INDIETRO

 

Martedì 17 GIUGNO 1997

 

Avete mai provato a instaurare un agone dialettico contro il vostro stesso discorso? Perché è questa la questione più interessante, non è tanto, come facevano i Sofisti potere vincere chiunque in un discorso, questo tutto sommato è un aspetto marginale, ma porsi rispetto al proprio discorso in questi termini, come se lo sostenesse un altro e voi aveste il nobile compito di confutarglielo. Se voi sapeste fare questo allora sarebbe tutto straordinariamente più semplice, per un verso, per un altro no. Più semplice nel senso che vi trovereste nella più totale impossibilità, per esempio, di arroccarvi su una posizione, qualunque essa sia, perché voi stessi avreste gli strumenti per annullarla, e allora vi trovereste ancora in un’altra posizione di cui abbiamo accennato la volta scorsa e cioè a quel punto avreste di fronte il vostro discorso che mano a mano si svolge e si svolge anche in buona parte lungo delle proposizioni che affermano qualcosa, ma come generalmente accade, queste affermazioni sono credute; quando una persona si fa un suo ragionamento, un suo discorso che gli sembra che fili più o meno e considera che questo discorso giunge a una certa conclusione è indotto, nove volte su dieci, a pensare che questa conclusione sia vera e cioè rappresenti uno stato di cose, cioè qui ‘vera’ in accezione più classica del termine, come adæquatio rei et intellectus, e tutto sommato se non trovate un elemento che la contraddica la ritenete vera, molto kantianamente, è vero tutto ciò che non è autocontraddittorio, e così funziona in effetti perlopiù, se non si trova un argomento contro che sia valido allora è vero, ma se voi questo elemento lo trovate allora non è più vero, e se voi questo argomento contro lo trovaste sempre, in qualunque circostanza, allora nulla sarebbe vero, necessariamente. Ora, dicevo prima, il vostro discorso si svolge anche con affermazioni ma queste affermazioni a questo punto non hanno più questa possibilità di stabilirsi come vere e quindi si stabiliscono come? Intanto come elementi del discorso, elementi del discorso che non hanno un referente da qualche parte, ma semplicemente vi dicono qual è la direzione che il vostro discorso sta prendendo, il problema è che sbarazzati dalla necessità di dovere stabilire come stanno le cose potrete trovarvi presi in una sorta di smarrimento, perché attenendovi al discorso occidentale, che dice che se non si parla per stabilire qualcosa allora si domanda perché parla, cosa parla a fare, come se a quel punto non si potesse più fare nessun discorso serio ma soltanto discorsi ameni, dei giochi. Il discorso serio è quello che si fa quando si valutano certe cose e si tenta di stabilire una conclusione ragionevole, seria, alla quale poi in qualche modo poi si cerca di attenersi, invece il discorso faceto, quello ameno, quello leggero, non si cura di queste cose ma soltanto di produrre piacere, divertimento, gioco, un po' come si diceva la volta scorsa, questa differenza fra gioco e lavoro, una differenza un po' istituzionalizzata che vuole nel lavoro necessariamente la finalizzazione della propria opera a qualcosa di serio, come per esempio la propria sussistenza, che generalmente è considerata cosa seria, mentre il gioco no, è fine a se stesso, solo per il piacere che produce il suo svolgersi. Possiamo attenerci a questa distinzione molto sommaria però abbastanza indicativa rispetto al discorso occidentale, allora il discorso non potendo più attestarsi a nulla di serio e cioè a nulla che possa stabilire come stanno le cose, si trasforma, o meglio prende la piega del discorso ameno, quello giocoso, quello faceto, quello che si fa quando si scherza con gli amici, per ridere con gli amici dove nessuno si chiede se è proprio effettivamente così, se le cose sono proprio in questi termini, non chiede una prova di verità ma si accetta il gioco, si accetta che il discorso segua queste regole una delle quali è che le cose vengano colte senza la necessità di chiedere a queste cose di provare se stesse, mentre al discorso serio generalmente sì, gli si chiede questo. Questa cosa è vera? Vediamo, questa è così questa è cosà e quindi... allora tornando alla questione iniziale, ciò con cui vi trovate ad avere a che fare è un discorso che non riesce più