenere è un posacenere. Il posacenere è un universale, perché non è questo; il posacenere è tutti i posaceneri. Dunque il primo essere dell’essenza oggettiva, in quanto questa era un Uno, non era il suo vero essere;… Quello che ci appariva inizialmente, come l’uno, l’oggetto, la cosa, dice, non è l’oggetto vero. …poiché l’oggetto è il vero, in me cade la non-verità, e l’apprendere non era giusto. Anzi, in forza dell’universalità della proprietà, io devo prendere l’essenza oggettiva piuttosto come una comunanza in generale. Inoltre ora io percepisco la proprietà come determinata, come opposta ad altro ed escludente questo altro. Nella percezione c’è questo aspetto: io percepisco questa cosa in quanto non è quest’altra cosa. In effetto dunque io non ho rettamente appreso l’essenza oggettiva determinandola come una comunanza con altre o come la continuità; e in forza della determinatezza della proprietà io devo anzi separare la continuità e porre l’essenza oggettiva come un Uno esclusivo. Devo distinguere l’Uno, cioè questo, da ciò che non è. In quest’Uno, quand’esso è stato separato, io trovo molte di tali proprietà le quali, non affettandosi reciprocamente, sono reciprocamente indifferenti; quindi io non ho percepito rettamente l’oggetto quando lo ho appreso come un alcunché di esclusivo; anzi, come prima esso era soltanto continuità in generale, così è ora un universale mezzo a comune, dove ciascuna delle molte proprietà, - intese come universalità sensibili, - è per sé, e, come determinata, esclude le altre. Dice che non è vero che io apprendo un qualche cosa come un alcunché di esclusivo, ma ciò che io sto vedendo, ciò che sto prendendo, è determinata in relazione al fatto che lo escludo delle altre cose. Poco più avanti. E la coscienza, per la quale ora un essere sensibile è, è soltanto un opinare, ossia è completamente fuori dal percepire e ritornata in se stessa. Questo mio percepire muove, sì, dalla certezza sensibile, da ciò che mi appare, però deve compiere tutte queste operazioni. Compiendo tutte queste operazioni, cosa succede? Mi riporta al punto di partenza, cioè, torna a dirmi, di fatto, che questa cosa è questa cosa. Dopo aver compiuto una serie di operazioni, dopo aver escluso che questo è altro da sé, dopo avere inteso che le sue determinazioni non sono altre determinazioni ma sono quelle, a questo punto, ecco che questo aggeggio qui diventa quello che è. Ma l’essere e l’opinare sensibili passano anch’essi nel percepire:… Io dico che è, lo vedo, lo giudico, lo valuto, ma dicendo questo sono già nella percezione, non ne sono fuori, non sono nella pura e immediata assunzione della cosa in sé, ma sono nella percezione, ho già dovuto compiere una serie di operazioni di esclusione, di negazione; ho dovuto negare delle cose per potere dire che questo è questo. …io sono ancora respinto all’inizio e trascinato nel medesimo circolo che in ogni momento e come totalità toglie se stesso. Dopo tutte queste operazioni sono rigettato al punto di partenza, e cioè tutte queste operazioni vengono tolte per potere dire che questo è questo; ci devono essere state ma non ci sono più, perché mi appare soltanto questo in quanto questo. È questa la percezione: io percepisco a partire da una serie di operazioni che tolgo – queste operazioni, di fatto, non sono nient’altro che la negazione – e che mi riconduce al punto di partenza. Quindi la coscienza necessariamente lo ripercorre; ma ora non come la prima volta. Esso, cioè, quanto al percepire, ha fatto esperienza che il resultato e il vero del percepire ne sono anche la risoluzione, o sono la riflessione del vero in se stesso. La riflessione: io rifletto questa cosa, nel senso che attraverso la negazione la “identifico”, ma - nel momento in cui la identifico questa cosa diventa quella che è e, quindi, la percepisco così com’è - non è più quella di prima, non è più quella da cui era partito il movimento, quella dell’inizio, quella che descriveva al punto α) l’universalità indifferente e passiva, l’anche delle molte proprietà. Non è più quella cosa lì, non è più l’incominciamento. Così per la coscienza si è determinata l’essenziale costituzione del suo percepire: non di essere un semplice puro assumere, ma, nel suo assumere, di essere parimenti riflessa, dal vero, in se stessa. Questo ritorno della coscienza in se stessa, - ritorno che essendosi mostrato essenziale al