INDIETRO

 

 

17 maggio 2023

 

I concetti fondamentali della filosofia aristotelica di M. Heidegger

 

Nelle pagine che seguiranno, Heidegger, leggendo Aristotele, non parlerà che di questo: il linguaggio è relazione. Lo fa in un modo interessante. A pag. 249. Sta parlando del processo inferenziale, del “se-allora”. Ad 1. Abbiamo iniziato con il primo punto, per richiamare alla mente gli ἒργα τέχνης. Nella sua riflessione primaria la τέχνη offre l’aspetto che deve avere ciò che va prodotto, il ποιητέον, nonché il procedimento della produzione stessa. Nel secondo passo citato, è Aristotele stesso a esplicitare il nesso tra l’aspetto, cui ci si rivolge parlando, della produzione e la produzione stessa. Tale nesso viene costituito tramite un determinato modo del parlare – il λόγος è caratterizzato dalla formula “se-allora”, se questo e quest’altro dev’essere finito, allora deve avvenire questo e quest’altro. Il “se-allora” implica che in base all’aspetto di ciò che va prodotto sia richiesto un determinato “di che cosa” del produrre, una determinata ὕλη (materia). A pag. 250. In base al “come”, colto in anticipo, dell’aspetto dell’ente finito, vengono prefigurati il procedimento, la sequenza e la direzione della produzione. Qui ha detto un paio di cose importanti. Intanto, che il “se-allora”, questa formula del processo inferenziale, ha una funzione ben precisa: rende finita, quindi utilizzabile la proposizione. Facevamo l’esempio della pioggia: “se piove prendo l’ombrello”. Se io mi limito all’antecedente “se piove”, questa frase non è finita. Cosa significa che non è finita? Significa che non è utilizzabile – adesso non ci interessa come, ma non è utilizzabile. Diventa utilizzabile se aggancio il conseguente “allora prendo l’ombrello”, allora la frase è finita, è utilizzabile. Quindi, lui si chiede qui, che cosa anticipa? Lui fa l’esempio della casa. Sì, certo, uno deve costruire una casa, ha un’immagine della casa, di ciò che vuole fare, ed è questa immagine ciò a cui si riferisce. Sì, certo, ma che cos’è propriamente che anticipa il “se”, l’antecedente? Anticipa la fine, fine non nel senso della finalità, ma della compiutezza: ciò che anticipa è la compiutezza, che interverrà con il conseguente “allora prendo l’ombrello”. Questo è il modo in cui funziona il linguaggio, il modo in cui si afferma qualunque cosa si affermi. Non c’è modo di affermare alcunché senza un processo inferenziale. Il processo inferenziale è la modalità attraverso la quale si rende utilizzabile il dire, lo si rende compiuto. Ed è questo che produce nel parlante l’idea che ciò che afferma sia compiuto, e cioè che sia quello che è. È come se, parlando, si costruisse la metafisica man mano che si parla. Cosa significa costruire la metafisica? Significa costruire dei conseguenti che si pongono come irrelati. Irrelati in questo senso: un oggetto metafisico è pensato come qualcosa che non è dipendente da altro ma è causa sui e, quindi, deve essere pensato come se fosse fuori della relazione, cioè non fosse in relazione con altro che con se stesso, che comunque è già una relazione. Ora, costruire enti metafisici è ciò che il linguaggio fa continuamente per potere continuare a parlare. Il “se piove prendo l’ombrello” è come se, arrivato alla compiutezza della frase, cancellasse in un certo senso l’antecedente, che non serve più: importa soltanto il conseguente. Non è casuale che la logica proposizionale, quella formale, ecc., consideri sempre vera l’implicazione tranne quando l’antecedente è vero e il conseguente è falso. Pensateci bene. Questo modo di porre la questione da parte della logica ci dice che soltanto nel caso in cui questa sequenza non riesce a compiersi allora non è utilizzabile. Deve compiersi con il conseguente e allora è utilizzabile, quindi, vera. A questo punto possiamo sovrapporre il vero con l’utilizzabile: è vero ciò che è utilizzabile. A pag. 250. Ciò significa, al tempo stesso, che la γένεσις si fonda in sé nel τέλος. Nel suo