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17-6-2015

 

Severino “Essenza del nichilismo” pagina 204, l’“Essenza dell’uomo”. C’è una questione di cui volevo dirvi e che riguarda indirettamente la psicanalisi: Se la modalità secondo cui appare la contraddizione fosse la pura contraddizione, allora l’apparire della contraddizione sarebbe impossibile, sarebbe un niente, sarebbe impossibile contraddirsi. Se il contraddirsi è un puro esser convinti della tesi e insieme dell’antitesi allora non ci si può contraddire, il contraddirsi è possibile solo se la contraddizione appare come una essenziale irrequietezza, ossia come ciò che deve essere tolto. (se uno si contraddice ma non se ne accorge per lui non è un problema ovviamente) Questo apparire come ciò che deve essere tolto è la modalità necessaria secondo cui appare la contraddizione, il quale “il contraddirsi” non è l’esser persuasi della tesi e insieme dell’antitesi bensì è l’esser persuasi della negazione, del toglimento dell’identificazione della tesi e dell’antitesi ma in quanto non si è in grado, ossia non accade la capacità di negare concretamente questa identificazione, allora tesi e antitesi sono lasciate entrambe come non tolte all’interno del toglimento della loro identità, ci si contraddice non già in quanto si sia convinti della contraddizione, questa convinzione è l’impossibile ma in quanto pur essendo convinti della necessità che la contraddizione sia negata, debba essere negata, non si dispone dei motivi che farebbero imporre la tesi sull’antitesi o viceversa (cioè non si è capaci di togliere la contraddizione) sì che la tesi e antitesi appaiono equipotenti e quindi in lotta tra di loro per il possesso dell’apparire, solo in questo senso si può dire che il contraddirsi è l’esser convinti, certi, insieme della tesi e dell’antitesi, nel senso appunto che le due restano dinnanzi come non tolte perché sebbene la loro identificazione appaia come tolta l’una delle due non è per altro capace di imporsi sull’altra. Il vivere nella non verità (vivere nella non verità significa vivere credendo nel divenire, cioè che l’Essere possa non essere). È l’apparire di quella contraddizione emergente che è la contesa tra la verità dell’Essere e l’errore, la convinzione che la terra sia il terreno sicuro, in quanto l’apparire è l’apparire della verità dell’Essere l’errore accade come tolto, resta negato da quando incomincia ad apparire. Ma in quanto l’apparire non è l’infinito apparire del tutto (la verità dell’Essere) la verità dell’Essere non esaurisce le possibilità dell’apparire, nell’apparire infinito non appare che la verità dell’Essere, in cui ogni contraddizione è superata, l’apparire finito invece in quanto finito è aperto all’irruzione dell’errore, l’apparire finito è l’apparire di una certa determinazione, l’errore irrompe nell’apparire non già in quanto appaia come negato dalla verità ma in quanto appare equipotente alla verità, (qui l’errore è immaginare che ciò che appare, questa cosa qui, costituisca la verità dell’Essere ma questo aggeggio qui è qualche cosa di finito, la verità dell’Essere riguarda tutti gli esseri) la potenza della verità è la sua incontrovertibilità, la potenza dell’errore è il puro essere convinti, la pura certezza dell’errore cioè è la fede. La fede è la certezza nell’errore. La potenza dell’errore è il fatto stesso del suo riuscire a mantenersi nell’apparire in contesa con la verità, poiché la verità dell’Essere non può sparire ma appare eternamente la distrazione da essa, che consiste in vivere nella non verità, è allora possibile solamente come l’apparire della contesa tra la verità e l’errore e cioè come l’apparire di una contraddizione che appare come ciò che deve essere tolto ma che intanto non si lascia togliere perché i contendenti posseggono un’egual potenza. /…/ Questa inquietudine del significare è il “mondo” in cui usualmente viviamo.