percepire, si mischia immediatamente nel puro assumere, - altera il vero. A causa del fatto che la coscienza ha riflettuto su di sé o, più propriamente, che ho riflettuto su questa cosa, questa cosa non è più quella di prima; non è più il vero, dice Hegel, perché la cosa stessa si è mischiata al mio percepire. Adesso lo dirà molto precisamente: la cosa è quella che è, non per se stessa, ma per me. Così, come prima nella certezza sensibile, ora è qui presente nel percepire il lato per cui la coscienza viene risospinta in se stessa; ma anzitutto non nel senso in cui ciò avveravasi nella certezza sensibile, come se la verità del percepire cadesse nella coscienza; anzi ora conosce che in lei cade la non-verità che qui si presenta. Si accorge che, in seguito a tutto questo procedimento, ciò che mi accade addosso è la non verità di questa cosa; quella non verità che inizialmente appariva alla certezza sensibile. Ma con questo conoscimento la coscienza è anche capace di superare la non-verità; essa distingue la propria apprensione del vero dalla non-verità del proprio percepire; la corregge, e in quanto è essa che intraprende questa rettifica, in lei cadrà anche la verità come verità del percepire. Sta dicendo che, sì, io mi accorgo che il mio percepire altera questa verità, ma il criterio di verità che sto utilizzando è il mio, sono sempre io che stabilisco questa verità. Se ora, come si deve, si considera il comportamento della coscienza, si vedrà ch’esso è così costituito, che la coscienza non più meramente percepisce; anzi è anche consapevole della sua riflessione in sé, e separa inoltre la riflessione dalla semplice assunzione stessa. Questo è ciò che Hegel vuole. Dapprima, io mi accorgo della cosa come un uno, e ho da tenerla ferma in questa determinazione vera, è così, è quella che mi appare, è la prima percezione. Se nel movimento del percepire si presenta qualcosa di contraddittorio alla cosa, ciò è da riconoscere come mia pura riflessione. Se le cose non stanno così come io le vedo, o se penso che non stiano così, dice, è un problema della mia percezione. Ma, badate bene, Ora, nella percezione, si presentano anche diverse proprietà che sembrano essere proprietà della cosa; ma la cosa è uno, e noi siamo consapevoli che quella diversità, per cui la cosa cessava di essere uno, cade in noi. Siamo noi che stabiliamo che la cosa è Uno. Dunque in effetto questa cosa è bianca soltanto al nostro occhio, sapida anche, alla nostra lingua, cubica anche, al nostro tatto, ecc. Tutta la diversità di questi lati noi non la prendiamo dalla cosa, ma da noi stessi; così, per noi, essi lati cadono l’uno fuori dell’altro; per es. al nostro occhio che è del tutto separato dalla nostra lingua, ecc. Quindi, noi siamo l’universale mezzo del quale tali momenti, sceverandosi l’uno dall’altro, sono per sé. Siamo noi che, distinguendo una cosa dall’altra, diciamo che questa cosa è quella che è per sé. Siamo noi a dirlo. Poiché dunque consideriamo come riflessione nostra la determinatezza di essere universale mezzo, conserviamo con ciò l’autoeguaglianza e la verità della cosa: di essere uno. Noi consideriamo, teniamo ferma questa cosa, il fatto che io sono l’universale mezzo, che sono io che decido. Che cosa decido? L’autoeguaglianza della verità della cosa. Ma questi lati diversi che la coscienza prende su di sé, considerati ciascuno per sé come trovantesi nell’universale mezzo, sono determinati; il bianco è soltanto in opposizione al nero, ecc.; e la cosa è uno, proprio perché si oppone ad altre. La coscienza prende su di sé tutte queste cose, ma le prende su di sè in quanto determinate: questo aggeggio è di vetro, e il vetro non è il peso, e il peso non è la trasparenza, e la trasparenza non è il colore. Tutte queste cose sono determinate, ma la coscienza le prende tutte in sé; per dire che è Uno deve prenderle tutte in sé. In quanto peraltro è uno, essa non esclude da sé altre cose (giacché essere Uno significa essere l’universale rapportarsi a se stesso;… In quanto uno, dice, essa non esclude da sé altre cose. Non le esclude per principio, le esclude per via delle determinatezze. L’uno non esclude le altre cose, che sono presenti dentro, ma si escludono l’una con l’altra. L’uno, cioè questo aggeggio qui, non esclude di essere trasparente, di essere pesante, di essere solido, ecc., ma ciascuna di queste cose esclude l’altra, perché è