compimento. È esattamente ciò che dicevamo l’altra volta, e cioè che è il conseguente che fa esistere l’antecedente. Essa ha in sé – così com’è di volta in volta – la sua possibilità di essere nell’essere-finita,… Potete intendere così: è l’inferenza che ha in sé la possibilità di essere finita, soltanto nel conseguente. Fa poi un esempio. “Poiché l’aspetto della casa (che, nella riflessione anticipante del capomastro, dev’essere edificata in un certo punto e in un certo modo) è di un certo tipo, anche la produzione dev’essere di un certo tipo. Infatti è il divenire che avviene in vista dell’essere lì presente, e non viceversa il presente in vista della produzione. Sta dicendo che è il divenire che deve già essere presente, per esempio, nella mente del costruttore. Ciò che diverrà è già qui, cioè, è già qui ciò che non è ancora, ciò che potrà essere, ciò che sarà. Ma questa è esattamente la definizione di rappresentazione. E, allora, accostiamo la formula dell’inferenza, il “se-allora”, alla rappresentazione: il “se” rappresenta l’“allora”, nel senso che lo rende presente, rende presente, come dice Heidegger, qualcosa che non è sottomano, che non è immediatamente presente. È in questo senso che lo anticipa: una rappresentazione anticipa sempre, mostra ciò che non è ma che sarà. Per questo dicevamo che la rappresentazione è la condizione per potere desiderare qualcosa, perché se io non me lo rappresento, cosa desidero? Niente. Bisogna tenere conto che questi due momenti, antecedente e conseguente, sono simultanei. È questa la questione che sta ponendo Aristotele: non è, come vorrebbe la logica, un processo consequenziale, per cui c’è prima questo e poi quest’altro. No, è una questione che è sempre presente in Aristotele, anche se non l’ha mai portata alle estreme conseguenze, ma la pone già con l’entelechia: potenza e atto non sono conseguenti, per cui c’è prima la potenza e poi l’atto, ma sono simultanei, perché la potenza senza l’atto non è potenza, e viceversa. Adesso vediamo le implicazioni di tutto ciò. A pag. 251. …il λόγος, per così dire, balza in avanti anticipando il produrre, e solo in virtù di questo balzo anticipatore esso può prefigurare il procedimento stesso e la sua direzione, portando così la produzione nella sua giusta possibilità. Questo balzo anticipatore che fa l’antecedente rappresenta ciò che mostra il conseguente, rende presente il conseguente simultaneamente all’antecedente. Proprio perché esser-ci significa essere-finito, essere-prodotto, ogni produzione dev’essere fondata dall’εἶδος. L’“avere l’aspetto”, che è colto in anticipo nella τέχνη, è ciò che determina nel suo esser-ci l’ente finito che “ci” è, ciò che lo caratterizza nel suo “esserci in quanto casa”. L’esser-ci, dunque, significa essere-finito. Dice che ogni produzione dev’essere fondata dall’εἶδος. Qui l’εἶδος – mi sembra che poi lo dica – lo accosta al τέλος. Il τέλος è il compimento, il compiuto, è la forma che ha qualcosa quando è compiuta, se non è compiuta non ha forma. Pensiamo la cosa rispetto al linguaggio. Torniamo all’esempio “Se piove predo l’ombrello”. Il “se” non è finito, non è compiuto, ha bisogno di essere compiuto in una forma, in una configurazione. Quell’εἶδος, di cui parla Aristotele, è l’“allora prendo l’ombrello”, è questo che dà la forma, che rende finita la cosa, quindi, torno a dire, utilizzabile. È sempre questo che importa in una proposizione, e cioè che sia utilizzabile, ed è utilizzabile solo se è finita, se cioè ha preso forma. Ma come fa a prendere forma? Naturalmente, occorre che si fermi. Dicevamo “se piove prendo l’ombrello” e non “mi chiudo in casa” o infinite altre cose; no, faccio quella cosa lì, “prendo l’ombrello”. La rendo finita e utilizzabile in questo senso: non do altre possibilità, questa inferenza non dà altre possibilità. Rendere finito è rendere il conseguente un ente metafisico. Metafisico nel senso che è quello che è, perché non è più in relazione con altro. È come se questo “allora prendo