ad essere un discorso serio, non riesce più cioè a stabilire come stanno le cose, poi potete anche stabilirle ma immediatamente vi balza alla mente, come si suole dire, una argomentazione che smonta tutto quello che avete costruito, ecco che a questo punto non può più imporsi il discorso che fate come un discorso serio, ma ameno, gioioso, un discorso che vi diverte, vi diverte perché non ha più da essere pesante, non ha più da essere costrittivo quindi non costringe più a cercare di stabilire se le cose stanno in un certo modo o in un certo altro, ma semplicemente fornisce il piacere delle parole che si snodano una dopo l'altra e che snodandosi le une dopo le altre producono immagini, producono ricordi, producono sensazioni e cioè si configurano come quella figura retorica nota come ipotiposi che letteralmente non è altro che uno schizzo, un tratteggio, vale a dire che le parole costruiscono, schizzano, tratteggiano dei quadri, delle immagini che a questo punto considerate per quello che sono, cioè delle produzioni linguistiche, niente più di questo. Perché vado dicendo che tutto questo comporta una illimitata e smisurata libertà? Perché nel momento in cui voi rispetto al proprio discorso, vi ponete in una posizione tale per cui vi divertite a vedere che cosa crea, che cosa produce, non siete vincolati a nessun limite. Avrete sicuramente giocato da ragazzini con quell'aggeggio stranissimo che si chiama caleidoscopio, si mette contro la luce e si gira e ci sono questi pezzettini di vetro che si combinano e si ricombinano sempre in un modo diverso, non è una cosa entusiasmante ma da ragazzini ci si diverte a vedere questa cosa che cambia continuamente, ecco come dire che osservate, osservate fra virgolette perché siete osservatori e artefici nello stesso tempo, osservate un continuo mutare, mentre voi parlate dello scenario che vi si presenta, delle sensazioni che questo scenario produce, come un film, solo che questo film siete voi, non che lo producete, siete letteralmente voi. Dunque dicevo nessun limite e cioè nessuna costrizione a dovere ancorare una di queste produzioni a qualche cosa che debba essere fermo e immobile e identico a sé, perché a questo punto ormai sapete perfettamente che qualunque tentativo di fermare un qualunque elemento è vano, è vano e prevede e necessita di un atto di fede, di una struttura religiosa che ormai è assente dal vostro discorso e pertanto non ha più nessun potere, non ha più nessuna forza, è considerata alla stregua di qualunque altro gioco linguistico, gioco linguistico che però non è molto interessante perché pone dei limiti, dei limiti al gioco e consente poche mosse tutto sommato, così come nel gioco d'azzardo il puntare sulla carta più alta, è un gioco stupidissimo perché non è articolato, non ci si diverte nessuno. Ma tutto questo non è facilissimo a mettersi in atto, a praticarsi, anche se in teoria dovrebbe esserlo, dovrebbe esserlo dal momento che il discorso, lo stesso discorso occidentale fornisce tutti gli elementi per potere considerare questi aspetti, la logica, la retorica, qualche volta anche la filosofia (raramente) hanno fornito degli elementi, hanno fornito molti elementi e sono sufficienti perché sono quelli che noi abbiamo acquisiti, quelli che ci hanno consentito poi di fare questo passo, non è che abbiamo inventato questo percorso dal nulla, abbiamo letto moltissimo e sfrondato mano a mano una quantità sterminata di cose che non ci dicevano nulla, considerando invece quelle che offrivano un maggiore campo d'azione, in particolare la retorica, la logica e la linguistica, perché sono le scienze che più di altre hanno a che fare con il linguaggio ovviamente e quindi forse quelle che più di altre hanno avuto l'occasione di confrontarsi con la difficoltà del linguaggio e con l'impossibilità di chiuderlo, di localizzarlo, di immobilizzarlo, di ridurlo a oggetto di osservazione, non è che non ci abbiano provato ma almeno quelli più attenti si sono accorti che questa operazione non era possibile dal momento che gli strumenti per osservare il linguaggio erano gli stessi strumenti che dovevano osservare. Cosa che ha comportato qualche problema perché si sarebbe dovuti uscire dal linguaggio per poterlo osservare con precisione, ma con che cosa? Dunque dicevo che ciò che sorprende