determinata. Se non si escludessero sarebbero indeterminate; se fossero indeterminate, non essendoci più determinazione, non avrei più percezione; quindi queste determinatezze sono necessarie. Poiché la proprietà è la proprietà propria della cosa o è una determinatezza nella cosa stessa, questa ha parecchie proprietà. Infatti, in primo luogo, la cosa è il vero; essa è in se stessa; e ciò che è in lei, vi è come sua propria essenza,… Ciò che è in lei vi come sua essenza propria. …e non è dunque in virtù di altre cose; quindi, in secondo luogo, le proprietà determinate non sono in virtù di altre cose soltanto, e per altre cose, anzi sono in lei stessa;… Tenete conto che questa cosa però è per noi. …ma queste sono proprietà determinate in lei soltanto, in quanto son molte e reciprocamente distinguentesi: e, in terzo luogo, mentre le proprietà sono così nella cosalità, esse sono in sé e per sé, e reciprocamente indifferenti. Infatti, che questo aggeggio sia di vetro è indifferente al fatto che sia trasparente, che sia pesante, che sia solido. È dunque in verità la cosa stessa che è bianca, e anche cubica, e anche sapida, ecc.; ossia la cosa è l’anche o l’universale mezzo nel quale le molte proprietà sussistono l’una fuori dell’altra senza toccarsi e senza togliersi. E presa così, essa vien presa come il vero. Tutte queste sono le condizioni, ci sta dicendo Hegel, della percezione, cioè, che tutte queste determinazioni permangano, ma permangano in opposizione alle altre. Quindi, permane il negativo all’interno dell’Uno, perché ciascuna cosa nega di essere le altre: il sapido nega di essere cubico, per esempio. In tale percepire la coscienza è ora in pari tempo consapevole che essa si riflette anche in se stessa, e che nel percepire si presenta il momento opposto all’anche. Il momento opposto all’anche è l’unità, l’uno. Ma questo momento è unità della cosa con se stessa, unità che esclude da sé la differenza. Dice unità della cosa con se stessa … che esclude da sé la differenza, però abbiamo visto che questo “anche” è ineliminabile perché una cosa è questo, ma anche questo, ma anche quest’altro, ecc., queste cose sono determinazioni che non possono essere tolte. Ciò nonostante rimane uno e molti. È dunque l’unità che la coscienza dovrà prendere su di sé, poiché la cosa è il sussistere delle molte proprietà diverse e indipendenti. Da tutte queste determinazioni, che sono indispensabili e che sono il negativo, perché ciascuna si oppone all’altra, la coscienza deve prendere l’unità, l’uno; altrimenti non percepisce, altrimenti percepirebbe uno sterminio di cose senza mai soffermarsi su una cosa. L’unificare queste proprietà tocca soltanto alla coscienza; nella cosa, quindi, essa non deve lasciarle confluire in un uno. Alla fine la coscienza mette in gioco quell’in quanto, e con ciò mantiene le proprietà l’una fuori delle altre, e la cosa come un anche. Cioè: Alla fine la coscienza mette in gioco quell’in quanto, cioè, questa cosa è in quanto di vetro, e in quanto di vetro non è di plastica. Questo “in quanto” è una determinazione. Per l’esattezza, l’esser-uno viene anzitutto preso su di sé dalla coscienza in un modo tale, per cui ciò che veniva chiamato proprietà viene ora presentato come materia libera. Per tal modo la cosa è elevata al vero anche, divenendo una raccolta di materie; e invece di esser uno, diviene una superficie soltanto circoscrivente. Questa cosa che io percepisco è come una superficie che circoscrive una serie di determinazioni. Poco più avanti. …resulterà che la coscienza fa di sé nonché della cosa, alternativamente, e un puro uno privo di molteplicità, e un anche disgregato in tante materie, ciascuna delle quali fa parte per se stessa. Mediante questo confronto la coscienza trova, dunque, non solo che il suo prendere il vero ha in lui la diversità dell’assumere e del ritornare in se stesso, ma trova anche che proprio il vero, proprio la cosa si mostra in questa duplice guisa. È l’una cosa e l’altra, è il percipiens e il perceptum, è l’Io del movimento e l’oggetto. Dunque è qui presente l’esperienza che la cosa, per la coscienza che la accoglie, si presenta in modo determinato, ma in pari tempo esce fuori dal modo in cui si offre, per riflettersi in sé; ossia ha in lei stessa una verità opposta. Qualunque cosa che si determini, riflettendosi in sé, ha in sé l’opposto. Cosa vuol dire: riflettendosi in sé? Vuol