Una domanda. Ciò che costituisce il disagio, per gli umani, la cosa che comunemente si chiama “disagio” attribuito ora a questa cosa ora a quell’altra, procede, come dice Severino, da questo errore, e cioè del non accorgersi che attribuire la verità dell’Essere a qualcosa di finito è autocontraddittorio? La verità non può essere auto contraddittoria, mentre se io attribuisco la verità a un essere finito significa che questo essere in quanto finito non è la totalità dell’Essere, è un essere parziale, cioè è un essere che attende dalla totalità dell’Essere la sua stessa possibilità di essere. Quando Severino parlava della Contraddizione C mostrava una contraddizione che di fatto non può essere tolta se non all’infinito. La totalità dell’Essere ovviamente non manca di nulla, se io invece prendo un essere finito, determinato, questo manca di quell’orizzonte entro il quale questo ente può apparire, questo ente appare perché appare all’interno di un orizzonte entro il quale può apparire. Ma tutti i disagi possibili, immaginabili dell’uomo hanno a che fare con il trovarsi di fronte a una sorta di contraddizione? Per usare una metafora informatica, un conflitto di programmi, programmi che entrano in conflitto tra loro. Due verità, come dice lui, equipotenti ma in contraddizione fra loro. Ciascuna volta in cui una persona si trova di fronte a una decisione, cioè una scelta valuta ovviamente i pro e i contro rispetto ai due corni del dilemma, immaginando che uno sia vero oppure più conveniente, ci sono varie forme, però ciò rispetto a cui si trova nell’imbarazzo è la difficoltà di eliminare una contraddizione, e cioè non può essere vera una cosa e la sua contraria, per fare l’esempio banale solito, la mamma non può essere buona e cattiva simultaneamente, occorre che sia o una cosa o l’altra, però a questo punto ci troviamo di fronte alla possibilità che qualunque disagio di cui gli umani lamentano l’esistenza sia riconducibile a una contraddizione all’interno del discorso, del loro discorso ovviamente, una contraddizione che non si ha la capacità di risolvere. Perché non c’è questa capacità? Adesso lasciamo stare la capacità teoretica di affrontare un problema, supponiamo che questa ci sia, però è come se non si potessero abbandonare né l’una né l’altra cosa, e lui usa un termine che forse non è casuale “equipotenti” cioè hanno la stessa potenza, o se dovessimo dirla in modo più appropriato “offrono apparentemente la stessa potenza, la stessa occasione di potenza”. È una questione complicata mi rendo conto, però mi domandavo anche se gli umani hanno a che fare con qualche cosa di differente? Se non con qualche cosa che di fatto attiene al modo in cui il linguaggio funziona e cioè per funzionare ciò che si afferma non può essere il contrario di ciò che si afferma, quindi se io mi trovo per qualche motivo ad affermare una cosa ma anche ad affermare che quella cosa non è quella che è, per qualche motivo, appunto la mamma che è buona ma anche la mamma è cattiva, allora sorge un problema, un problema che deve essere tolto, come dice Severino. Freud allude a una soluzione, la soluzione è quella di trovare una formazione di compromesso, per usare i suoi termini, e cioè trovare un terzo elemento a cui attribuire una delle due cose che sono in contraddizione, non è più la mamma a essere cattiva ma è l’uomo nero. Anche in questo caso il problema è una contraddizione, una cosa non può essere quella che è ma anche un’altra, ora torno alla domanda iniziale, e cioè se ogni disagio che si produce negli umani, nei parlanti, proceda e non possa non procedere che da una contraddizione rilevata all’interno del discorso. In effetti eravamo giunti alla stessa conclusione, ma muovendo da questioni completamente differenti e certamente non questioni che riguardano l’Essere. Questo Essere di cui parla Severino è ciò che concede qualunque cosa, offre qualunque cosa, delle volte sembra quasi antropomorfizzare questo Essere cioè renderlo umano, ma anche lui avverte, come Heidegger, che è l’uomo in prima istanza a fare sì che l’Essere sia, e l’uomo, è linguaggio. Tutto ciò che dice Severino in effetti potrebbe anche intendersi in un modo più radicale ponendo ciò che lui afferma relativo