l’ombrello” non fosse più in relazione con altre cose, ma si chiude lì. È l’unico modo per poterlo utilizzare, ché se lasciassi aperta, come di fatto permane, la questione, allora il “se piove” non troverebbe mai una conclusione, una fine: il “se piove allora tutto” e non sarebbe più utilizzabile. Questo ci suggerisce che la metafisica non sia altro che la utilizzabilità del linguaggio. Se un ente non si ponesse metafisicamente, cioè non trovasse la sua chiusura, non sarebbe mai utilizzabile e il linguaggio si dissolverebbe e insieme con lui tutto quanto. Finché si vede la casa nel suo aspetto, non la si vede isolata, in quei particolari momenti, in quella particolare ora del giorno, con quella luce, abitata da quelle persone particolari, poiché ciò che vediamo è piuttosto questo ente che “ci” è… Qui c’è già un richiamo da parte di Aristotele, anche se qui parla Heidegger, sempre al tutto. Così come lo si vede mediamente in quanto casa, come lo si vive giorno per giorno nella quotidianità, quell’ente che, nell’averci a che fare, ci appare come questo qualcosa nella medietà del presente. Ciò che si fa incontro, mediamente, nel suo aspetto, costituisce l’esserci. È inutile chiedersi in che senso i greci avrebbero concepito l’essere “individuale” in quanto concreta determinazione dell’esserci. Al greco non passa nemmeno per la mente di vedere il questo hic et nunc l’autentico “Ci”. Hic et nunc sarebbe l’astratto. Per i greci non è l’autentico cogliere le cose; le cose possono essere colte soltanto in relazione al tutto. La metafisica toglie la relazione al tutto per determinare l’astratto. Seguendo il filo conduttore degli ἒργα τέχνης (atti tecnici), come definisce e come vede Aristotele i φύσει ὅντα (enti di natura), identificati come il vivente? La prima questione è: come si mostra il φύσει ὅν? Qual è l’aspetto primario in cui questi enti si mostrano? Qui cita Aristotele. “Ovunque ci rivolgiamo a ciò che ci si fa incontro intendendolo come τόδε τοῦδε ἓνεκα, questo qui per quest’altro. Come ci si fa incontro il mondo se non questo qui per quest’altro, cioè, nella relazione? Ci sta dicendo che ogni cosa è in relazione, non c’è qualche cosa se non è in relazione. Qui facciamo un passo indietro: sì, certo, è così, ma se ciascuna cosa è sempre e necessariamente relata a un’altra, non c’è modo di arrestare questa cascata, che molti secoli dopo sarebbe stata chiamata semiosi infinita e che impedisce di determinare una qualunque cosa, che rimane sempre indeterminata, rimane πειρον, quindi, inutilizzabile – πειρον significa anche inutilizzabile. Per poterlo utilizzare devo fermare questo “essere in relazione”, perché questo mi rinvia a quello, quello a quell’altro, e così via, per cui dove mi fermo? Lo diceva anche Tommaso che a un certo punto bisogna fermarsi, non possiamo andare avanti all’infinito. Aveva ragione a modo suo, perché se non ci fermiamo, cioè se non determiniamo metafisicamente un qualche cosa, noi non possiamo parlare. Ciò nondimeno lui insiste su questo aspetto, e cioè che non c’è altro che relazione. Quand’è che abbiamo la condizione primaria dei dati di fatto fenomenici, dell’ente che ci si fa incontro, che ci consente di rivolgerci a esso in questo modo? Cioè, come qualcosa. Risposta: ovunque “e ogni volta che si mostra qualcosa come un “essere finito”, un “alla fine”, qualcosa a cui il movimento perviene come alla sua fine, e per la precisione in modo tale che niente lo ostacola, dunque liberamente”. L’essere finito è la condizione perché si dia l’ente. Possiamo porla anche così: l’ente c’è in quanto finito. È il miracolo che compie l’inferenza: se A allora B. L’“allora B” mi dice anche che cos’è la A, perché la A è solo se B: questa è la “magia” dell’inferenza, e cioè il conseguente rende l’antecedente quello che è. Questo lo aveva intuito anche Hegel, a proposito dell’in sé e del per sé: è il per sé che torna sull’in sé a dare all’in sé il suo essere, il suo essere qualcosa. L’esperienza primaria è il vedere