è che tutto ciò non sia acquisito ormai da sempre ma che al contrario presenti difficoltà notevolissime ad acquisirsi, come se si trattasse di andare contro il modo naturale di pensare, il modo naturale di pensare è buona parte quello che appartiene al discorso occidentale che invece nega tutto questo, lo nega curiosamente. Abbiamo detto di alcune situazioni imbarazzanti del discorso occidentale il quale per potere affermare una qualunque cosa occorre che la provi e che i sistemi di prova di cui dispone non consentono di andare al di là di un certo punto, che è quello di stabilire da dove partire, quali principi accogliere, da quali postulati muovere che non siano assolutamente arbitrari, il postulato può essere provato? No, lo si postula e allora il rigore a cui il discorso occidentale deve attenersi ha come fondamento una affermazione assolutamente arbitraria, e questo è un impiccio che tutto il discorso occidentale incontra e ha incontrato da sempre, almeno da Aristotele in poi, e dal quale non ha potuto o saputo o voluto uscire. In buona parte non ha voluto, non ha voluto perché compiere questa operazione sarebbe valso allo smantellamento totale e direi anche irreversibile di tutto ciò che costituisce il bagaglio di superstizioni, di credenze su cui ciascuna istituzione si regge, sarebbe stato come darsi la zappa sui piedi, cosa che ciascuno cerca di evitare, ma forse non ha saputo ma non per incapacità, ma per una sorta di vertigine, ché addestrati come si è a pensare in un certo modo il pensare in un altro può creare un certo smarrimento... dicevo che non ha voluto o saputo per via della difficoltà che il pensare nei termini che vi sto proponendo comporta per l'assenza di riferimenti, di postulati o di elementi da cui muovere, l'unico elemento da cui è possibile muovere è che qualunque cosa si faccia questa è inserita nel linguaggio e in effetti soltanto da questo siamo partiti. È l'unico elemento che abbiamo accolto, cioè quello che non potevamo negare in nessun modo, per quanto ci si sia sforzati non siamo riusciti a negarlo, se riuscissimo a farlo allora dovremmo cambiare tutto e comunque proseguire questo gioco, un gioco qualunque fra infiniti altri, mentre in questo momento lo consideriamo un gioco che rispetto agli altri ha una particolarità che è quella di essere la condizione per potere giocare qualunque altro gioco, però se mai riuscissimo, o qualcuno riuscisse a negare che gli umani in quanto parlanti parlano, allora dovremmo riconsiderare tutto quanto, il che sarebbe molto divertente, però fino a quel punto possiamo proseguire lungo questa via. Sì, abbiamo provato in vario modo però risulta difficile, risulta difficile perché ci si troverebbe nella condizione di dovere negare questa proposizione in un altro modo che non comporti il linguaggio, e sta qui la difficoltà. La difficoltà sta nella necessità, per potere negare questo, di uscire dal linguaggio e questa operazione ancora non siamo riusciti a compierla, però dicono i religiosi: le vie del Signore sono infinite! Può essere che ce ne sia sfuggita una di queste vie, potremmo non averle considerate tutte. Ecco ma dunque la difficoltà, la difficoltà è notevole, notevole perché ciascuno è indotto continuamente a cercare un qualche cosa, un criterio che gli consenta di stabilire come stanno le cose e cioè di dire ‘sì è così’, ma di dirlo in modo serio, nell’accezione che indicavo prima e non per gioco, per gioco si può dire qualunque cosa, ma seriamente, cioè immaginando che questo ‘è così’ corrisponda necessariamente a qualche cosa che è fuori dal linguaggio, a questo addestra tutto il discorso occidentale, da sempre, da Aristotele in poi. Dico da Aristotele in poi perché prima la cosa non era ancora formalizzata nei termini così precisi come lui ha fatto, ponendo già da subito il limite, il limite del pensare religioso e cioè che oltre ad un certo punto non è possibile andare, un certo punto che risulta comunque contraddittorio, paradossale, qualunque dio o motore immoto o qualunque aggeggio vi piaccia pensare o io voglia porre come lo so? Attraverso che cosa? Posso saperlo attraverso al deduzione o attraverso l'osservazione, aristotelicamente attraverso la deduzione che è più attendibile, più recentemente attraverso l'osservazione, come sapete dagli gli