all’Essere, alla verità dell’Essere, al “persintattico” (persintattico è tutto ciò che appartiene alla verità dell’Essere, tutto ciò che viene predicato della verità dell’Essere, iposintattico è tutto ciò che invece viene costruito in relazione alla non verità dell’essere). Dunque l’Essere così come lo pone Severino è la totalità delle cose, questa totalità è già tutta presente in quanto presente in quanto l’apparire è già dato, è già offerto dall’Essere, non tanto come possibilità, la possibilità riguarda poi l’apparire dell’apparire, cioè il fatto che l’apparire faccia apparire quel qualche cosa, qualche singola determinazione, ma l’apparire in quanto tale è già presente sempre ed è la condizione perché qualche cosa, qualche determinazione possa accadere. Questo ci muove a dire che c’è una notevole prossimità, ma già in Severino, tra l’Essere come l’essere della verità cioè la totalità, l’eterno, e l’apparire, mi sembra che lo dica in modo esplicito però potremmo anche azzardare a dire che l’Essere inteso come verità dell’Essere è l’apparire e cioè quella condizione che rende possibile l’apparire dei determinati. Ma cos’è che consente questa possibilità e cioè è la condizione perché qualche determinato appaia se non ciò che è l’apparire, cioè la condizione stessa dell’apparire dei determinati? È la struttura del linguaggio, è quella che rende possibile che le cose appaiano. Abbiamo detto spesso che vedo qualche cosa, per me qualche cosa è qualche cosa perché sono nel linguaggio, non perché quella cosa è quella che è e io la percepisco, ma posso percepirla perché esiste una struttura che mi consente di compiere questa operazione. Severino lo chiama l’“orizzonte”, anche Heidegger, parla dell’“orizzonte” dell’Essere, che è quello che consente alle cose di apparire. Però già qui c’è la critica di Severino a Heidegger, perché in questo caso Heidegger pone l’Essere come qualcosa che appare e scompare, può apparire ma può anche scomparire, e su questo Severino, come sappiano, non è d’accordo perché allora si torna alla questione del divenire e cioè che l’Essere è nulla. Ma questo “apparire” che è la condizione degli enti potremmo anche indicarlo come la struttura del linguaggio, in che senso? Severino parla di Essere certo, i filosofi hanno sempre parlato dell’Essere da quando esistono, l’Essere vale a dire ciò che è necessariamente. L’idea che gli umani hanno sempre avuta è che al di là di ciò che è presente ci deve essere un qualche altra cosa che garantisca del loro essere presenti, poi Platone ha compiuto il passo decisivo, quello che ha avviato tutta la metafisica, dicendo che ciò che è presente è soltanto un apparire di qualche cosa che però di fatto non è propriamente, ciò che è propriamente è qualche altra cosa che lui pone nell’iperuranio, ma è comunque sempre dipendente da una qualche altra cosa. È questo che ci ha fatto riflettere sulla eventualità che tutto il linguaggio, il modo in cui funziona quella cosa che noi chiamiamo “linguaggio” sia metafisica, perché per il linguaggio è necessario, per il suo funzionamento, che ciascun elemento tragga il suo senso, il suo Essere da un altro elemento. La nozione stessa di segno di De Saussure, per cui non c’è un significante senza significato perché sarebbe niente, e cioè qualunque cosa trae la sua esistenza, la sua essenza, più propriamente da un’altra cosa. Questa è la metafisica per Severino, ma non solo, a questo punto il funzionamento del linguaggio è un funzionamento metafisico. Se così è, e appare essere così, l’unico modo di evitare il procedere metafisico è uscire dal linguaggio, inventarsene un altro che non funzioni così. Non è semplice ovviamente, la prima cosa che accade è incappare in un paradosso irresolubile, ma posta la questione in questi termini, cioè affermando che il funzionamento stesso del linguaggio è metafisico si tratta a questo punto di riflettere meglio sulla nozione di “metafisica”. Si chiedeva Heidegger “che cos’è metafisica?” lui risponde ovviamente a modo suo “metafisica è la confusione tra l’Essere e l’ente”, se si scambia l’ente con l’Essere allora si è nella metafisica, se non lo si fa allora no, senza tenere conto che già questa operazione è, e questa obiezione di Severino, è già