qualcosa che si muove da sé in quanto essere-finito. L’elemento costitutivo è: qualcosa è in movimento, e precisamente in modo tale da pervenire a una fine. Finché il “se” non perviene alla sua fine, attraverso l’“allora”, non c’è la possibilità neanche di cogliere questo movimento; possiamo coglierlo nel momento in cui questo movimento giunge alla fine. “È chiaro quindi che questo qualcosa è ciò che chiamiamo φύσις”. Ovunque vediamo qualcosa che ha queste caratteristiche ci rivolgiamo a esso nel modo del τόδε τοῦδε ἓνεκα (questo qui per quest’altro). È la stessa cosa del λέγειν τί κατά τίνός, dico qualcosa in vista di qualche cos’altro. Quando ci si fa incontro qualcosa che è un qualcosa di questo genere, è a esso che ci rivolgiamo manifestamente in quanto φύσις. È questo l’oggetto che noi vediamo, che chiamiamo natura. Il dato di fatto fondamentale che caratterizza il senso della φύσις come un modo dell’esserci è un essente-finito, nel quale essere-finito, essere-divenuto, esso è tolto-e-conservato, nel suo “provenire da…”, in quanto producente se stesso. Dice una cosa interessante: un essente-finito /…/ è tolto-e-conservato /…/ nel suo “provenire da… Il conseguente è tolto dall’antecedente ma anche conservato. È un altro modo per dire la simultaneità, la coappartenenza dell’uno con l’altro. “Ora, questo dato di fatto si trova più nel campo dell’ente che designiamo come natura che nell’ambito degli oggetti presenti nel campo dell’essere prodotti, che ha lo specifico carattere del fare nel senso di una τέχνη: lo οὗ ἔνεκα (per che cosa) e il καλόν (bello). /…/ …καλόν: il “bello”, ciò che è riuscito, e che in questo essere-riuscito “ci” è in modo tale che, nel suo caso, non può essere individuato nessun difetto. Il bello è ciò che è riuscito, che non ha quindi nessun difetto. È un altro modo per intendere il τέλος, il compiuto. È stata l’esperienza del καλόν a indurre gli antichi a chiamare άναγκαῖον (necessario) questo φύσει ὅν che “riesce” sempre, ed è tale che per principio non gli può capitare nulla di avverso. Riguardo alla necessità vi è però una differenza, un duplice άναγκαῖον: 1. άναγκαῖον άπλῶς (massimamente necessario), 2. άναγκαῖον έξ ύποθέσεος. 1. “Assolutamente necessario” è ciò “che è eterno” e che esclude di per sé di essere mai divenuto. Ciò che è eterno esclude l’essere divenuto. Si tratta di un esserci che non ha bisogno dell’essere divenuto ed è incompatibile con esso. Dunque, questo “ente che “ci” è sempre nello stesso modo” è l’assolutamente necessario. Ciò che in nessun modo può essere differente da come è. 2. Nell’ente c’è però anche una necessità che è tale proprio in virtù dell’essere divenuto. Questo nesso necessario si evidenzia nella struttura del “se-allora”: se questa e quest’altra cosa debbono divenire, allora, dato questo presupposto, deve necessariamente accadere questo e quest’altro. Qui dove sta la necessità? Ci sta sottolineando che la necessità sta fra il “se” e l’“allora”. È necessario che se c’è il “se” ci sia l’“allora”, è necessario che se c’è un elemento qualunque, questo elemento rinvii a un altro che comunque deve essere finito per potere essere utilizzato. Il “se-allora” serve a questo, a poter utilizzare elementi linguistici. “Quell’ente che “ci” è, che è caratterizzato in quanto natura, fa tutto ciò, che esso stesso è, per qualcosa” – sempre in linea con il tipo di esegesi che abbiamo illustrato in precedenza. Infatti, dire che qualcosa è finito passando attraverso un movimento non significa riferirsi a una qualche oscura “teleologia”. È per questo che Aristotele può definire il φύσει ὅν (ente di natura) un έσόμενον, un ente che ha il suo essere nel “divenire un essere-così”, in modo tale, per così dire, da anticipare se stesso. Qui anticipa tutto il discorso sulla potenza e l’atto. Il “se piove” anticipa “allora prendo l’ombrello”, ma solo in questo modo il “se piove” ha il suo essere, cioè, è qualcosa. A pag. 254. Sono proprio queste determinazioni fondamentali del φύσει