antichi non era tenuta in gran conto l'empiria, ma in entrambi i casi la questione è sempre la stessa e cioè si pone una domanda a cui nessuno sa rispondere, cioè come so che l'osservazione è tale da garantire la realtà delle cose? O come so che la deduzione al pari fornisce un criterio così sicuro, come l'ho saputo? Da chi? Naturalmente occorrerebbe un meta criterio, sta qui l'impiccio in cui si è trovato e si trova da sempre il discorso occidentale dal quale, come dicevo prima, non può o non sa o non vuole uscire. Perché i paradossi sono solubili? Perché ciascun paradosso sorge su una formulazione che è sempre la stessa, quella che afferma che c'è un elemento fuori dalla parola. Questa è la struttura fondamentale del paradosso, e come lo so che è fuori dalla parola? Per saperlo occorre che sia nella parola, quindi è fuori dalla parola se e soltanto se è nella parola, ché a questo punto posso dire che è fuori dalla parola ma come lo dico se non con la parola? E questa è la formulazione del paradosso che poi, come sapete, si è configurato in tantissimi modi. Dal paradosso di Epimenide fino a quelli di Russell e di Burali Forti, però la struttura è sempre la stessa, sorgono i paradossi laddove, direttamente o indirettamente, si pone un elemento fuori dalla parola, da quel punto si è sicuri che prima o poi si incapperà nel paradosso inesorabilmente: nel momento in cui questo elemento sarà richiesto di provare se stesso non lo potrà fare. Dicevo che i paradossi sono solubili, sono solubili molto semplicemente, non come voleva Russell vietando di attribuire una certa proprietà allo stesso elemento, ma semplicemente considerando che ciò che sta facendo è attribuire a un elemento questa prerogativa di essere fuori dalla parola, se lo si reinserisce nella parola il paradosso si dissolve immediatamente. Si dissolve in quanto se io stabilisco, prendete per esempio il paradosso di Achille e la tartaruga che tutti voi conoscete: Achille ‘piè veloce’ ingaggiò una corsa con una tartaruga che notoriamente è lenta, dandogli un certo margine di vantaggio (la tartarughina piccola va pianissimo lui velocissimo), partono insieme, la tartarughina ha un metro di vantaggio, ora voi pensate che Achille raggiungerà dopo una frazione di secondo la tartaruga e dopo la sorpasserà, però prima di compiere questo metro dovrà compiere mezzo metro, prima di compiere mezzo metro dovrà compiere un quarto di metro, prima di compiere un quarto di metro dovrà compiere un ottavo di metro, prima di compiere un ottavo... e quindi non raggiungerà mai la tartaruga. Eppure ciascuno di voi può constatare che, adesso non c'è più Achille piè veloce ma, se salite a bordo di una Ferrari testa rossa e mettete davanti a voi (due metri) una tartarughina e la fate viaggiare e voi partite con la vostra Ferrari constaterete che la raggiungete e la sorpassate con estrema facilità, come mai? Chi sa rispondere a questo quesito? E questo è un paradosso, uno dei tanti. E come si risolve molto semplicemente? Perché si risolve molto semplicemente: considerate il primo aspetto, quello della divisibilità di uno spazio all'infinito, uno spazio è divisibile all'infinito? Sì o no? Se sì allora Achille non raggiungerà mai la tartaruga, se no la raggiungerà. Ma lo spazio è divisibile all'infinito? Dipende, perché se io stabilisco delle regole tali per cui la nozione di spazio è divisibile all'infinito allora lo spazio è divisibile all'infinito e dunque Achille non raggiungerà mai la tartaruga, però posso anche stabilire una regola che afferma che lo spazio non è divisibile all'infinito e se non è divisibile all'infinito allora Achille raggiungerà rapidissimamente la tartaruga. Perché io posso compiere queste operazioni? Perché sono giochi linguistici, oppure pensate che non lo siano? Supponiamo che non siano dei giochi linguistici, allora lo spazio è divisibile all'infinito. Benissimo, provalo, perché se affermi questo io immediatamente ti chiedo di provarlo e la prova deve essere inconfutabile altrimenti le tue affermazioni varranno nulla. Come provarlo? Attraverso che cosa? Con quali criteri? Badate bene che questi criteri devono essere assolutamente certi, altrimenti io vi chiederò di provare questi criteri, perché ciò che è in gioco è molto, quindi se facciamo sul serio, facciamo sul serio.