metafisica: nel momento in cui immagina che l’ente per poter essere qualche cosa necessiti dell’apertura dell’Essere che consente all’ente di apparire, tutto ciò è già all’interno della metafisica, però qual è il problema della metafisica? Il problema fondamentale della metafisica è già quello che già Nietzsche aveva scorto, e cioè che la metafisica è nichilista, cioè pensa l’Essere come ciò che può non essere, perché la posizione del nichilismo è quella del divenire, che dice che l’Essere è quando è, ma non è quando non è, cioè c’è un momento in cui non è, se può non essere allora c’è un problema perché questo Essere può anche essere il non essere, quindi è non essere, se l’Essere è non essere è nulla. Per Severino si è trattato di salvare l’Essere. Ma non so se l’Essere abbia bisogno di essere salvato, certo come lo pone lui lungo la tradizione filosofica in un certo senso sì, però se spostiamo l’attenzione dal concetto di “Essere”, anche nel modo in cui lo pone Severino e cioè come l’incontraddittorio o se vi piace di più l’incontrovertibile, cioè ciò che non può essere contraddetto in nessun modo, allora ci accostiamo alla nozione di “necessario”. In effetti lui lo pone così, “è necessario che sia” e necessario per Severino è “ciò che non può non essere”, appunto ciò che è incontrovertibile. Il modo in cui abbiamo posto noi la nozione di “necessario” è in effetti praticamente identica a quella di Severino, dicendo che necessario è “ciò che non può non essere perché se non fosse (abbiamo anche fatto questa aggiunta) allora non sarebbe né quella cosa né nessun altra” è esattamente la definizione di Severino, perché a questo punto se potesse essere altro da sé allora l’Essere sarebbe nulla. Se l’Essere è l’incontrovertibile, o il necessario, sempre di più si approssima a ciò che abbiamo da tempo inteso come la struttura del linguaggio, che è necessaria, perché se non ci fosse il linguaggio non ci sarebbe niente, perché così come per quanto riguarda l’Essere, se non ci fosse non ci sarebbe neppure l’apparire che consente l’apparire degli aggeggi, e se non ci fosse il linguaggio in effetti non ci sarebbe nulla perché una qualunque cosa non apparirebbe all’interno di, usiamo le loro parole, di un “orizzonte”, quello della struttura del linguaggio, che è quello che consente a ciascuna cosa di essere qualche cosa, ma in che modo lo consente? Attribuendo a questa cosa un significato. È il significato, Severino lo dice da qualche parte, magari poi lo vediamo, è il significato che dà alle cose la possibilità di essere, se una cosa non ha significato è niente, cioè non significa niente. Questo però non comporterebbe ancora per Severino l’essere nulla, perché sarebbe qualche cosa che non significa niente, ma è comunque qualche cosa, ma a questo punto c’è un’obiezione drammatica che può farsi a Severino: dice che se non avesse il significato non sarebbe nulla, però è qualche cosa che non ha significato quindi è qualche cosa, ma riportiamo questo alla sua stessa affermazione, le funzioni ricorsive vanno avanti e tornano indietro, fanno quel percorso che le macchine fanno velocissimamente, se riportiamo a ciò che sta affermando adesso Severino diventa un problema perché ciò che lui stesso dice non significa più, ma ci troveremmo di fronte a una bizzarra aporia perché non avendo significato è qualcosa che non ha significato, quindi è qualche cosa, ma questa affermazione di nuovo, se non ha significato è nulla, ma non avendo significato è comunque qualche cosa, e così via all’infinito. È un aporia ad infinitum, diciamo così, ma pur sempre un’aporia, che lui non ha preso in considerazione ed è il problema che incontrano tanti, anche menti ben temprate come la sua, che invece è quella cosa che ha consentito a noi di fare tutti i passi che abbiamo fatti fino adesso e cioè applicare le conclusioni di un’argomentazione alle premesse di quella argomentazione, cosa che ho fatto adesso rispetto a Severino, e per cui affermare quello che afferma comporta un’aporia irresolubile. Noi sappiamo che le aporie irresolubili hanno tutte una matrice, e cioè l’idea che qualche cosa che è fuori dal linguaggio debba o possa rispondere di sé, cosa che non può fare, ma in questo caso qual è quella