ὅν, così come sono emerse dalla discussione dei passi citati, a essere state all’inizio trascurate dagli antichi nella loro indagine sulla natura. Di conseguenza essi non furono nemmeno in grado di cogliere nel giusto modo il particolare essere della natura come un che di vivente. La loro visione primaria – ciò che essi videro in primo luogo – fu: l’ente che “ci” è si muove. Tuttavia il fatto che io veda un alcunché di mosso, e mi rivolga a esso in quanto mosso, non significa ancora che io colga il movimento; con ciò infatti non è ancora data la possibilità di porre in luce il movimento di questo mosso in quanto determinazione ontologica. A questo punto, però, possiamo rispondere alla domanda: che cos’è il movimento? Potremmo dire che il movimento è la relazione, ma più nello specifico è l’inferenza. L’inferenza è relazione, è ovvio. Il movimento è tra il “se” e l’allora”, dove l’antecedente, ponendosi, anticipa il conseguente, ma lo anticipa perché non può non esserci nel momento in cui si pone l’antecedente. E il conseguente fa esistere l’antecedente. È questo che rende possibile pensare il movimento, perché c’è movimento nel mio dire, movimento tra la premessa e la conclusione. Quindi, alla domanda “perché è mossa?”… da che, intanto? Potremmo dire che ciascuna cosa è necessariamente mossa, in movimento, perché è in una relazione. Ma se qualunque cosa è necessariamente in movimento, allora sorge la domanda: che cos’è la quiete? È una modalità ingenua questa di porre la questione. Se parla di movimento allora deve presupporre anche la quiete. Sì, se vogliamo, ma sarebbe come porre la questione in questi termini: se pongo il linguaggio allora pongo anche il non-linguaggio. Ma come lo pongo? Questo è il porre la questione in un modo meno ingenuo, e cioè nel modo tale per cui io so che sto parlando di parole e non di enti di natura, anche se sono enti metafisici, perché devono essere enti metafisici per poterli utilizzare. Ma so che sono stati posti come enti metafisici allo scopo di poterli utilizzare, non sono enti di natura. Soltanto considerando il movimento come un ente di natura, allora posso farmi la domanda se c’è movimento allora c’è anche la quiete. Perché dovrebbe esserci? Chi l’ha detto? Solo per una contrapposizione, perché uno è il contrario dell’altro? Certo, sono contrari, grammaticalmente, anche logicamente, così come il linguaggio e il non-linguaggio sono contrari, ma sarebbe come pensare che se io pongo il linguaggio pongo anche il non-linguaggio. Logicamente sì, anche grammaticalmente, ma la questione è un po’ più complessa, perché il linguaggio non è un ente di natura. Io pongo il linguaggio come necessità logica, ma qui necessità logica è in un’accezione particolare, cioè, è qualcosa senza la quale non esiste né il linguaggio né alcun’altra cosa. Questo è il significato che do di necessità logica. Non è una bella formulazione, ma per il momento non me ne vengono in mente altre. Il linguaggio non è un ente di natura. Anche queste sono parole. Io mi trovo ad affermare, certo, che il linguaggio non è nient’altro che quella cosa che è necessaria per pensare, dire qualunque cosa. E come lo fa? Attraverso relazioni, connettendo una cosa con un’altra. È per questo che diciamo che il linguaggio è relazione. Potremmo dire che in questo modo poniamo noi stessi il linguaggio in modo metafisico? Sì e no. Sì, perché per potere utilizzare questa parola “linguaggio” dobbiamo presumere che sia quella che è, cioè la condizione per qualunque cosa; ma anche no, perché anche la domanda che ci stiamo ponendo – se anche il linguaggio è posto come ente metafisico – deve la sua esistenza al linguaggio. A pag. 255. Discutendo in modo approfondito l’approccio degli antichi, Aristotele si avvicina sempre più alla giusta prospettiva in cui va considerato il φύσει ὅν. In tale prospettiva, e in ciò che ne risulta, incontriamo la ψυχή. Ψυχή è il vivente, vivente parlante e pensante. Ne possiamo dedurre che è il φυσικός, se è un vero