dire che riflettendosi stabilisce che questa cosa non è altro. Punto 34. La coscienza è dunque essa stessa fuori anche da quel secondo modo di comportarsi nel percepire, il quale consiste nel prendere la cosa come il vero… Dice che la coscienza non è neanche l’accogliere la cosa come il vero, non è questo. …come il vero Eguale a se stesso, e sé come il non-eguale, come ciò che, fuori dell’eguaglianza, sta ritornando in se stesso;… Deve prendere il vero, non perché immagina che la cosa sia eguale a se stesso, ma si accorge che per prenderla come il vero ci deve essere una riflessione, ci deve essere un movimento; ma se c’è questo movimento allora non è il vero. La cosa è uno, riflessa in se stessa; essa è per sé; ma è anche per un altro, e invero è un Altro per sé, quant’essa è per un altro; così la cosa è per sé e anche per un altro; è un duplice diverso essere, ma è anche Uno; ma l’esser-uno contraddice a questa sua diversità; per conseguenza la coscienza dovrebbe ancora una volta prender su di sé quel riunire, e tenerlo lungi dalla cosa. Sta dicendo che la cosa è quella ma anche non lo è, ma anche il suo contrario. La coscienza dovrebbe dire che la cosa in quanto è per sé non è per altro. Soltanto, alla cosa stessa conviene anche l’esser-uno, e la coscienza ne ha avuto esperienza; la cosa è essenzialmente riflessa in sé. L’anche, ossia la differenza indifferente cade nella cosa, non meno di quel che vi cada l’esser-uno;… Come dire che questa differenza, sì, certo, c’è, l’uno rispetto alle altre cose che non sono questo, ma anche all’interno dell’uno, perché l’uno è per altro. Punto 36. Ora, tale determinatezza che costituisce il carattere essenziale della cosa e che la distingue da ogni altra, è così determinata che, mediante essa, la cosa è in opposizione alle altre… Una determinazione non è altro che questo, come abbiamo visto anche etimologicamente: de-terminare qualcosa, la faccio terminare qui. …pur dovendosi, anche in questa opposizione, mantenere per sé. Per mantenere se stessa deve essere in opposizione alle altre. Quindi, vedete che si mantiene per sé, ma se non negasse di essere altro non sarebbe neanche sé. Vedete che tutta la questione di Severino rispetto all’essere e al non non-essere è tutta qui. Ma la cosa è cosa o è un uno che è per sé, solo in quanto essa non sta in questo rapporto verso altre;… Se una cosa è per sé non può dipendere da altro: questo è il problema dell’uno e dei molti. …in questo rapporto è infatti di già posto il nesso con un’altra cosa,… Se è uno che è per sé, ma è per sé perché non è altro, c’è già questo rapporto con quell’altro e, quindi, è già per un’altra cosa e non più per sé. Proprio mediante il suo carattere assoluto e mediante la sua opposizione, la cosa è in relazione verso altre, ed è essenzialmente soltanto questa relazione;… Rileggo: la cosa … è essenzialmente soltanto questa relazione. Non sta dicendo una cosa indifferente: questa cosa non ha niente di materiale, di naturale, ecc., è una relazione, è un significato. …ma la relazione è la negazione dell’indipendenza della cosa;… Se è in relazione, è chiaro che non è indipendente da questa relazione. …e la cosa va anzi a fondo per via della sua proprietà essenziale. Cioè, di essere una relazione e non un’unità distinta e avulsa da tutte le altre. Per la coscienza è dunque necessaria l’esperienza di come la cosa, proprio mediante la determinatezza che costituisce la sua essenza e il suo esser-per-sé, vada a fondo;… Proprio quelle cose, che la determinano e che la fanno essere per sé, sono quelle che la mandano a fondo, perché per essere determinata, per essere per sé, per essere quella che è, deve essere per altro, perché senza la negazione - un essere per altro, un rapporto o una relazione con altro - non è neanche se stessa. …la cosa è posta come esser-per-sé o come assoluta negazione di ogni esser-altro, e quindi come negazione assoluta che si rapporta solo con sé; però la negazione che si rapporta solo con sé è toglier se stesso, ossia è avere la propria essenza entro un altro. La negazione assoluta che si rapporta solo con sé è negazione di che? Se è negazione è negazione di qualcosa, quindi, è negazione in quanto si rapporta con qualcos’altro per cui, se tolgo questo rapporto, tolgo anche la negazione. In effetto la determinazione dell’oggetto, come esso è resultato, non contiene nient’altro. Ricordatevi