cosa che dovrebbe essere fuori dal linguaggio in questa aporia? È il significato. Se si immagina il significato come il rinvio a un qualche cosa, ma che questo rinvio abbia una sua esistenza al di fuori di ciò stesso che lo produce, che lo costruisce, allora si incontrano questi problemi, queste aporie. In effetti la soluzione di questa aporia sta nel fatto che ciò che afferma Severino è un gioco linguistico, se posto come gioco linguistico allora non c’è nessuna aporia perché è la costruzione di un gioco con quelle regole, gioco che si svolge dunque secondo le regole che si sono stabilite; se invece si immagina che questa argomentazione debba rendere conto di qualche cosa che è quella che è, indipendentemente da me che la dico, ecco che allora sorgono problemi. Sto dicendo che tutto ciò che ha elaborato Severino, che pure si avvicina, come vi ho mostrato, per molti versi a questioni teoretiche di notevole spessore e anche di grandissimo interesse rimane però il problema che immaginando che tutto ciò che lui scrive, tutti i libri che ha scritto, che sono uno sterminio, soprattutto nei testi teoretici più che in quelli politici, ecco tutto ciò che dice lo immagina come un qualche cosa di ineluttabile, infatti lui afferma di avere trovato qualche cosa che non può essere contraddetto, e lo è entro i limiti all’interno del gioco che lui ha costruito, però abbiamo visto che c’è un’aporia comunque, e magari se uno ci riflette bene magari ne trova anche altre. Il gioco che lui ha costruito è un gioco che parte dall’idea che qualche cosa, per essere quella che è, debba essere incontrovertibile: l’Essere, però pone l’Essere come un quid che non è una produzione del linguaggio ma è quello che è, indipendentemente da qualunque considerazione, se io dico che qualcosa è, allora questo è necessariamente quello che è, il che in parte è vero, se io pongo queste sue affermazioni come la condizione per affermare qualcosa, cioè per potere procedere lungo un gioco linguistico, allora sì, allora effettivamente quando affermo qualche cosa affermo quel qualche cosa e quel qualche cosa non dovrebbe essere autocontraddittorio, perché ho affermato quello. Ma questo lo vedremo la prossima volta, leggeremo dei brani suoi che vi mostreranno questa prossimità tra ciò che andiamo dicendo e il testo di Severino, il suo pensiero, però quando affermo qualche cosa la fermo, la stabilisco, e per stabilirla occorre che sia determinata, la stabilisco, è il discorso ciò che faceva rispetto al determinato: se io nego che ciò che affermo sia un determinato compio un’affermazione che è determinata, perché determina quell’affermazione che dice che ciò che affermo non è un determinato. La sua argomentazione è stringente e corretta ma indica semplicemente non un dato di natura, indica semplicemente il modo in cui il linguaggio funziona, per potere funzionare deve operare così, e cioè deve determinare qualche cosa, deve fermarlo. Per proseguire a parlare occorre un’argomentazione e concludere questa argomentazione perché se non conclude, naturalmente come una conclusione “vera”, non può essere utilizzata per costruire altre argomentazioni, quindi è necessario che sia ma è posta, come la pone lui, come un che di necessario fuori dal linguaggio, ma fuori dal linguaggio non c’è neppure il necessario, non c’è nulla che sia né necessario né arbitrario.  È sorprendente che una mente come la sua non abbia colto questo dettaglio, e cioè che tutto ciò che si indica come necessario è una proprietà che si attribuisce a un termine, una proprietà che può essere attribuita perché esiste una struttura che mi consente di farlo, senza questa struttura non mi sarei neanche potuto mai porre nessun problema intorno all’Essere. Lui non si pone mai la domanda, nessuno se la pone, né se l’è mai posta “a quali condizioni posso riflettere intorno all’Essere?” Heidegger l’ha fatto? No. Nietzsche l’ha fatto? No, e neppure Severino. Sini ci si è avvicinato forse per alcuni aspetti però poi ha preso quella direzione a mio parere scarsamente interessante per quanto riguarda l’approccio teoretico alla questione dell’Essere e quindi del linguaggio, cercando l’origine del linguaggio e quindi perdendosi dietro ipotesi, solo ipotesi.