 - Intervento: provare tutto...

Non è facile, occorre imparare a farlo che se no rimane anche questa una petizione di principio, se Lei mi dicesse: “io posso provare tutto e il contrario di tutto”, e io le dicessi: “va bene lo faccia”, Lei lo saprebbe fare?

- Intervento: potrei allenarmi un po'

Sì dovrebbe allenarsi molto, però potrebbe farlo.

- Intervento:…

Questo è l'impiccio del discorso occidentale il quale vorrebbe essere molto serio, tuttavia a fondamento della sua serietà c'è qualcosa di totalmente arbitrario che non può essere provato in nessun modo, ma questo soltanto per dirvi che ciò che occorre che ciascuno incominci a fare è esercitarsi rispetto al proprio discorso, lì la questione si fa difficile. Si fa difficile perché ciascuno è indotto dall’addestramento che ha ricevuto, a pensare in un certo modo e cioè che ciò che lo circonda sia la realtà e attribuisce a questo significante un certo significato e può sì, giocare ma fino ad un certo punto oltre il quale non gioca più, perché è come se dicesse: possiamo giocare fino a qui però oltre no, oltre c'è la realtà, ed è questa la difficoltà, soltanto questa non ce ne sono altre, ma è una difficoltà non da poco, una difficoltà che in tremila anni non è stata superata (salvo che da me. Non te la aspettavi questa?), ed è per questo siamo stati costretti a considerare differentemente anche la nozione di psicanalisi, non potendo non tenere conto di questi aspetti. Di fronte alle varie affermazioni, prendiamo quelle di Freud ci siamo dovuti chiedere perché, come lo sa che è così? E che cosa dice dicendo che è così? Siamo stati costretti perché in caso contrario ci saremmo comportati in modo molto religioso. Freud dice così, va bene noi lo leggiamo e lo consideriamo, ma dice così in base a che cosa? Alla sua esperienza, ma la mia è diversa, non vedo perché la mia debba essere inferiore alla sua. Oppure perché ha osservato questo, io posso osservare un'altra cosa, o perché lo ha dedotto, io posso dedurre altrimenti, e dalle stesse premesse giungere a considerazioni diametralmente opposte. Tuttavia Freud ha compiuto un'operazione straordinaria che è quella di fare un listaggio notevole di tutti i luoghi comuni, delle superstizioni, delle credenze, gli intoppi e gli acciacchi che il discorso occidentale veicola. Prendete la sua definizione di nevrosi, definisce la nevrosi in modo tale per cui in effetti è come se considerasse che ciò che induce alla nevrosi è l'impossibilità di rispondere a qualcosa, di darsi una risposta soddisfacente. Certo noi possiamo anche considerare che il discorso occidentale produca questa cosa che possiamo anche chiamare nevrosi, non ce lo proibisce nessuno, a partire dal fatto che effettivamente non si trova la risposta ma occorrono condizioni, e cioè che si dia per acquisito che ci sia, che ci debba essere, solo a queste condizioni l'assenza della risposta provoca tutti i marasmi che Freud illustra quando parla della nevrosi. Come dicevamo anche a proposito della depressione la quale giunge a considerare che le cose non hanno nessun senso e quindi a che vale la vita? Che senso ha? Ma perché dovrebbe averne uno e che cosa vuol dire che non ha un senso? Cosa intende con ‘senso’ in primo luogo? Però effettivamente si ascolta questo in molti casi nella depressione, cioè è questo il luogo comune più frequente, più accreditato, più diffuso. Il primo listaggio di luoghi comuni lo ha compiuto Aristotele, nei Topici, potremmo anche rileggerli questi Topici, rileggerli perché come dicevo prima sono una raccolta fra le più interessanti di luoghi comuni. Come sapete da allora sono passati 2500 anni, però i luoghi comuni sono gli stessi e quindi rimangono assolutamente attuali, come se li avesse scritti l'altro ieri, non avrebbe potuto scriverli in modo più attuale... potremmo rileggere i Topici e Confutazioni Sofistiche ....