φυσικός – se cioè vuole cogliere il vivente in quanto vivente –, non può non prendere in considerazione, nello stesso tempo, anche la ψυχή. Se il vivente implica l’essere in un σῶμα, allora anche il corretto coglimento del fenomeno fondamentale dei πάθη implica il σῶμα, e il φυσικός partecipa attivamente a questa scoperta. Sta dicendo una cosa che per i greci era ovvia, per noi molto meno, e cioè se vuoi occuparti dei cosiddetti enti di natura allora devi occuparti di ogni cosa, perché questo ente con cui hai a che fare non esiste al di fuori del mondo in cui sei e che sei e, quindi, devi tenere conto anche del tuo stato d’animo. Lo abbiamo visto nelle pagine precedenti, lo stato d’animo, il πάθος, determina il pensiero, lo fa andare in una direzione o in un’altra, può addirittura stabilire cosa è vero e cosa no. Lo stato d’animo è l’effetto che si produce nell’essere soddisfatti oppure no, nell’essere oppure no padroni della situazione: uno è di pessimo umore quando non è padrone della situazione. È lì che dice “tutto il mondo mi si ritorce contro”, cioè quando immagina di averne perso il controllo e, allora, il mondo fa quello che vuole lui anziché fare quello che voglio io, che sarebbe naturalmente la cosa giusta per me. Nell’ultima lezione, per una svista, ho commesso un errore su cui desidero richiamare la vostra attenzione. Partendo dalla definizione della τέχνη in quanto λόγος τοῦ ἒργον (parola che agisce) intendevo mostrare che tale λόγος in quanto τέχνη è un λόγος in tutto e per tutto determinato dalla mancanza di riferimento alla ὕλη (materia), a ciò di cui è fatto l’ἒργον in quanto tale. Il riferimento genuino alla ὕλη è il produrre. Heidegger finemente pone la ὕλη, la materia, come il produrre. L’ἂνευ ὕλης (la materia non presente, non identificata) è stato quindi chiarito in base al λόγος. Ho dimenticato però di dire che nel testo sta scritto: ὃ ἂνευ ὕλης. Dunque nel testo ἂνευ ὕλης si riferisce propriamente all’ἒργον. L’ἒργον viene visto in anticipo, e in quanto viene visto in anticipo non è ancora stato prodotto. L’ἒργον sarebbe l’utilizzabile. Qui bisogna tenere conto del fatto che il λόγος è λόγος ἒργου (parola utilizzabile)... Il λόγος è λόγος ἒργου, parola utilizzabile, cioè un discorso finito, cioè il “se-allora”. …ovvero che ciò di cui qui si parla è l’opera nel suo essere assunta in anticipo in quanto finita. Ciò implica che qui si sta parlando dell’intero contesto del produrre, il che significa che in questo λόγος si parla anche, e in modo determinato, della ὕλη. L’espressione ἂνευ ὕλης non deve indurci, in modo fuorviante, a considerare l’εἶδος come qualcosa di non sensibile. L’immagine, dice, è sensibile. Nell’ἒργον è presente la ὕλη, ma non nel senso genuino. Nell’εἶδος, che è l’anticipazione dell’ἒργον,… L’immagine è l’anticipazione del mio fare, è ciò verso cui il mio fare si muove. …è assunto in anticipo ciò che – detto in termini grossolani – può definirsi lo scopo di qualcosa, o di qualcosa di finito. A pag. 256. Qui dice una cosa importante. “Bisogna rivolgersi anzitutto all’aspetto di un ente che “ci” è di volta in volta, e ciò nella misura in cui esso ha un aspetto, il suo aspetto. Invece, all’elemento materiale, a ciò di cui tale ente è fatto, non ci si può mai rivolgere considerandolo in se stesso”. Non posso considerare la materia in se stessa. In riferimento al λόγος, quindi, la ὕλη non è autonoma, e può essere dischiusa solo a partire dall’εἶδος. Non si può cogliere la materia. Che è un altro modo per dire che non posso vedere il produrre, vedo il prodotto. È la stessa cosa che dicevano i medioevali: colgo la materia solo come materia signata, come un qualche cosa. Posso dire che quell’aggeggio è fatto di vetro, ma “il” vetro in quanto tale non lo vedo, vedo sempre un qualcosa fatto di vetro. Ne parla Aristotele nel De generatione et corruptione, dove precisa che la materia non può essere colta se non come finita, come un qualche cosa. Di fatto, quindi, la materia non la colgo mai.