Intervento: è sempre la questione del dominio, del trovare quell’elemento che è la verità assoluta fuori dalla struttura che l’ha costruita, è l’esercizio di potere …

Ci è andato molto vicino, perché ponendo l’“incontrovertibile” ha fatto qualche cosa di cui forse lui stesso non ne ha colto appieno la ricchezza, la potenza anche, cioè che ciò che non è controvertibile è che per pensare alla controvertibilità o l’incontrovertibilità necessito del linguaggio, senza questa struttura che mi consente di costruire sequenze che chiamiamo “proposizioni”, e che consente di riconoscere delle sequenze come proposizioni, che consente di connettere secondo certe regole proposizioni con altre proposizioni, per costruire altre proposizioni ancora, senza questo non si fa niente. Ma questa struttura che vi ho appena tratteggiata è una struttura metafisica, così come viene intesa la metafisica, da Severino e da Heidegger, perché comunemente la metafisica è un discorso sull’ente e cioè sull’Essere dell’ente o sulla proprietà dell’ente, però a questo punto l’Essere dell’ente, ciò che consente all’ente di essere quello che è, è il linguaggio, quindi l’Essere dell’ente è il linguaggio, e bell’è fatto risolto il problema metafisico. Possiamo dire, così come abbiamo fatto, che il linguaggio ha la struttura metafisica, ma dicendo questo in realtà non è che si dica un granché, a meno che, e questo si tratterà di vederlo, il problema della metafisica rimanga questo: la metafisica è nichilista. Ma di fatto il linguaggio, così come lo si pratica continuamente, impone alle persone di imporsi sugli altri, perché è nichilista, deve distruggere l’altro, deve distruggere tutto ciò che potrebbe contraddire il suo pensiero. Nel momento in cui diciamo che quello che costruisce Severino è un gioco, questa affermazione che facciamo è metafisica? Sto dicendo qualche cosa che lui direbbe “incontrovertibile”, non può non essere un gioco linguistico, cioè non può non essere una concatenazione di proposizioni costruite in un certo modo, che concludono in un certo modo, relate fra loro in un certo modo e che costruiscono quello che leggiamo qui, questo è possibile obiettarlo? Dovremmo dimostrare che tutto questo, cioè la sequenza di proposizioni eccetera non ha nulla a che fare con il linguaggio, se si è in grado di fare questo allora ciò che ho appena affermato e cioè che “il pensiero di Severino è un gioco linguistico” è falso, solo a quella condizione.

Intervento: la verità è che non si può non costruire un gioco linguistico …

Intervento: tutto questo per non ricadere nel giochino della metafisica che afferma delle cose e crede che queste cose siano al di là del linguaggio …

Questa teoria del linguaggio non può essere smentita, qualunque smentita non può che utilizzare ciò stesso che deve smentire e a questo punto ci viene, ci torna utile utilizzare la stessa argomentazione di Severino rispetto al “determinato”: io nego il determinato, ma nel negare il determinato compio un’affermazione determinata, quindi devo usare il determinato per negare il determinato, che è esattamente la stessa cosa cioè devo usare il linguaggio per negare il linguaggio.