Vari interventi sulle letture

*Sono interessanti gli Antichi, io vi consiglio caldamente di andarveli a leggere o a rileggere, a seconda dei casi, perché vi trovate cose non soltanto molto attuali ma che costringono a riflettere su tantissime cose, ho riferita in varie occasioni l'opinione, condivisibile fino ad un certo punto, di Giorgio Colli che sosteneva che l'essenziale è stato detto dagli antichi, dopo non è stato altro che un balbettio, opinione dicevo condivisibile fino ad un certo punto, però per alcuni versi non ha tutti i torti...

- Intervento:…

Altri recentemente hanno sviluppato in termini molto interessanti alcune questioni, lo stesso Wittgenstein o alcuni linguisti come De Saussure, come Martinet e altri hanno detto cose notevoli rispetto al linguaggio, però rimane che il pensare di questi ultimi tremila anni non è andato molto lontano, lo stesso Heidegger... Heidegger è interessante quando parla degli Antichi, mentre quando fa le sue elucubrazioni…

- Intervento: la realtà luogo comune... e questo è un luogo che è riconosciuto dalla legge

- Intervento: Lei si spinge quasi a dire che l'inconscio è il linguaggio, ma non lo afferma... Quella che Lei fa è l'analisi del linguaggio o l'analisi della psiche?

Che differenza c'è?

- Intervento: è difficile darLe un'etichetta

Vuole darmi un'etichetta? Gliela suggerisco io: Sofista

- Intervento: …

E' strettamente l'analisi del linguaggio, è il linguaggio che analizza in qualche modo se stesso, tenendo conto che è il linguaggio che compie questa operazione, affermare che l'inconscio è il linguaggio o che il linguaggio è l'inconscio di per sé non significa niente, per questo non l'affermo, possiamo anche dirlo ma che cosa ci dice questo, che abbiamo definito l'inconscio, però dicendo che è il linguaggio ci basta già il linguaggio, se aggiungiamo l'inconscio già diciamo che esiste un elemento all'interno del linguaggio che chiamiamo inconscio, ma perché fare questa operazione? Cioè che cosa ci apporta il dire che esiste l'inconscio? Per questo preferisco andare cauto con queste affermazioni perché presa così non dice niente, occorre che dica qualcosa per poterla utilizzare...

- Intervento:…

Quando io mi dico che il linguaggio dei fiori è un linguaggio, attraverso che cosa io faccio questa affermazione? Col linguaggio…

- Intervento:…

Io ho data una definizione molto semplice di linguaggio, non ho distinto tra vari linguaggi verbali, non verbali, ho detto che il linguaggio è ciò che consente agli umani di dirsi tali, ancora prima di comunicare, di dire sono un essere umano, esisto quindi esiste quella cosa, quella cosa è una fotografia che mi fa provare quella sensazione ecc... quindi una cosa molto semplice, diciamo che è quella struttura organizzata che mi consente di riflettere su quella stessa struttura, senza quella struttura non potrei riflettere su niente e quindi non posso neanche dire che esisterebbe qualcosa.

- Intervento: mettere in discussione la realtà

L'abbiamo fatto tutta la sera, sì, si può fare (mettere in discussione la realtà) nulla lo vieta, dopo avere stabilito cosa si intenda con realtà ovviamente, mi sembra la cosa fondamentale e qui è da tremila anni che ci si sbizzarrisce. Bene ci vediamo fra 15 giorni con i Topici...