delle sue parole circa l’oggetto, riportate qui sopra, dove dice che la cosa è soltanto la relazione. L’uno e i molti; il fatto di essere una e di essere molti. Questo rapporto: la cosa è questo, è questo ciò che si percepisce. Esso deve avere in se stesso una proprietà essenziale che ne costituisce il suo semplice esser-per-sé; ma, pur nella semplicità, esso deve avere in lui anche la diversità, la quale deve essere necessaria, ma non deve però costituire la determinatezza essenziale. Eh, già, certo, perché la determinazione essenziale è sia l’una cosa che l’altra, sia l’essere uno sia essere molti. Ma questa è una distinzione la quale è ora soltanto nelle parole; l’inessenziale che in pari tempo deve essere necessario, toglie se stesso, ossia è ciò che testé venne chiamato la negazione di se stesso. Cos’è che è inessenziale? Sono i due termini della cosa: il percipiens e il perceptum. Queste due cose inessenziali vengono tolte. Ciò che invece è essenziale è la relazione, che fa esistere la cosa e, dunque, la percezione. Quindi, si percepisce una relazione, un significato. Un significato non è niente altro che una relazione. Con ciò cade l’ultimo in quanto che separava l’esser-per-sé e l’essere per altro. Non c’è più una cosa che è in quanto una, in quanto molti; l’in quanto non c’è più, perché è entrambe le cose simultaneamente. Sotto un unico e medesimo riguardo l’oggetto è piuttosto il contrario di se stesso: è per sé in quanto è per altro, ed è per altro in quanto è per sé. Esso è per sé, è riflesso in se stesso, è Uno; ma questo essere per sé, essere riflesso in se stesso ed essere Uno, è in unità esso il contrario, l’esser-per-altro, ed è posto quindi solo come un tolto;…Per usare i termini di Severino, questi due astratti vengono tolti per via del concreto, e rimane il concreto, cioè la sintesi. …o questo esser-per-sé è tanto inessenziale, vale a dire quanto la relazione verso l’altro. Questi momenti per sé diventano inessenziali. Ciò che rimane di essenziale è la relazione. Con ciò l’oggetto è tolto nelle sue determinatezze o nelle determinatezze che dovevano costituire la sua essenza, non meno di quel ch’esso diventasse un tolto nel suo essere sensibile. Le determinazioni dell’oggetto scompaiono perché l’oggetto, in quanto astratto, scompare, e ce lo ritroviamo come sintesi, cioè come il concreto. Movendo dall’essere sensibile, l’oggetto diviene un universale; ma questo universale, poiché deriva dal sensibile, è da questo essenzialmente condizionato; e perciò non si tratta davvero di universalità eguale a se stessa, ma di universalità che, affetta da un’opposizione, si separa perciò negli estremi della singolarità e della universalità, dell’uno delle proprietà e dell’anche delle materie libere. Questo movimento parte dalla percezione. Si percepisce, sì, l’Uno, la come unità, ma appena riflette su di sé si accorge che questo uno è fatto di molti, è fatto di una serie di determinazioni; quindi, ritorna sulla percezione sensibile, ma a questo punto la percezione sensibile diventa un’altra cosa, diventa la percezione, che tiene conto che questa cosa è quella che è per via di negazione, e che questa cosa ha in sé la sua opposizione, che questa cosa è sé ma anche non lo è, ma anche il suo contrario. Cosa che sarebbe interessante da praticare parlando. Queste pure determinatezze sembrano esprimere l’essenziale stesso, ma esse sono soltanto un esser-per-sé che è affetto dall’esser per un altro;… Ciascuna determinatezza è quella che è in quanto è per un altro, in quanto è quella che è per via del fatto che non è un’altra cosa; quindi, è quella che è per via di altro, che la fa essere quella che è. …peraltro dacché entrambi sono essenzialmente in una unità, è ora presente l’universalità incondizionata e assoluta; soltanto qui la coscienza entra veramente nel regno dell’intelletto. Soltanto quando mi rendo conto che parlando ciascuna cosa che mi appare è quella che è per via del suo contrario. Quindi, mantiene il suo contrario, perché se lo perdesse non sarebbe più quella cosa, semplicemente non sarebbe più. È il discorso che facevamo rispetto al tutto, all’intero: perché un significante sia quello che è occorre che ci siano tutti gli altri significanti, ma che tutti gli altri significanti non siano quel significante, che quel significante li comporti tutti ma che non lo sia, altrimenti non sarebbe possibile parlare.